Con sentenza n. 11985 del 7 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che, nell’esercizio delle proprie mansioni di cassiere, si era reso responsabile di reiterate irregolarità contabili, consistenti principalmente nell’omissione della registrazione di operazioni di vendita e nel mancato rilascio degli scontrini fiscali. Secondo la Suprema Corte, tali condotte, ancorché riferibili a importi di modesto valore e pur in assenza di un accertamento puntuale di appropriazioni indebite, sono comunque idonee a compromettere in modo irreversibile il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
I vari gradi di giudizio
La vicenda trae origine da un controllo interno attivato dall’azienda tramite una società di investigazioni, che aveva riscontrato ripetute anomalie nella gestione delle operazioni di cassa da parte del dipendente, tali da determinare l’avvio del procedimento disciplinare e il successivo licenziamento per giusta causa.
Il provvedimento espulsivo veniva impugnato giudizialmente dal dipendente.
Il Tribunale, con ordinanza resa all’esito della fase sommaria ex art. 1 commi 51 n. 92/2012, e con successiva sentenza confermativa resa nella fase dell’opposizione, accoglieva il ricorso del dipendente, annullando il provvedimento datoriale e condannando quest’ultimo al pagamento della relativa indennità risarcitoria.
Secondo il giudice di primo grado, il datore di lavoro non aveva fornito prova in merito ai fatti addebitati al dipendente. In particolare, ad avviso del giudice, i documenti contabili prodotti dalla società non risultavano attendibili, gli sbilanci di cassa riscontrati erano stati ritenuti fisiologici e privi di rilevanza disciplinare e la mera assenza di un’esatta corrispondenza tra gli importi non registrati e le eccedenze di cassa non consentiva di desumere alcuna appropriazione indebita. Inoltre, il Tribunale aveva ritenuto che l’utilizzo della medesima postazione di cassa da parte di più operatori, mediante un unico codice identificativo, rendesse incerta l’attribuzione esclusiva delle irregolarità contestate al lavoratore licenziato.

La Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il reclamo proposto dalla società e rigettato integralmente l’impugnazione del lavoratore.
Contrariamente alle valutazioni rese dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha ritenuto raggiunta la prova degli addebiti attraverso il plurimo e convergente corredo indiziario derivante dalle dichiarazioni rese dal personale investigativo e dal riscontro offerto dagli ammanchi di cassa, nonché dalla disamina critica delle prove testimoniali e documentali.
Di conseguenza, i giudici d’appello hanno ritenuto legittimo il licenziamento, osservando come le condotte accertate rappresentassero, in relazione alla funzione ricoperta dal dipendente e al di là della esiguità dei valori sottratti, una violazione grave e reiterata degli obblighi di correttezza e fedeltà, tale da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro.
La decisione della Corte di Cassazione
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi, tra cui l’omesso esame da parte della Corte d’Appello di fatti decisivi del giudizio e, in particolare, dell’asserita appropriazione del corrispettivo delle vendite.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando integralmente la decisione impugnata. Gli Ermellini hanno infatti evidenziato che, ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa, non è necessario fornire la prova di un’appropriazione indebita in senso stretto, essendo sufficiente l’esistenza di condotte che, per la loro gravità, oggettiva e soggettiva, siano idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
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