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In una causa per demansionamento lavoratore e azienda devono provare le rispettive tesi (Il Quotidiano del Lavoro, 20 aprile 2016)

20 Apr 2016

Articolo scritto da Enrico De Luca e Stefania Raviele

La Corte di cassazione, con la sentenza 25780/2015, ha affermato che, in tema di demansionamento, il lavoratore ha l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi circa l’inesatto adempimento da parte del datore di lavoro all’obbligo di adibizione a mansioni corrispondenti alla categoria e qualifica di appartenenza, mentre il datore di lavoro deve provare il corretto esercizio dello ius variandi ai sensi dell’articolo 2103 del Codice civile, secondo l’orientamento fornito dalle Sezioni unite (pronuncia 13533/2001).
Nel caso specifico lavoratore assunto come responsabile vendite veicoli commerciali, con qualifica di quadro ha citato in giudizio l’azienda al fine di ottenere il risarcimento del danno, di natura patrimoniale e non, derivante dal demansionamento subito nel periodo dal 17 giugno 2002 al 6 ottobre 2013, nonché l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli il 6 ottobre 2013.

Il Giudice di primo grado ha integralmente accolto la domanda del lavoratore e la relativa sentenza è stata impugnata dalla società. La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha confermato l’illegittimità del licenziamento e la condanna della società al risarcimento in base all’articolo 18 della legge 300/1970; ha accertato il demansionamento, ma limitato la condanna della società al solo risarcimento del danno patrimoniale.

In particolare, secondo la Corte territoriale, l’istruttoria acquisita in primo grado ha confermato che, nella primavera del 2002, la società ha pubblicamente comunicato ai venditori di veicoli commerciali la rimozione del dipendente dalla sua qualità di referente, con assegnazione ad altro lavoratore delle medesime mansioni e, nel trasferimento di sede lavorativa, il dipendente è stato lasciato nella completa inattività, non potendo più contare su di un adeguato numero di venditori né su di un numero sufficiente di veicoli commerciali.

Accertato il demansionamento, la Corte ha ritenuto, però, di limitare la condanna al solo risarcimento del danno patrimoniale, confermando per il resto la sentenza di primo grado.

La società ha presentato ricorso in Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2103 del Codice civile, per aver la Corte di merito accertato la sussistenza di un demansionamento senza aver verificato in concreto il contenuto delle nuove mansioni e per aver fondato il proprio convincimento su circostanze fattuali, come l’annuncio del mutamento di mansioni, dalle quali non sarebbe emerso l’effettivo demansionamento del lavoratore.

La Suprema corte ha ritenuto infondati tali motivi, adducendo che dalle allegazioni probatorie fornite dal lavoratore era in effetti emerso che, a partire dal mese di giugno 2002, lo stesso aveva subìto un sostanziale impoverimento delle mansioni affidategli tale da integrare una violazione del divieto di demansionamento contenuto nell’articolo 2103 del Codice civile e ha precisato che la società non ha fornito alcun elemento idoneo a contrastare tali evidenze.

La Corte di legittimità ha ribadito così il principio di ripartizione dell’onere della prova in tema di demansionamento, confermando che il lavoratore ha l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi circa l’inesatto adempimento dell’obbligo di adibizione a mansioni corrispondenti alla categoria e qualifica di appartenenza o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, mentre al datore di lavoro incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale contenuto nell’articolo 1218 del Codice civile , da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Fonte:
Il Quotidiano del Lavoro

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