La Corte consolida la linea interpretativa volta a garantire maggiori tutele ai lavoratori impiegati nell’ambito delle esternalizzazioni

La Cassazione torna sulla distinzione tra contratto di trasporto e appalto di servizi, riaffermando il principio per cui la sostanza prevale sulla forma contrattuale scelta dalle parti

Con la sentenza n. 22541 del 4 agosto 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, è tornata a pronunciarsi sul delicato confine tra contratto di trasporto e appalto di servizi, confermando le sentenze di primo e secondo grado che avevano riqualificato i contratti di trasporto intercorsi tra le parti in contratti di appalto di servizi e, per l’effetto, condannato il committente al pagamento delle differenze retributive dovute ai lavoratori impiegati nell’esecuzione del servizio.

Nello specifico, la Cassazione ha ribadito che, a prescindere dagli accordi formalmente intercorsi, quando un rapporto presenta i tratti tipici dell’appalto – e non del mero rapporto di trasporto o sub-trasporto – si applica il regime di responsabilità solidale previsto dall’art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003.

Il caso di specie

La vicenda traeva origine da una serie di contratti stipulati dalla committente con un appaltatore e un subappaltatore, formalmente inquadrati come contratti di trasporto e sub-trasporto, ma nella sostanza volti ad assicurare un servizio di logistica e trasporto, svolto in modo stabile e continuativo nel tempo.

I giudici di merito avevano accertato che l’attività in concreto svolta dall’appaltatore e dal subappaltatore non si limitava al trasporto e alla connessa movimentazione di merci, ma comprendeva operazioni accessorie e autonome – quali carico e scarico, etichettatura, gestione dei contrassegni e conservazione della documentazione – svolte dalle imprese affidatarie con propria organizzazione d’impresa, mediante l’impiego di mezzi e personale propri.

Tali elementi avevano condotto i giudici a riqualificare il rapporto come appalto di servizi, con conseguente applicazione della disciplina della responsabilità solidale tra committente, appaltatore e subappaltatore.

Il percorso argomentativo seguito dalla Cassazione

Nel confermare la bontà delle statuizioni del primo e del secondo grado di giudizio, la Cassazione analizza la fattispecie a partire dalla normativa di riferimento.

In particolare, il contratto di trasporto, disciplinato dall’art. 1678 c.c., si configura come un accordo con cui il vettore si obbliga a trasferire persone o cose da un luogo a un altro, dietro corrispettivo, eseguendo una prestazione tipicamente esecutiva e priva di autonoma organizzazione. 

Diversamente, l’appalto di servizi, ai sensi dell’art. 1655 c.c. e dell’art. 29 D. Lgs. 276/2003, richiede che l’appaltatore assuma un’obbligazione di risultato mediante un’organizzazione di mezzi e persone propri e a proprio rischio.

Nel tempo, la giurisprudenza ha poi elaborato una serie di indici (peraltro ripercorsi dalla Circolare del Ministero del Lavoro n. 17 dell’11 luglio 2012) la cui esistenza permette di accertare, di volta in volta, l’esistenza di un rapporto di appalto di servizi diverso dal mero trasporto, ossia: la pluralità e continuità delle prestazioni nel tempo, la pattuizione di un corrispettivo unitario per l’attività complessivamente volta, la presenza di prestazioni accessorie, l’autonomia organizzativa e l’assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore/subappaltatore.

Ebbene, alla luce di tutto quanto sopra, la Cassazione, nel confermare integralmente le decisioni di merito, ha precisato che il criterio distintivo tra contratto di trasporto e appalto di servizi risiede nella presenza di una vera e propria organizzazione imprenditoriale del soggetto incaricato del servizio, capace di gestire in autonomia l’attività e di assumersi il relativo rischio economico. È stato così riaffermato il principio, ormai consolidato, secondo cui il rapporto deve essere qualificato come appalto di servizi di trasporto ogniqualvolta il prestatore metta a disposizione una struttura organizzata di mezzi e persone, svolgendo un’attività continuativa e complessa che va oltre la singola prestazione del trasporto di beni.

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La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza del 9 ottobre 2025, n. 27132, ha statuito che l’impresa destinataria di un verbale unico di accertamento e notificazione emesso dall’Ispettorato del lavoro ha interesse ad agire in giudizio per chiederne l’annullamento anche in assenza di successivi provvedimenti dell’INPS, qualora tale verbale contenga contestazioni idonee a determinare recuperi contributivi.

Il fatto e il giudizio di merito

Una società aveva impugnato davanti al Tribunale di Firenze un verbale ispettivo emesso a seguito di accertamenti svolti presso un proprio cantiere, sostenendo che l’atto le arrecava un pregiudizio concreto, specie in relazione alla sua posizione contributiva presso l’INPS. Il Tribunale di primo grado dichiarava il ricorso inammissibile per carenza di interesse ad agire, ritenendo che il verbale non avesse effetti lesivi immediati.

La società proponeva appello, ma la Corte d’Appello confermava la decisione assunta dal Tribunale. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, il verbale dell’Ispettorato si limitava a segnalare violazioni e a trasmettere gli atti agli enti competenti, senza determinare un obbligo contributivo concreto: solo un eventuale provvedimento dell’INPS avrebbe potuto generare un interesse attuale e concreto alla impugnazione giudiziale.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della società, ha cassato la sentenza d’appello e rinviato la causa alla Corte di Firenze per un nuovo esame. Secondo la Suprema Corte, il verbale unico di accertamento e notificazione non può considerarsi un atto neutro o privo di effetti lesivi, poiché esso attesta violazioni che possono comportare recuperi contributivi da parte degli enti previdenziali.

In virtù di ciò, il datore di lavoro è esposto al rischio concreto di vedersi preclusa la regolarità contributiva e, di conseguenza, la possibilità di ottenere il DURC o di partecipare a gare pubbliche.

La Cassazione ha precisato che tale impostazione si distingue da quella seguita in materia di sanzioni amministrative, dove l’interesse ad agire sorge solo con l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione. In ambito previdenziale, invece, l’art. 24, comma 3, del D.Lgs. 46/1999 riconosce l’ammissibilità dell’azione di accertamento negativo contro il verbale contenente la pretesa contributiva.

Negare tale interesse integrerebbe una violazione dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 24 Cost., poiché impedisce la tutela giurisdizionale contro un atto idoneo a generare conseguenze giuridiche sfavorevoli.

Conseguentemente, la Suprema Corte ha statuito che, ove il verbale contenga violazioni idonee a dar luogo a recuperi contributivi, il destinatario ha interesse ad agire in accertamento negativo per rimuovere l’incertezza sulla sussistenza e sui contorni reali del rapporto lavorativo, e tanto radica un interesse concreto perché serve ad evitare che si blocchi il diritto all’emissione del DURC e, in ultima analisi, ad evitare che da quell’atto e quell’accertamento nascano obbligazioni contributive che il destinatario sarà, di seguito, tenuto a fronteggiare.

Le implicazioni negative dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, nel rispetto degli obblighi facenti capo al lavoratore, rappresentano giusta causa di licenziamento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31866 dell’11 dicembre 2024, ha statuito che la condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma altresì, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

Giusta causa e condotte extra lavorative: excursus giurisprudenziale

Come noto, con l’art. 2119 c.c. il legislatore ha definito come giusta causa di recesso «una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» e, dunque, un fatto, attribuibile a uno dei contraenti, che sia di gravità tale da rendere qualsiasi altra opzione diversa dal recesso immediato inattuabile, siccome insufficiente ad offrire tutela dell’interesse della parte recedente.

La nozione di giusta causa affonda le proprie radici nella ampiezza della sua formulazione, essendo non a caso ricompresa nel novero delle c.d. “clausole generali” (Cass. 8 maggio 2018, n. 10964): si tratta di una nozione aperta, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione di elementi di fatto (anche relativi all’evolversi della coscienza sociale e della percezione di gravità di determinati accadimenti) e di diritto.

Richiamando le parole della Suprema Corte, la “giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (Cass., 30 settembre 2022, n. 28515). È stato peraltro ribadito, anche recentemente, che la valorizzazione di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, è parte integrante del processo interpretativo (Cass. 22 agosto 2024, n. 23029)

Nel delineare la casistica dei comportamenti del lavoratore suscettibili di costituire giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha stabilito che la lesione del vincolo fiduciario possa essere conseguenza sia di un inadempimento agli obblighi previsti dal contratto di lavoro sia di una condotta tenuta dal lavoratore in ambito extra-lavorativo.

Il lavoratore è, infatti, tenuto al rispetto – oltre che degli obblighi contrattuali – degli obblighi accessori di comportamento che, pure in ambito “extra-lavorativo”, impongono di tutelare gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro e la cui violazione determina il venir meno della fiducia anche in relazione al futuro corretto adempimento della prestazione.

A titolo esemplificativo, in diverse occasioni la giurisprudenza ha qualificato come giusta causa di recesso comportamenti adottati in violazione del cd. “minimo etico”, intendendosi per tale un comportamento che il lavoratore, non diversamente da ogni altra persona, può rappresentarsi come contrario ai principi alla base della convivenza civile o ai principi di correttezza e buona fede.

Si pensi ad esempio al licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro ad un dipendente con mansioni di conducente di scuolabus a seguito della condanna penale definitiva inflittagli per aver compiuto atti idonei, in modo non equivoco, a cagionare l’interruzione della gravidanza della compagna. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del recesso in ragione dell’oggettiva gravità del reato ascritto e considerato il disvalore sociale dell’atto avente un riflesso diretto sull’immagine del datore di lavoro (Cass. 3 aprile 2024, n. 8728).

E ancora, la detenzione, in ambito extra-lavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è stata ritenuta in grado di incidere in maniera particolarmente grave il rapporto di lavoro, in termini di prognosi futura circa l’affidabilità del dipendente, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito (Cass. 6 agosto 2015, n. 16524. Nel caso di specie, la Suprema Corte confermava la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto particolarmente grave in termini di prognosi futura di affidabilità la condotta del dipendente, “chef de rang” di un ente termale, normalmente addetto al cd. “room service”, attese le mansioni svolte, implicante contatti con il pubblico, e l’acquisto dello stupefacente da un collega).

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Ogni incentivo datoriale rivolto ai lavoratori per indurli a rinunciare alle ferie ovvero a sollecitarli a rinunciarvi deve ritenersi in contrasto con il principio di irrinunciabilità delle ferie e con il diritto del lavoratore a vedersi garantito il beneficio di un riposo effettivo.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13613/2020 ha chiarito che: “Il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio fondamentale del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88. Non è compatibile con l’art. 7 della predetta direttiva, una normativa nazionale che preveda una perdita automatica del diritto alle ferie annuali retribuite, non subordinata alla previa verifica che il lavoratore abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tale diritto, infatti il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti”.

Pertanto, il mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro si sarebbe posto non solo in contrato con

  • l’art. 7 “Ferie annuali” della direttiva 2003/88 secondo cui: “1.Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.”;
  • ma anche con l’art. 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25355 del 9 ottobre 2019, ha affermato che il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipendium da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore, è tenuto ad allegare circostanze di fatto specifiche e a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative. L’antefatto che la Suprema Corte ha esaminato, è stato, in estrema sintesi, il seguente. Un liquidatore di sinistri veniva licenziamento dalla Compagnia Assicurativa presso cui prestava la propria attività lavorativa all’esito di un procedimento disciplinare azionato nei suoi confronti per aver tenuto una condotta gravemente colposa. In particolare, al lavoratore era stato contestato di non aver effettuato in 18 episodi, prima di disporre i pagamenti, tutta l’attività propedeutica ed istruttoria necessaria ad accertare il reale verificarsi nonché la dinamica degli accadimenti relativi ai sinistri e delle conseguenti lesioni denunciate. Il Tribunale di Cosenza aveva respinto l’opposizione ex art. 1, comma 51, della L. 92/2012, proposta dal lavoratore e dalla Compagnia assicurativa avverso l’ordinanza emessa nella fase sommaria. Con essa, in parziale accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, era stato dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannata la Compagnia Assicurativa al pagamento di una indennità pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Compagnia assicurativa proponeva reclamo in appello ed il lavoratore si costituiva proponendo reclamo incidentale. La Corte distrettuale riteneva insussistenti i 18 episodi contestati, osservando, peraltro, che “il ragguardevole carico di lavoro attribuito al lavoratore rendesse (comunque) inesigibile (ndr avesse comunque reso inesigibile) la conoscenza delle anomalie che, invero, erano state (asseritamente) rilevate, dalla parte datoriale, solo a seguito di una dispendiosa e merita attività di indagine”. La Corte di appello territorialmente competente accoglieva così il reclamo incidentale del lavoratore ed annullava il licenziamento ad esso intimato, ordinando: – da un lato, alla Compagnia assicurativa di reintegrare il lavoratore e condannandola al versamento, con decorrenza dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegra, dei contributi previdenziali e assistenziali, oltre interessi, – dall’altro, al lavoratore di restituire la somma pari a 8 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori dalla percezione al soddisfo. Non solo. La Corte d’Appello rigettava l’eccezione di compensazione dell’aliunde perceptum o percipendium sollevata da parte datoriale, sostenendo che non erano stati offerti “elementi specifici, idonei a dar conto di un minor danno da risarcire”. Avverso tale sentenza, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso, affidato a quattro motivi, e il lavoratore resisteva con controricorso. Di nostro interesse, si rivela soltanto il quarto motivo di impugnazione con cui l’Impresa di Assicurazione ha denunciato l'”omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la critica afferisce al rigetto dell’eccezione di aliunde perceptum et percipendium; la parte ricorrente imputa alla Corte di Appello di non aver effettuato i necessari approfondimenti al riguardo, come era invece, suo onere”. La Suprema Corte, nel rigettare il predetto motivo di impugnazione, ha, tra le altre, sottolineato come la Corte d’appello avesse fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui “il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipiendum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (ex plurimis, Cass. Nr. 4999 del 2017)”.

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