Con l’ordinanza n. 7615 del 15 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di una lavoratrice per superamento del periodo di comporto, nonostante le fossero state negate le ferie precedentemente richieste. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il diniego opposto dal datore di lavoro, in quanto motivato da comprovate esigenze organizzative aziendali, idonee a giustificare la mancata concessione del periodo feriale.

Nel caso in esame, dapprima, la lavoratrice aveva richiesto il godimento delle ferie in un momento in cui non dichiarava alcuna patologia e, successivamente, era intervenuto un nuovo periodo di malattia che aveva comportato il superamento del periodo comporto. Nella specie, la richiesta di ferie era stata avanzata in un periodo in cui l’organico dell’azienda risultava ridotto per l’assenza contemporanea di tre dipendenti su sette, circostanza che aveva portato il datore di lavoro a negare legittimamente la fruizione delle stesse.

Sul punto, gli Ermellini hanno evidenziato come, nel caso di specie, non ricorrevano due condizioni essenziali: da un lato, l’assenza di uno stato di malattia al momento della richiesta di ferie; dall’altro, la mancata richiesta, da parte della dipendente, di fruire delle ferie per interrompere il comporto. Inoltre, la lavoratrice non aveva manifestato alcun interesse a interrompere il decorso del periodo di comporto una volta insorto il nuovo evento morboso.

In particolare, i giudici di legittimità hanno ribadito che le ferie possono interrompere il periodo di comporto solo se richieste durante uno stato di malattia o se la malattia sopraggiunge nel corso delle ferie.

In conclusione, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto opposto dal datore di lavoro, in quanto la lavoratrice aveva chiesto il godimento delle ferie in un periodo in cui non dichiarava alcuna patologia e pertanto, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 2109 c.c., secondo cui spetta al datore di lavoro determinare il periodo di fruizione delle ferie, nel rispetto del bilanciamento tra le esigenze organizzative dell’impresa e gli interessi del lavoratore. Di conseguenza, il licenziamento per superamento del periodo di comporto è stato dichiarato legittimo.

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Con la recente pronuncia n. 17643 del 20 giugno 2023, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui la prescrizione del diritto del lavoratore a ricevere l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro dimostri di aver messo il lavoratore nelle condizioni di godere delle ferie maturate.

Nello specifico, il datore di lavoro deve offrire la prova di avere invitato il lavoratore a fruire delle ferie in tempo utile a garantire che le stesse siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e lo svago cui sono finalizzate. Inoltre, il datore di lavoro deve aver avvisato il lavoratore del fatto che, in caso di mancato godimento delle ferie, queste andranno perse al termine del periodo di riferimento.

Nel caso al vaglio della Corte di Cassazione, una lavoratrice, in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, ha adito il Tribunale di Milano chiedendo, tra le altre domande, la condanna del datore di lavoro a corrisponderle una somma a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute.

Il Tribunale ha parzialmente accolto la richiesta della lavoratrice, mentre la Corte d’Appello di Milano ha accolto l’appello incidentale della lavoratrice, riconoscendole il diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie per un totale di 248 giorni (invece che di 124 giorni come disposto dal Tribunale in primo grado).

Il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, insistendo, tra l’altro, sulla prescrizione del diritto della lavoratrice, stante la prescrizione decennale dell’indennità sostitutiva delle ferie che deve decorrere in costanza di rapporto di lavoro.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, confermando le pronunce dei giudici di merito, ha affermato che la prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti “decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”.

In definitiva, dunque, è meglio non rinviare le ferie quando è il datore di lavoro a invitarne la fruizione per evitare il rischio di perderne definitamente il diritto, compreso quello relativo alla monetizzazione prevista alla fine del rapporto lavorativo.

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Ogni incentivo datoriale rivolto ai lavoratori per indurli a rinunciare alle ferie ovvero a sollecitarli a rinunciarvi deve ritenersi in contrasto con il principio di irrinunciabilità delle ferie e con il diritto del lavoratore a vedersi garantito il beneficio di un riposo effettivo.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13613/2020 ha chiarito che: “Il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio fondamentale del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88. Non è compatibile con l’art. 7 della predetta direttiva, una normativa nazionale che preveda una perdita automatica del diritto alle ferie annuali retribuite, non subordinata alla previa verifica che il lavoratore abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tale diritto, infatti il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti”.

Pertanto, il mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro si sarebbe posto non solo in contrato con

  • l’art. 7 “Ferie annuali” della direttiva 2003/88 secondo cui: “1.Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.”;
  • ma anche con l’art. 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13613/2020, ha affermato che il datore di lavoro è tenuto a pagare al dirigente le ferie non godute a meno che non prova di averlo messo nelle condizioni di poterne fruire, avvisandolo per tempo e anticipandogli che in caso di mancato godimento le avrebbe perdute.

I fatti di causa

Nel caso di specie, al momento di cessazione del rapporto di lavoro, l’AUSL – datore di lavoro non aveva riconosciuto a un dirigente medico – direttore di struttura complessa – l’equivalente economico delle ferie annuali non godute. Il dirigente adiva così l’autorità giudiziaria per la tutela dei suoi diritti.

I giudici aditi sottolineavano che l’AUSL – datore di lavoro – non aveva dimostrato (come avrebbe dovuto fare in virtù del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite) che il dirigente medico era stato realmente messo nelle condizioni di fruire delle ferie annuali.

A dire della corte territoriale, il mancato versamento dell’indennità per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro si sarebbe posto in contrato con

  • l’art. 7 “Ferie annuali” della direttiva 2003/88 e
  • l’art. 36 della Costituzione.

L’AUSL soccombente depositava così ricorso in Cassazione avverso la sentenza della corte territoriale, affidandosi a tre motivi.

La decisione della Corte di Cassazione

Due dei tre motivi di ricorso – ritenuti infondati – incentrati sul principio di autodeterminazione delle ferie da parte del dirigente sono stati trattati congiuntamente dalla Corte in ragione della loro intima connessione.

A norma dell’art. 21, co. 8, del CCNL di settore “le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili, salvo quanto previsto nel comma 13. Esse sono fruite, anche frazionatamente, nel corso di ciascun anno solare in periodi programmati dallo stesso dirigente nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’azienda o ente; in relazione alle esigenze connesse all’incarico affidato alla sua responsabilità, al dirigente è consentito, di norma, il godimento di almeno 15 giorni consecutivi di ferie nel periodo da 1  giugno al 30 settembre”, trattandosi, a ben vedere, di una forma di autodeterminazione non assoluta ma relativa.

In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, l’AUSL avrebbe dovuto sollecitare la fruizione delle ferie da parte dell’interessato tanto più che il dirigente nel decidere di fruirne o meno avrebbe dovuto tener conto, a norme della disposizione citata, dell’assetto dell’azienda in relazione alle esigenze connesse all’incarico affidato alla sua responsabilità.

A fronte di tale fattispecie concreta, la Cassazione ha confermato l’irrinunciabilità del diritto alle ferie, garantito dall’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, richiamando a supporto di tale lettura, l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-619/16 in cui si ribadiva che “il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuitedeve essere “considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare (…).

In sostanza, a parere della Corte di Cassazione, il datore di lavoro è tenuto “ad assicurarsi concretamente e in piene trasparenza che il lavorare sia posto effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato o, ancora, alla cessazione del rapporto di lavoro se quest’ultima si verifica nel corso di un simile periodo”. In merito a ciò l’onere della prova grava sul datore di lavoro.

E nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la AUSL non è stata in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il dirigente fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto. Pertanto, confermando quanto edotto dai giudici di merito, la stessa è giunta alla conclusione che il mancato versamento al dirigente sanitario della indennità per le ferie annuali non fruite all’atto della cessazione del rapporto di lavoro era in contrato con gli artt. 36 Cost. e 7 della Direttiva 2003/88.

Guida al Lavoro pubblica un contributo a firma di Vittorio De Luca e Antonella Iacobellis a proposito della gestione ferie in tempi di coronavirus.

Il Governo, con gli ultimi provvedimenti emanati, ha individuato i possibili strumenti a disposizione dei datori per la gestione dei rapporti di lavoro nell’ambito dell’emergenza Covid-19 tra i quali la “raccomandazione” a “promuovere la fruizione dei periodi di ferie”. Poiché “raccomandare” non deve significare consentire al datore il potere di derogare alle norme di legge che regolano l’istituto delle ferie, l’imposizione del datore di lavoro della fruizione da parte dei propri dipendenti di periodi di ferie deve essere attentamente ponderata.

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