Con l’ordinanza n. 11765 del 5 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha sancito la nullità del patto di non concorrenza caratterizzato da un’estensione territoriale eccessiva e da un corrispettivo esiguo, tali da determinare una limitazione sproporzionata e ingiustificata della capacità professionale e reddituale del lavoratore.

Nel caso in esame, un istituto bancario aveva imposto a un proprio dipendente un vincolo concorrenziale estremamente restrittivo, esteso potenzialmente a tutto il territorio nazionale ed estero, con durata prolungata e con corrispettivo modesto (10% della RAL). Nello specifico, il patto prevedeva l’impossibilità per il lavoratore di svolgere alcuna attività lavorativa nell’ambito creditizio, assicurativo e finanziario, con assoluta e totale compromissione della capacità lavorativa per 12 mesi.

La Corte territoriale aveva già dichiarato nullo il patto, rilevando la mancanza di determinatezza – o almeno determinabilità – dei limiti territoriali del vincolo, aggravata dalla facoltà del datore di modificare l’ambito geografico di applicazione attraverso lo ius variandi, rendendo incerta e mutevole la portata di tale divieto.

La Cassazione ha confermato il predetto orientamento, sottolineando che, ai sensi degli artt. 1346 e 2125 c.c., la validità del patto è subordinata:

  • alla determinatezza o alla determinabilità dei limiti di oggetto – di tempo e di luogo del patto di non concorrenza – sin dalla stipula;
  • alla proporzionalità del corrispettivo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore;
  • al fatto che il vincolo non sia di ampiezza tale da comprimere in modo assoluto l’attitudine del lavoratore a collocarsi sul mercato del lavoro.

Con specifico riferimento all’estensione territoriale del patto di non concorrenza, gli Ermellini hanno ritenuto corretto il giudizio di nullità espresso dalla Corte territoriale, che aveva individuato come affetta da indeterminatezza la clausola che rimetteva al datore di lavoro, mediante l’esercizio dello ius variandi, la facoltà unilaterale e discrezionale di modificare l’ambito geografico del patto di non concorrenza. Tale configurazione contrattuale risultava, infatti, priva di limiti determinati o quantomeno determinabili ex ante, compromettendo, così, la certezza del vincolo.

La Suprema Corte ha quindi ribadito che un patto di non concorrenza, per essere valido, deve rispondere a criteri di equilibrio e ragionevolezza, tali da non privare il lavoratore della possibilità concreta di esercitare la propria professionalità e il diritto dello stesso a percepire un compenso che sia proporzionato al sacrificio subito.

In conclusione, l’imposizione di un patto eccessivamente penalizzante per il lavoratore, privo di reali margini di autodeterminazione e di compensi congrui, comporta la nullità dell’intero accordo, a tutela dell’autonomia professionale e della libera circolazione del lavoro.

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Subordinare l’applicazione del patto al mantenimento delle mansioni originarie introduce un elemento di indeterminatezza che travolge l’intero patto di non concorrenza.

A confermare tale principio è stata la corte di cassazione con ordinanza n. 10679 del 19 aprile 2024. Nel caso di specie il patto di non concorrenza prevedeva che, se fossero mutate le mansioni del dipendente in costanza di rapporto, quest’ultimo decorsi 12 mesi dalle nuove mansioni, sarebbe stato libero dall’obbligo di non concorrenza. Inoltre, il patto prevedeva che l’area geografica in cui operava l’obbligo di non esercitare attività in concorrenza si riferiva al Veneto e a un ulteriore ambito che la società si riservava di definire all’atto della cessazione del rapporto.

Alla luce di quanto sopra ne consegue che gli elementi che qualificano il contenuto del patto di non concorrenza devono essere determinati “ex ante” ed eventuali clausole che comportano l’indeterminatezza dello stesso (quali la modifica delle mansioni o del territorio) ne determinano la nullità.

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Il corrispettivo del patto di non concorrenza: come operano i profili di nullità (Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2021 – Vittorio De Luca, Antonella Iacobellis)

La sempre maggiore competitività sul mercato fa avvertire sempre più frequentemente l’interesse da parte degli imprenditori a tutelarsi contro la possibile diffusione in favore di imprese concorrenti del know-how aziendale (dati, processi di lavorazione, nozioni aziendalistiche, nominativi riservati della clientela) acquisito dai propri dipendenti durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Il Patto di non concorrenza, così come disciplinato dall’art. 2125 del Codice civile, rappresenta uno degli strumenti a disposizione delle aziende per tutelare tale interesse a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. La validità del patto soggiace tuttavia a precise regole e limiti solo in parte definiti dalla legge. Il Webinar si prefigge dunque l’obiettivo di far luce sulle principali criticità e opportunità della fattispecie limitativa della concorrenza nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato fornendo ai partecipanti le indicazioni utili per una sua corretta applicazione pratica.

Data : 9 Marzo 2022
Orario : ore 10:00 – 11:00


Relatori: 

Avv. Enrico De Luca – Partner – De Luca & Partners 

Avv. Luca Cairoli – Associate – De Luca & Partners


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Con ordinanza n. 23418 del 25 agosto 2021, la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema dei requisiti di validità del patto di non concorrenza. La pronuncia della Corte trae origine dal ricorso proposto da un dirigente bancario che (tra altre rivendicazioni avanzate) aveva impugnato il patto di non concorrenza sottoscritto, ritenendolo viziato, in quanto, essendo il corrispettivo erogato in costanza di rapporto, era aleatorio e comunque incongruo, ciò integrando una violazione del requisito disposto dall’art. 2125 cod. civ. Nel caso di specie, il patto di non concorrenza prevedeva un impegno del dirigente a non svolgere, in determinate regioni del nord e centro Italia, attività o mansioni analoghe a quelle svolte per la Banca per la durata di tre mesi, a fronte di un corrispettivo pari ad 10.000 euro annuali, da corrispondersi annualmente unitamente alla retribuzione mensile.

Il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi nel merito, aveva riconosciuto e dichiarato la nullità del patto di non concorrenza, con ciò liberando il dirigente dal pagamento delle penali previste per la sua violazione, condannando però il ricorrente alla restituzione della somma percepita a titolo di corrispettivo. In sede di successiva impugnazione della sentenza, la Corte di Appello di Milano, riformando la pronuncia di primo grado sul punto, dichiarava la validità del patto di non concorrenza, non ritenendo sussistere un vizio (né sotto il profilo della aleatorietà né sotto il profilo della congruità) in ordine alla quantificazione del corrispettivo che, al contrario, poteva, a giudizio della Corte, essere validamente riconosciuto in corso di rapporto unitamente alla retribuzione. Avverso la decisione di secondo grado, il dirigente proponeva ricorso per cassazione.

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Patto di non concorrenza – Nullità del patto – Corrispettivo – Onerosità del patto – Determinazione/Determinabilità del corrispettivo

Corte di Cassazione, 1 marzo 2021, n. 5540

In riferimento al patto di non concorrenza stipulato con lavoratore subordinato, la semplice previsione dell’onerosità del patto esclude che, in caso di squilibrio economico delle prestazioni, possa applicarsi la sanzione estrema della nullità nel negozio, fatte salve le ipotesi di pattuizione di compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno”.

Il fatto

La Corte di Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado,

  • dichiarava la nullità del patto di non concorrenza stipulato tra la società e una lavoratrice,
  • condannava la società alla restituzione della somma versata in esecuzione della sentenza di prime cure,

così argomentando: “il patto in oggetto è nullo perché manca la determinazione o la determinabilità del corrispettivo riconosciuto a favore del lavoratore a fronte delle limitazioni professionali imposte dal datore di lavoro e per conseguente impossibilità, per il lavoratore e poi per il giudice, di verificare la sua congruità in relazione al sacrificio professionale richiesto”.

Sosteneva, infatti, il giudice territoriale che dalla lettura delle clausole del patto risultava evidente che non era stata prevista una durata minima del detto patto o la corresponsione a favore del lavoratore di un importo minimo garantito e predeterminato a priori nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro.

In breve, il patto era strutturato in maniera tale che, in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro, al dipendente non spettasse l’intero compenso cioè 18.000 euro lordi (6.000 euro lordi x 3 anni), ma solo quanto maturato durante l’anno o frazione dello stesso.

L’ammontare del compenso, quindi, non era fisso e neppure determinabile in base a parametri oggettivi, ma dipendente da una variabile legata alla durata del rapporto, il che determinava uno squilibrio tra le parti ed un assetto contrattuale sbilanciato a favore del datore di lavoro rendendo del tutto incongruo il corrispettivo stabilito e determinando pertanto la nullità del patto in esame.

La società avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione deducendo che la sentenza della corte di merito evidenziava un forte contrasto fra affermazioni inconciliabili, oltre che una motivazione obiettivamente incomprensibile. Resisteva con controricorso la lavoratrice.

La decisione della Corte di Cassazione

Per la Suprema Corte la censura del datore di lavoro risultava fondata e a sostegno della propria decisione, precisava quanto segue.

Il patto di non concorrenza – una fattispecie negoziale autonoma – dotata di una propria causa (Corte di Cassazione, sentenza n. 16489/2009) non è altro che un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive a fronte del quale:

  • il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altre utilità al lavoratore e
  • quest’ultimo si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore (Corte di Cassazione, sentenza n. 2221/1988).

In quanto patto del tutto autonomo rispetto al contratto di lavoro, il corrispettivo ivi pattuito deve possedere i requisiti generali di determinatezza o determinabilità imposti dall’art. 1346 c.c. avuto riguardo all’oggetto della prestazione, pena la nullità dell’accordo.

Quali sono gli interessi sottesi al patto?

La clausola di non concorrenza è finalizzata salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché detta clausola non comprima eccessivamente le sue possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Corte di Cassazione, sentenza n. 9790/2020).

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