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Privacy e procedimento disciplinare: il dipendente ha il diritto di accedere ai propri dati

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32533 depositata lo scorso 14 dicembre, ha sancito il diritto del dipendente, sottoposto a provvedimento disciplinare, di accedere agli atti che lo riguardano. La Corte ha così confermato l’ampiezza del raggio d’azione di cui gode il “diritto di accesso”, come disciplinato dall’art. 7 del Codice Privacy, operante all’epoca dei fatti sotto descritti, nonché come previsto dall’art. 15 del Regolamento UE 679/2016 (“GDPR”), attualmente applicabile.

 

I fatti

 

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una Banca dapprima avverso il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali (il “Garante”), e successivamente contro la sentenza del Tribunale territorialmente competente, che aveva confermato la posizione del Garante.

Nella specie, il dipendente della Banca, a seguito della comminazione a suo carico di una sanzione disciplinare (sospensione dal servizio e relativo trattamento economico per un giorno), aveva chiesto di visionare gli atti antecedenti propedeutici alla sanzione, nei quali erano incluse le valutazioni che lo riguardavano.

I documenti richiesti erano previsti da una circolare interna risalente al 2009 e specificamente la (i) “Segnalazione in forma di relazione scritta inviata a «Disciplina» eseguita dal Responsabile HR Centrale e Territoriale”, nonché la (ii) “Lettera accompagnatoria in cui il Responsabile HR formula le valutazioni congiunte con il Responsabile della struttura territoriale o centrale”.

La Banca, invitata dal Garante a fornire riscontro alle richieste del dipendente, aveva replicato che i summenzionati documenti

–       contenevano dati aziendali – “di uso strettamente interno” – anch’essi protetti dalla normativa privacy, in quanto espressione del diritto di organizzare e gestire la propria attività (art. 41 Cost.), e

–       erano “atti endo-procedimentali”, attinenti al solo momento formativo della volontà datoriale. Secondo la Banca nessuna rilevanza potevano assumere rispetto al contrapposto diritto di difesa del lavoratore. Diritto che, a parere della stessa, era stato già garantito essendo state riportate nelle lettere di contestazione tutte le informazioni necessarie.

Il Tribunale, nel confermare il Provvedimento del Garante, rigettava il ricorso della Banca, ritendo che

(i)            non erano assolutamente stati rispettati i principi in tema di difesa nel procedimento disciplinare e in giudizio, e

(ii)           la Banca avrebbe semplicemente potuto limitarsi ad estrapolare eventuali passaggi della documentazione richiesta non conferenti rispetto alle esigenze del lavoratore, qualora pregiudizievoli del diritto di riservatezza di terzi.

In sostanza il Tribunale dichiarava illegittima la datoriale di mantenere riservati alcuni aspetti delle proprie scelte organizzative, “non potendo essere in facoltà della parte decidere discrezionalmente ciò che può essere reso manifesto e ciò che può non esserlo, poiché una tale impostazione rimetterebbe alla società ricorrente ogni determinazione anche sugli spazi di difesa della controparte”.

La Banca avverso la decisione del Tribunale ricorreva in Cassazione, chiedendo peraltro di rinviare la trattazione della controversia alla pubblica udienza, data la rilevanza della questione.

 

La decisione della Corte

 

La decisione della Corte si concentra su tre punti focali che di seguito si illustrano.

  1. Il bilanciamento degli interessi coinvolti

Sul punto, la Suprema Corte ha ripercorso le valutazioni operate dal giudice di merito, come sopra accennate, ritenendo che – a seguito del bilanciamento di contrapposti interessi – il diritto di accesso del lavoratore prevale rispetto alle esigenze di riservatezza prospettate dalla Banca.

La Banca, a parere della Corte, avrebbe potuto consentire l’accesso dei documenti valutativi del dipendente, tutelando ad ogni modo i terzi, ad esempio, attraverso l’oscuramento delle informazioni che potessero risultare per gli stessi pregiudizievoli.

  1. L’interpretazione estensiva del diritto di accesso

Inoltre, la Corte di Cassazione, nel confermare le statuizioni del Giudice di merito, ha precisato che il diritto di accesso non può essere inteso – in senso restrittivo – quale mero diritto alla conoscenza di eventuali dati nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già entrati nel patrimonio di conoscenza dell’interessato: la portata del diritto in analisi è ben più ampia.

Secondo la Corte la finalità del diritto di accesso è quella di garantire, a tutela della dignità e riservatezza del soggetto interessato, la verifica ratione temporis (i) dell’avvenuto inserimento, (ii) della permanenza, ovvero (iii) della rimozione di dati personali. Ciò indipendentemente dal fatto che ciò possa essere stato portato a conoscenza dell’interessato attraverso altri modi e tempi (vedasi il riferimento alle contestazioni sopra menzionate). Tale verifica, dunque, deve essere garantita mediante l’accesso da parte dell’interessato ai propri dati personali, in ogni momento del rapporto di lavoro.

  1. Il diritto di accesso, con specifico riferimento ai documenti relativi al rapporto lavorativo

Infine, la Corte di Cassazione ha confermato e ribadito il proprio precedente orientamento, teso a garantire il diritto di accesso alla documentazione riferita alle vicende connesse al rapporto di lavoro. E ciò, tanto nel caso in cui tale documentazione sia imposta dalla legge quanto nel caso in cui la documentazione sia prevista dall’organizzazione aziendale, ad esempio tramite circolari interne (inter alia, cfr. Cass. n. 9961 del 2007), come nel caso de quo.

 

Conclusioni

 

In sostanza la Corte di Cassazione ritiene che dal disposto normativo in tema di “diritto di accesso” non si evince alcuna specifica limitazione in merito alle concrete finalità per le quali lo stesso possa o meno essere esercitato. Pertanto, il diritto in questione ben può essere esercitato dal dipendente per proprie finalità difensive.

 

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