La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza del 5 luglio 2023 n. 19023, si è pronunciata in tema di competenza per territorio ex art. 413 c.p.c., negando che l’abitazione del lavoratore, dalla quale questi eseguiva la sua attività lavorativa in “Remote working”, potesse essere qualificata come dipendenza aziendale, in difetto di alcun collegamento oggettivo o soggettivo del luogo di effettuazione della prestazione con l’organizzazione aziendale.

Il caso di specie

La vicenda tra origine dal decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma a favore di un lavoratore intermittente, con il quale veniva ingiunto al datore di lavoro di corrispondere al lavoratore le competenze derivanti dalla nullità del contratto di lavoro intermittente e per la prosecuzione dell’attività oltre la scadenza del termine, con conseguente trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.

La società proponeva opposizione al decreto, chiedendo preliminarmente che fosse dichiarata l’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma a favore, alternativamente, del Tribunale di Genova, se operativa ed effettiva dell’attività svolta dal lavoratore, ovvero il Tribunale di Udine, luogo in cui ha sede legale la società.

Nel giudizio così instaurato, il Tribunale di Roma dichiarava la propria incompetenza per territorio, ritenendo competenti, alternativamente, il Tribunale di Genova o di Udine, nonché il Tribunale di Civitavecchia, essendo il lavoratore residente a Civitavecchia ed eseguendo le sue prestazioni lavorative in remote working dalla sua abitazione.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per regolamento di competenza affidato ad un unico motivo, con il quale eccepiva l’errata interpretazione del dettato normativo e del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla individuazione da parte del Tribunale di Roma della competenza del Tribunale di Civitavecchia.

La società rilevava, infatti, che non vi fosse alcun elemento per radicare la competenza nel foro di Civitavecchia, non essendoci, presso l’abitazione del lavoratore, alcun nucleo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, dovendosi così escludersi la competenza territorio nel luogo dello remote working.

L’ordinanza emessa della Cassazione muove dall’analisi dell’art. 413 c.p.c., il quale sancisce che il giudice del lavoro è competente per territorio alternativamente nel luogo in cui è sorto il rapporto, in quello dove si trova l’azienda ovvero, infine, in quello ove si trova la dipendenza aziendale alla quale il lavoratore è addetto.

Secondo quanto statuito dalla Suprema Corte nell’ordinanza in commento, con specifico riferimento alla “dipendenza aziendale”, occorre far riferimento al luogo in cui il datore ha dislocato un nucleo, seppur modesto, di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (Cass. n. 14449/2019; Cass. n. 4767/2017).

Qualora, invece, come nella fattispecie in esame, l’attività di remote working si atteggi, secondo quanto dichiarato dallo stesso lavoratore, unicamente quale luogo di svolgimento della prestazione senza l’allegazione di alcun altro elemento che caratterizzi in qualche modo l’abitazione quale dipendenza aziendale, allora tale criterio non può essere preso in considerazione ai fini della individuazione della competenza territoriale, residuando unicamente i criteri del luogo di conclusione del contratto oppure della sede ove il lavoratore era addetto.

Conseguentemente, la Corte di Cassazione ha accolto l’istanza di regolamento di competenza proposta dalla Società, dichiarando la competenza per territorio alternativa esclusivamente dei fori di Udine e di Genova e non anche di quello di Civitavecchia.

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Con la recente pronuncia n. 17643 del 20 giugno 2023, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui la prescrizione del diritto del lavoratore a ricevere l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro dimostri di aver messo il lavoratore nelle condizioni di godere delle ferie maturate.

Nello specifico, il datore di lavoro deve offrire la prova di avere invitato il lavoratore a fruire delle ferie in tempo utile a garantire che le stesse siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e lo svago cui sono finalizzate. Inoltre, il datore di lavoro deve aver avvisato il lavoratore del fatto che, in caso di mancato godimento delle ferie, queste andranno perse al termine del periodo di riferimento.

Nel caso al vaglio della Corte di Cassazione, una lavoratrice, in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, ha adito il Tribunale di Milano chiedendo, tra le altre domande, la condanna del datore di lavoro a corrisponderle una somma a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute.

Il Tribunale ha parzialmente accolto la richiesta della lavoratrice, mentre la Corte d’Appello di Milano ha accolto l’appello incidentale della lavoratrice, riconoscendole il diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie per un totale di 248 giorni (invece che di 124 giorni come disposto dal Tribunale in primo grado).

Il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, insistendo, tra l’altro, sulla prescrizione del diritto della lavoratrice, stante la prescrizione decennale dell’indennità sostitutiva delle ferie che deve decorrere in costanza di rapporto di lavoro.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, confermando le pronunce dei giudici di merito, ha affermato che la prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti “decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”.

In definitiva, dunque, è meglio non rinviare le ferie quando è il datore di lavoro a invitarne la fruizione per evitare il rischio di perderne definitamente il diritto, compreso quello relativo alla monetizzazione prevista alla fine del rapporto lavorativo.

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Corte di Cassazione: illegittimo comunicare alle sole RSU le ferie obbligate dei dipendenti (Newsletter Norme & Tributi n. 163 Camera di Commercio Italo-Germanica – Vittorio De Luca, Martina De Angeli) – De Luca & Partners (delucapartners.it)

Lo scorso 18 maggio 2023, la Corte di Cassazione, sez. pen., n. 21153, ha stabilito che “la valutazione del rischio è funzione tipica del datore di lavoro, non delegabile neppure attraverso il conferimento di una delega di funzioni ad altro soggetto e le eventuali carenze nell’attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva di quest’ultimo”.

Il caso affrontato

La vicenda trae origine da un incidente sul lavoro accorso al dipendente di una società che, mentre era intento a sistemare una catasta di bancali che non era stata ben impilata, veniva colpito – al capo ed alla spalla – dalla catasta rovinata al suolo riportando lesioni da cui era derivata una malattia della durata superiore a 40 giorni.

Sulla vicenda sia il Tribunale di Vercelli sia la Corte di Appello di Torino condannavano l’amministratore unico e datore di lavoro per la sicurezza della società in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p. (“Lesioni personali colpose”) individuando nei suoi confronti degli addebiti di colpa, imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e per non aver valutato il rischio inerente alla realizzazione della catasta di bancali.

Avverso la sentenza d’Appello veniva proposto ricorso per Cassazione, lamentando una violazione della legge in relazione all’affermazione della responsabilità penale. Nello specifico, il ricorrente – ossia il datore di lavoro per la sicurezza – sosteneva che la nomina di un Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (“RSPP”) lo esonerava da eventuali responsabilità. Il RSPP avrebbe dovuto, tra le altre, (i) valutare i rischi collegati alla specifica attività lavorativa in funzione alla delega ricevuta; (ii) formare i dipendenti; (ii) valutare i rischi collegati alla specifica attività e (iii) redigere il Documento di Valutazione dei Rischi (“DVR”).

La Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha affermato che la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito di una struttura aziendale rientra fra gli obblighi specifici che gravano sul datore di lavoro. Tale obbligo, previsto dall’art. 17 del D.Lgs. 81/2008, costituisce infatti un adempimento non delegabile. “Le eventuali carenze nell’attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva, di quest’ultimo”. Chiarendo, sul punto, che una responsabilità in capo al RSPP sorge nelle ipotesi in cui sia possibile ricondurre un evento lesivo ad una circostanza di pericolo che il RSPP avrebbe dovuto conoscere e segnalare e che, invece, ha omesso di fare.

Per tutti questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in quanto manifestamente infondato il motivo.

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In conclusione, sembra possibile poter affermare che un datore di lavoro per la sicurezza è penalmente responsabile se accertato che un episodio lesivo sul lavoro è causato da una mancata e preventiva valutazione del rischio nonché da una mancata e preventiva adozione delle relative misure necessarie a ridurlo o neutralizzarlo.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 10802 del 21 aprile 2023, è tornata a pronunciarsi in merito alla tempestività della comunicazione del licenziamento, statuendo che la violazione del termine stabilito dalla contrattazione collettiva per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare è idonea ad integrare una violazione della procedura di cui all’art. 7 St. Lav.

Tale violazione – ove la sanzione sia costituita da un licenziamento disciplinare – comporterà l’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 6, legge 300/70 (c.d. tutela indennitaria debole), purché il ritardo nella comunicazione del licenziamento non risulti, con accertamento in fatto riservato al giudice di merito, notevole e ingiustificato, tale da ledere in senso non solo formale, ma anche sostanziale il principio di tempestività.

Il caso di specie

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento per giusta notificato ad una dipendente oltre il termine previsto dal CCNL Poste applicato al rapporto di lavoro. La norma contrattuale dispone che «la comunicazione del provvedimento deve essere inviata per iscritto al lavoratore entro e non oltre 30 giorni dal termine di scadenza della presentazione delle giustificazioni, in difetto di che il procedimento disciplinare si ha per definito con l’archiviazione».

Nel caso specifico, la società aveva inviato una prima volta la comunicazione di recesso a mezzo lettera raccomandata entro i termini previsti dal CCNL, ma, avendo errato nell’indicare l’indirizzo del destinatario, la notifica non si era perfezionata. Successivamente, la società ha provveduto, dieci giorni oltre il termine previsto dal CCNL, a notificare il provvedimento all’indirizzo esatto tramite ufficiale giudiziario.

Nell’ambito dei giudizi di merito veniva accertato che la dipendente, diversi anni prima, aveva comunicato alle risorse umane della società il proprio indirizzo di residenza, chiedendo di voler ricevere le comunicazioni aziendali presso tale indirizzo.

Da tali circostanze, è stato pertanto accertato che non potesse giudicarsi incolpevole l’invio da parte della Società della prima lettera di licenziamento ad un indirizzo non corrispondente a quello indicato dalla dipendente.

Conseguentemente, sulla base della disposizione del contratto collettivo sopra citata, i giudici di merito hanno stabilito che il mancato rispetto del termine di invio della lettera di licenziamento comportava l’archiviazione del procedimento disciplinare, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’articolo 18, comma 4, della legge 300/1970.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione, articolando due diversi motivi di censura della sentenza resa in sede di gravame.

Il primo motivo di ricorso afferiva alla dedotta tempestività della spedizione della prima lettera di licenziamento, dovendo la stessa ritenersi andata a buon fine e la conoscenza dell’atto presuntivamente raggiunta, malgrado l’errata indicazione del civico.

Sotto diverso profilo, la Società contestava la tutela reintegratoria accordata dai giudici di merito, rilevando che il mancato rispetto del termine finale non implicasse certamente “ex sé la negazione dei fatti di cui il lavoratore è stato accusato né la presunzione iuris et de iure di positiva valutazione degli stessi da parte del datore e neppure la consumazione del potere disciplinare per acquiescenza, ben potendo essere il ritardo esclusivamente imputabile a mero (pur colpevole) errore”.

La Cassazione ha rigettato il primo motivo di ricorso sul rilievo che il mancato perfezionamento della notifica fosse addebitabile esclusivamente alla società, essendo escluso che l’invio della comunicazione di licenziamento non andata a buon fine per causa imputabile al datore di lavoro possa avere effetto impeditivo della decadenza.

In merito al secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha richiamato quanto statuito dalle Sezioni Unite con sentenza n. 30985/2017, in merito al principio di tempestività che caratterizza il procedimento disciplinare e alle conseguenze sanzionatorie nel regime della legge 92/2012.

Ebbene, le Sezioni Unite hanno rilevato una distinzione concettuale tra la «violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi e la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato».

Nel caso specifico, la Suprema Corte ha statuito che la decisione assunta dalla Corte d’Appello contrastava con i principi statuiti dalle Sezioni Unite, secondo cui il mancato rispetto dei termini previsti dal contratto collettivo per la comunicazione della lettera di licenziamento integra una violazione di natura procedimentale e comporta l’applicazione della sanzione indennitaria dell’articolo 18, comma 6, mentre una tutela maggiore per il lavoratore può conseguire unicamente a fronte di un ritardo notevole e non giustificato nella intimazione del licenziamento, così come nella contestazione disciplinare, in grado di ledere in senso non solo formale, ma anche sostanziale il principio di tempestività.

Conclusivamente, nell’accogliere il ricorso promosso dalla Società, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione per il riesame della concreta fattispecie alla luce del principio di diritto fornito dagli Ermellini.

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Nonostante la mancata impugnazione degli accordi antecedenti e il decadimento dalla possibilità, per il lavoratore, di impugnare detti accordi, il superamento dei limiti massimi di durata di un contratto a termine può rendere invalido il rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione nella sentenza 15226/2023 del 30 maggio scorso, basandosi su una consolidata tradizione interpretativa e adottando una lettura restrittiva delle norme che regolano il lavoro a tempo determinato.

I fatti di causa

La pronuncia della Suprema Corte trae origine da una sentenza della Corte d’Appello di Brescia (n. 127 del 2017) che ha respinto l’impugnazione di un lavoratore contro un contratto a termine e i precedenti numerosi rapporti intercorsi con lo stesso datore di lavoro.

Nel caso di specie, il lavoratore aveva rispettato il termine di decadenza legale di 60 giorni dalla fine del rapporto per impugnare i contratti a termine solo per l’ultimo accordo. La Corte d’appello di Brescia, considerando questo fatto, ha eccepito la decadenza dall’impugnazione, respingendo ogni domanda connessa.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, il lavoratore aveva proposto ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha in parte rivisto la predetta decisione della Corte di Appello. Da un lato, ha ribadito che “in tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa”: dunque, viene confermato che l’impugnazione dell’ultimo contratto non si estende anche ai precedenti, nemmeno se tra un contratto e l’altro è trascorso un periodo di tempo inferiore a quello necessario per impugnare.

Dopo aver stabilito questo principio, la Corte di Cassazione ha analizzato la possibilità per il lavoratore di far valere, anche in presenza della decadenza, l’abuso dei contratti a termine da parte del datore dovuto a una reiterazione eccessiva dei rapporti. La Corte è partita dall’interpretazione del diritto comunitario operata recentemente della Corte di giustizia UE (sent. 14 ottobre 2020 in causa n. C-681/18, relativa all’istituto parallelo della somministrazione), secondo la quale gli Stati membri devono adottare misure per preservare la natura temporanea del lavoro interinale, al fine di evitare l’elusione della direttiva su tale tipo di lavoro.

Alla luce di questo principio, il giudice è chiamato a valutare l’effetto che la reiterazione dei contratti a termine può avere nell’eludere le norme comunitarie che stabiliscono limiti di durata e quantità per il lavoro a termine. La Corte ha ritienuto che l’esistenza storica dei rapporti precedenti possa e debba essere presa in considerazione al fine di valutare se le ragioni di ricorso al lavoro a termine siano effettivamente di natura temporanea e che questa valutazione debba rimanere valida anche se il lavoratore è decaduto dalla possibilità di impugnare tali rapporti.

In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, la decadenza impedisce al lavoratore di intraprendere un’azione diretta rispetto ai rapporti precedenti non impugnati, ma il giudice può considerarne l’esistenza come antecedenti storici utili per valutare se ci sia stato un abuso nella ripetizione dei contratti e il superamento dei limiti massimi di durata stabiliti dalla legge (36 mesi).

Alla luce della sentenza in commento, emerge il principio secondo cui in tema di successione di contratti a termine, l’impugnazione rivolta solo nei confronti dell’ultimo contratto di una serie, quando la parte sia decaduta dall’impugnativa dei contratti precedenti, non esclude che il giudice debba tener conto, nel valutare la legittimità del contratto tempestivamente impugnato, del dato fattuale dell’esistenza di pregressi rapporti a termine, per verificare se l’attività, complessivamente considerata, possa considerarsi effettivamente temporanea o se sussista un’ipotesi di abusiva reiterazione, da accertare secondo le statuizioni della sentenza della CGUE del 14 ottobre 2020, causa C-681/18.

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