In caso di infortuni sul lavoro, la nomina di un preposto non è sufficiente per evitare la condanna del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione penale, sentenza 10 giugno 2024, n. 23049.
La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il datore di lavoro deve vigilare per prevenire l’instaurazione di prassi contrarie alla legge che possano mettere in pericolo i lavoratori. Pertanto, in caso di incidente o infortunio, l’ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa per omessa vigilanza sul comportamento del preposto.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un lavoratore riportava lesioni gravi e permanenti a seguito dell’utilizzo di reagenti chimici durante lo svolgimento di operazioni di pulizia di un macchinario. Nello svolgere tale attività emergeva che il lavoratore non era dotato di adeguati dispositivi di protezione e non aveva ricevuto la necessaria formazione.
Il Tribunale adito in primo grado condannava il datore di lavoro, riconoscendo l’esistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l’evento delittuoso e sottolineando che l’evento lesivo si sarebbe potuto scongiurare designando come preposto un soggetto dotato di maggiore competenza.
La Corte d’Appello, riformando la sentenza di condanna di primo grado, da un lato assolveva il datore di lavoro osservando che il soggetto preposto era dotato di comprovata esperienza, e quindi idoneo alle mansioni ed al ruolo assegnatogli e, dall’altro, inquadrava come eccentrica ed imprevedibile la condotta del lavoratore.
La Corte di Cassazione, annullando la decisione della Corte d’Appello che non aveva tenuto conto del fatto che il lavoratore coinvolto non aveva ricevuto una adeguata formazione, rileva che, data la natura delle sue mansioni, non avrebbe comunque dovuto essere coinvolto in operazioni che prevedessero l’uso di sostanze chimiche.
La Suprema Corte, anche precisando che il datore di lavoro ai fini della sicurezza è tenuto a garantire la corretta formazione dei lavoratori indipendentemente dall’esperienza operativa che possano avere nel tempo acquisito, ha riconosciuto profili di responsabilità in capo al datore di lavoro per mancata vigilanza sull’operato del preposto.
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Con l’ordinanza n. 10663 del 19 aprile 2024, la Cassazione ha affermato che è onere del datore di lavoro provare il regolare pagamento della retribuzione.
Il lavoratore ha promosso ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere la condanna della società al pagamento di quanto indicato nella busta paga di novembre 2015.
Nel primo grado di giudizio, il Tribunale ha accertato la debenza del credito a favore del lavoratore.
La Corte d’Appello, adita dalla società, ha confermato la pronuncia di primo grado, statuendo che il datore di lavoro non avesse assolto il proprio onere probatorio relativo alla dimostrazione in giudizio dell’avvenuto pagamento della somma ingiunta.
La Suprema Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha preliminarmente rilevato che, una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma del lavoratore, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal dipendente.
Secondo i giudici di legittimità, consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata.
Secondo i Giudici di legittimità, l’onere ricade in capo al lavoratore solo nell’ipotesi in cui questi, dopo aver firmato la busta paga, contesti la corrispondenza tra la retribuzione indicata in detto documento e quella effettivamente erogata.
Non rientrando il caso di specie in quest’ultima fattispecie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società.
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Con la sentenza n. 32412 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della
legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro formale nei confronti di un lavoratore
impiegato nell’ambito di un appalto non genuino.
Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro
alle dipendenze della società committente, la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento in
quanto intimato dall’appaltatrice e non dall’«effettivo» datore di lavoro e la riammissione in
servizio. La Cassazione, investita della vicenda, ha in primo luogo affermato che non è preclusa al
lavoratore la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di una situazione di
interposizione fittizia e per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze del
committente anche in caso di licenziamento irrogato dall’appaltatrice.
La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che in caso di interposizione fittizia il potere di recesso deve
essere in ogni caso esercitato dal reale datore di lavoro e non da quello fittizio, a pena di
inefficacia del recesso; il datore di lavoro sostanziale, infatti, non può avvalersi del licenziamento
irrogato dall’appaltatore quale atto di gestione del rapporto.
Reintegrato e risarcito il dipendente licenziato per narcotraffico. La condanna per droga è acqua passata e risale a prima dell’assunzione, quando l’azienda ha rilevato il personale dall’impresa uscente dopo essere subentrata nell’appalto bandito dalla pubblica amministrazione. Il fatto materiale sussiste, ma non quello giuridico: la vecchia condanna non ha rilievo disciplinare laddove il datore non dimostra «l’incidenza di fatti così risalenti sulla funzionalità del rapporto»; la sentenza penale che diventa definitiva in corso di rapporto, invece, può far scattare il recesso del datore per giusta causa se viene meno il rapporto fiduciario con l’azienda. Così la Corte di Cassazione, sez. lavoro, ordinanza 8899 del 4/4/2024.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su (Italia Oggi, pag. 14).
La quantità di lavoro non è sinonimo di qualità del lavoro. Pertanto, se si tratta di comparare un lavoratore a part-time con uno a full-time in relazione all’entità di lavoro svolto (quantità), è corretto riproporzionare la retribuzione in base alle ore lavorate (cosicché il lavoratore in part-time riceva, in proporzione alle ore lavorate, la stessa paga di quello occupato a tempo pieno). Ma se si tratta di comparare gli stessi lavoratori, uno a part-time l’altro a full-time, in relazione al servizio prestato (qualità), allora non è corretto, ed è anzi una discriminazione sul lavoro, riproporzionare l’esperienza acquisita (professionalità) in base alle ore lavorate. Lo stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4313 del 19 febbraio 2024, aggiungendo che penalizzare il part-time è discriminare le donne, che più lo richiedono.
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