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Infortuni da Covid-19: i chiarimenti forniti dall’INAIL con la circolare 22/2020

L’INAIL, il 20 maggio u.s., ha pubblicato la circolare 22 con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla qualificazione dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro.

Contesto normativo di riferimento

L’articolo 42, comma 2, del Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, più comunemente noto come “Decreto Cura Italia”, successivamente convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, dispone che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato».

Sul tema l’Istituto assicurativo è intervenuto con la circolare 3 aprile 2020, n. 13 fornendo le indicazioni operative per la tutela dei lavoratori che hanno contratto l’infezione in occasione di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui sopra. L’Istituto ha affermato, nello specifico, che sia per gli operatori sanitari, esposti a un elevato rischio di contagio specifico, sia per coloro che svolgono attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico e/o con l’utenza, vige una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione da Covid-19 che, giova chiarirlo, ammette sempre la prova contraria.

Il contenuto della circolare 22 del 20 maggio 2020

Nella circolare 22 del 20 maggio l’INIAL ha, anzitutto, ribadito che l’art. 42, comma 2 del Decreto Cura Italia non ha fatto altro che riaffermare un principio già espresso da decenni dalla giurisprudenza, in virtù del quale le patologie infettive (come, ad esempio, l’epatite o l’AIDS), se contratte in occasione di lavoro, sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro. Ciò in quanto la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.

Con riferimento all’accertamento dell’avvenuto contagio, l’Istituto ha precisato che, nonostante la presunzione semplice di cui sopra, non sussiste alcun automatismo ai fini dell’ammissione alla tutela previdenziale. Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti, sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale.

Pertanto, la presunzione semplice presuppone l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (quali le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, etc.), ferma restando la possibilità di prova contraria da parte dell’Istituto.

In conclusione, il riconoscimento dell’origine professionale del contagio si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio.

A tal proposito, l’Istituto assicurativo tenta di porre fine ad un dibattito di recente sorto sull’argomento chiarendo che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è cosa ben diversa dall’affermare la responsabilità penale e civile in capo al datore di lavoro per l’infezione da Covid-19 contratta dai suoi dipendenti. Affinché si configurino le predette responsabilità è necessaria, oltre alla rigorosa prova del nesso di causalità, quella dell’imputabilità della condotta tenuta dal datore di lavoro quantomeno a titolo di colpa.

Pertanto, i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail non possono essere confusi con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.

Quanto chiarito dall’Istituto assicurativo è, peraltro, in linea con le recenti pronunzie giurisprudenziali espresse in materia, secondo le quali “[…] non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Cass. n.3282/2020).

Poste tali premesse, l’Istituto conclude affermando che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali.

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