La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora in poi: “Corte di Giustizia”), con la sentenza emessa il 19 maggio 2022 nella causa C-33/21, ha stabilito che il personale dipendente da una compagnia aerea stabilita in uno Stato membro, che lavora per almeno 45 minuti al giorno in un locale situato sul territorio di un altro Stato membro, coincidente con il Paese di residenza, è soggetto alla normativa previdenziale di quest’ultimo Stato.

I fatti affrontati e le controversie di cui al procedimento principale

A seguito di un’ispezione, l’INPS riteneva che i dipendenti di una compagnia area, avente sede in uno Stato membro (d’ora in poi: “compagnia aerea”), assegnati ad un aeroporto italiano, esercitassero un’attività di lavoro dipendente sul territorio italiano e dovessero, in applicazione del diritto italiano e dell’art. 13 del regolamento n. 1408/71, essere assicurati presso l’INPS per il periodo compreso tra il giugno 2006 e il febbraio 2010.

L’INAIL, successivamente, riteneva altresì che, in forza del diritto italiano, gli stessi dipendenti dovessero essere assicurati presso l’INAIL, per il periodo compreso tra il 25 gennaio 2008 e il 25 gennaio 2013, per i rischi connessi al lavoro non aereo in quanto impiegati, secondo detto istituto, presso la base di servizio della Compagnia situata nell’aeroporto italiano.

Di conseguenza, l’INPS e l’INAIL chiedevano alla compagnia aerea il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi relativi a tali periodi (d’ora in poi: “periodi considerati”), richiesta che la compagnia aerea contestava dinanzi ai giudici nazionali.

Il Tribunale e la Corte d’appello respingevano le domande dell’INPS e dell’INAIL in quanto infondate, ritenendo che i dipendenti della compagnia aerea erano soggetti, per i periodi considerati, alla legislazione dello Stato membro in cui quest’ultima ha sede.

Nello specifico, la Corte territoriale ricordava esplicitamente la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, secondo la quale i certificati E101 sono vincolanti per i giudici nazionali, prima di esaminare i certificati E101 prodotti dinanzi ad essa dalla compagnia aerea e di concludere che non era dimostrato che essi coprissero tutti i dipendenti di quest’ultima assegnati all’aeroporto italiano durante l’integralità dei periodi considerati. Pertanto, la Corte di appello riteneva necessario determinare la normativa previdenziale applicabile, in forza del regolamento n. 1408/71, a quelli, tra tali dipendenti, per i quali non è stata accertata l’esistenza di un certificato E101.

La Corte di Cassazione, investita del caso, in seguito al ricorso proposta dall’INPS e dall’INAIL, pur riconoscendo il carattere vincolante dei certificati E101 prodotti dalla compagnia aerea, decideva di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte di Giustizia, mediante un rinvio pregiudiziale, quali criteri debbono essere utilizzati per determinare la legislazione previdenziale applicabile ai lavoratori di cui trattasi, in relazione alle disposizioni contenute nei regolamenti n. 1408/71 e n. 883/2004.

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L’INAIL, il 20 maggio u.s., ha pubblicato la circolare 22 con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla qualificazione dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro.

Contesto normativo di riferimento

L’articolo 42, comma 2, del Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, più comunemente noto come “Decreto Cura Italia”, successivamente convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, dispone che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato».

Sul tema l’Istituto assicurativo è intervenuto con la circolare 3 aprile 2020, n. 13 fornendo le indicazioni operative per la tutela dei lavoratori che hanno contratto l’infezione in occasione di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui sopra. L’Istituto ha affermato, nello specifico, che sia per gli operatori sanitari, esposti a un elevato rischio di contagio specifico, sia per coloro che svolgono attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico e/o con l’utenza, vige una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione da Covid-19 che, giova chiarirlo, ammette sempre la prova contraria.

Il contenuto della circolare 22 del 20 maggio 2020

Nella circolare 22 del 20 maggio l’INIAL ha, anzitutto, ribadito che l’art. 42, comma 2 del Decreto Cura Italia non ha fatto altro che riaffermare un principio già espresso da decenni dalla giurisprudenza, in virtù del quale le patologie infettive (come, ad esempio, l’epatite o l’AIDS), se contratte in occasione di lavoro, sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro. Ciò in quanto la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.

Con riferimento all’accertamento dell’avvenuto contagio, l’Istituto ha precisato che, nonostante la presunzione semplice di cui sopra, non sussiste alcun automatismo ai fini dell’ammissione alla tutela previdenziale. Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti, sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale.

Pertanto, la presunzione semplice presuppone l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (quali le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, etc.), ferma restando la possibilità di prova contraria da parte dell’Istituto.

In conclusione, il riconoscimento dell’origine professionale del contagio si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio.

A tal proposito, l’Istituto assicurativo tenta di porre fine ad un dibattito di recente sorto sull’argomento chiarendo che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è cosa ben diversa dall’affermare la responsabilità penale e civile in capo al datore di lavoro per l’infezione da Covid-19 contratta dai suoi dipendenti. Affinché si configurino le predette responsabilità è necessaria, oltre alla rigorosa prova del nesso di causalità, quella dell’imputabilità della condotta tenuta dal datore di lavoro quantomeno a titolo di colpa.

Pertanto, i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail non possono essere confusi con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.

Quanto chiarito dall’Istituto assicurativo è, peraltro, in linea con le recenti pronunzie giurisprudenziali espresse in materia, secondo le quali “[…] non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Cass. n.3282/2020).

Poste tali premesse, l’Istituto conclude affermando che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali.

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In questa sede, verranno esaminate la nota diffusa dal Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo il 12 maggio 2020 e la previsione contenuta nell’articolo 1.3 dell’Ordinanza della Regione Lombardia 547 del successivo 17 maggio relativa alla misura della rilevazione della temperatura corporea.

Entrambi i documenti si preoccupano di fornire chiarimenti e indicazioni operative per assicurare una business continuity o una ripresa dell’attività aziendale in sicurezza.

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A.  Le indicazioni della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo

La Procura della Repubblica di Bergamo, con nota del 12 maggio 2020, preso atto della riapertura di numerose attività produttive, ha inteso offrire indicazioni operative agli Organi di Vigilanza deputati alla verifica dell’applicazione del Protocollo condiviso di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID19 negli ambienti di lavoro del 24 aprile 2020 (il “Protocollo”).

Oltre a far cenno dei numerosi provvedimenti emergenziali che si sono susseguiti per il contenimento dell’emergenza da diffusione del COVID19, la nota sottolinea che ai sensi del comma 6 dell’articolo 2 del DPCM 26 aprile 2020 le imprese, le cui attività non sono sospese, devono rispettare i contenuti, tra l’altro, del Protocollo.

Precisato ciò, la nota affronta la questione della natura dei contenuti del Protocollo e delle sanzioni previste in caso di inosservanza.

Al tal proposito, la nota sottolinea che:

  • il Governo, mediante il D.L. 19/2020, ha attribuito il potere di individuare le misure di contenimento al Presidente del Consiglio dei Ministri, che l’ha esercitato con l’emanazione dei Decreti 10 Aprile e 26 Aprile 2020, nei quali sono state espressamente individuate “tali misure: esse, poiché previste dal D.L. 19/2020 ed emanate in attuazione di esso, presentano natura normativa”;
  • essendo i contenuti del Protocollo “misure di contenimento, la loro violazione, al pari dell’inosservanza di qualsiasi altra misura di contenimento, comporta l’applicazione delle sanzioni individuate dal D.L. 19/2020, precisamente dall’art. 4 rubricato ‘Sanzioni e controlli’” e quindi l’applicazione dell’impianto sanzionatorio di cui alla Legge 689/1981 (trattasi di sanzioni di natura amministrativa immediatamente applicabili).

La Procura evidenzia, tuttavia, che l’impianto sanzionatorio di cui alla Legge 689/1981 non prevede il potere di prescrivere l’adozione di misure organizzative e gestionali “che produrrebbero il virtuoso effetto dell’adeguamento dei luoghi di lavoro alle precauzioni anti-contagio indicate nei protocolli e, quindi, il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene allo scopo di ridurre il fattore di rischio Covid-19”.

Per sopperire a questa lacuna, la nota sostiene che alle misure di contenimento contenute nel Protocollo corrispondano i precetti di cui alle norme del D.Lgs. 81/2008 e riprendendo l’articolazione del Protocollo, riporta i seguenti punti in comune:

  • punto 1 “INFORMAZIONE” – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell’art. 36 c. 2 let. a): per non aver provveduto affinché ciascun lavoratore ricevesse una adeguata informazione sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia”;
  • punto 4 “PULIZIA E SANIFICAZIONE IN AZIENDA” – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell’art. 63 c. 1, in combinato disposto con l’art. 64 c. 1 lett. d) e l’All. IV punto 1.1.6.: per non aver mantenuto puliti i locali di lavoro, facendo eseguire la pulizia”;
  • punto 5 “PRECAUZIONI IGIENICHE PERSONALI” – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente la violazione dell’art. 18 c. 1 let. f): per non aver richiesto l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro”;
  • punto 6 “DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE” – “si propone di contestare al datore di lavoro/dirigente, in caso di mancata fornitura dei DPI previsti dal Protocollo condiviso, la violazione dell’art. 18 c. I let. d): per non aver fornito ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente”.

B. Ordinanza 547 della Regione Lombardia

Limitatamente, alle società con sedi site nella Regione Lombardia, di fondamentale importanza, per poter assicurare una safety business continuity o una ripresa dell’attività lavorativa in sicurezza, è l’Ordinanza regionale 547 emessa il 17 maggio 2020 ed efficace sino al successivo 31 maggio. La violazione delle disposizioni in essa contenute comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 2 D. L. n. 33/2020.

In questa sede, ci si soffermerà sulla previsione contenuta nell’articolo 1.3 relativa alla rilevazione della temperatura corporea da parte del datore di lavoro o di un suo delegato.

Nello specifico il predetto articolo prevede che il datore di lavoro o un suo delegato è tenuto a rilevare la temperatura corporea del personale dipendente prima dell’accesso al luogo di lavoro o anche qualora durante l’attività il lavoratore dovesse manifestare i sintomi di infezione da COVID19.

Se tale temperatura dovesse risultare superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso o la permanenza nel luogo di lavoro. Le persone in tale condizione saranno momentaneamente isolate e non dovranno recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede.

Il datore di lavoro sarà tenuto a comunicare tempestivamente tale circostanza, tramite il medico competente di cui al D.Lgs. 81/2008 e/o l’ufficio del personale, all’ATS territorialmente competente, la quale fornirà le opportune indicazioni cui la persona interessata dovrà attenersi.

Nel caso in cui il lavoratore prenda servizio in un luogo di lavoro o svolga la propria prestazione con modalità particolari che non prevedono la presenza fisica del datore di lavoro o suo delegato:

  • lo stesso dovrà tempestivamente comunicare eventuali sintomi da infezione da COVID-19 al datore di lavoro o al suo delegato, astenendosi dal presentarsi sul luogo di lavoro e medesima comunicazione dovrà essere effettuata se i sintomi insorgono durante l’attività lavorativa;
  • di conseguenza, il dipendente non dovrà accedere o permanere nel luogo di lavoro e dovrà mettersi in momentaneo isolamento senza recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede;
  • il datore di lavoro o suo delegato, a sua volta, comunicherà tempestivamente tale circostanza, tramite il medico competente di cui al D.Lgs. 81/2008 e/o l’ufficio del personale, all’ATS territorialmente competente, la quale fornirà le opportune indicazioni cui la persona interessata dovrà rivolgersi;
  • in ogni caso, il datore di lavoro o il suo delegato è tenuto a rammentare – attraverso, per esempio, appositi sms o mail – al personale dipendente l’obbligo di misurare la temperatura corporea;
  • inoltre, il datore di lavoro o suo delegato potrà in ogni momento verificare, anche a campione, l’eventuale sussistenza di sintomi da affezione che impediscono l’inizio o la prosecuzione della prestazione lavorativa da parte del dipendente

Da ultimo, l’ordinanza “raccomanda fortemente” la rilevazione della temperatura anche nei confronti dei clienti/utenti, prima dell’accesso. La raccomandazione si trasforma in un obbligo, in caso di accesso ad attività di ristorazione con consumo sul posto

Se la temperatura dovesse risultare superiore a 37,5°, non sarà consentito l’accesso alla sede e l’interessato sarà informato della necessità di contattare il proprio medico curante.

L’ordinanza si preoccupa di considerare anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia fornito di uno strumento di rilevazione idoneo per difficoltà di reperimento sul mercato, ammettendo solo in via transitoria, che lo stesso o suo delegato verifichi all’arrivo sul luogo di lavoro, la temperatura che il dipendente o anche il cliente, prova con strumento personale idoneo.

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Il Quotidiano del Lavoro pubblica un contributo a firma di Vittorio De Luca e Debhora Scarano a proposito della pubblicazione del Documento tecnico dell’INAIL sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione.

Questo Documento tecnico conferma ulteriormente l’importanza per il datore di lavoro di realizzare un sistema di sicurezza e prevenzione che tuteli il lavoratore ma anche se stesso da possibili azioni di responsabilità o risarcitorie, a questo punto anche conseguenti ad eventuali infortuni.

Clicca qui per leggere il DLP insights relativo alla vicenda e le considerazioni dello Studio.

L’emergenza sanitaria connessa alla diffusione del virus Covid-19 ha provocato una vera e propria emergenza economica.
Basti pensare che il “lock-down” unitamente alle altre azioni per prevenire la diffusione del virus disposte con il Dpcm del 22 marzo 2020 e prorogate sino al prossimo 3 maggio 2020 con il Dpcm del 10 aprile 2020, ha imposto la sospensione della gran parte (si stima non meno del 50%) delle attività produttive.
Nei prossimi giorni, l’Italia dovrebbe avviare la Fase 2, in cui si assisterà ad una graduale ripartenza.
In preparazione delle complesse situazioni che le aziende si apprestano ad affrontare, assistiamo ad un susseguirsi di innumerevoli interventi da parte di istituzioni ed enti, a livello sia internazionale, sia nazionale e regionale, volti all’elaborazione di linee guida contenenti misure di prevenzione per ridurre la diffusione del virus nei luoghi di lavoro e per garantire una ripartenza delle attività imprenditoriali in sicurezza.
Basti pensare al “Covid-19: guidance for the workplace” pubblicato dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) e al “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione” pubblicato dall’INAIL sottoposto attualmente all’attenzione del Governo che lo utilizzerà come ulteriore fonte sulla quale implementare le prossime misure di prevenzione per l’attesa Fase 2.
Il Documento Tecnico si propone l’obiettivo di fornire all’operatore politico, dunque in ultima analisi proprio al Governo, informazioni anche di natura statistica utili per compiere una valutazione finalizzata a determinare i livelli di priorità progressiva di intervento sulla ripresa delle attività produttive durante la tanto spesso auspicata Fase 2, nonché delle strategie di intervento eventualmente da implementare sui luoghi di lavoro.
Il documento si compone principalmente di due parti: la prima parte contiene un’analisi utile a definire l’ambito di rischio e ad individuare in quale di questi ambiti di rischio ricade ogni lavoratore a seconda del proprio impiego, la seconda, invece, detta linee generali di contenimento del rischio sui luoghi di lavoro.
Tuttavia, anche il Documento Tecnico, seppur di pregevole contenuto, omette di considerare che talvolta la realtà aziendale è così complessa da non potersi esaurire in linee guida o protocolli che individuano generiche, seppur articolate, misure di prevenzione. In altre parole, tutti questi documenti, seppure indubbiamente utili, hanno un limite incolpevole legato alla contingenza pandemica in corso.
A ciò deve essere aggiunto che le modalità di diffusione del COVID-19 (peraltro non tutte note) tramite azione di fattori microbici o virali che penetrano nell’organismo umano sono tali per cui il rischio di contagio si può ridurre ma certamente non eliminare del tutto.

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Fonte: Il Quotidiano del Lavoro