De Luca & Partners

Periodo di comporto e discriminazione indiretta del disabile: il Tribunale di Ravenna rinvia la questione alla Corte di Giustizia Europea (Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2024 – Vittoria De Luca, Alessandra Zilla)

Con l’ordinanza del 4 gennaio 2024, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio relativo alla legislazione italiana in merito alla computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti

Il quesito posto alla Corte di Giustizia Europea può essere così sintetizzato: se il periodo di comporto  di  180  giorni  previsto  dal  CCNL  Confcommercio  (che  trova  applicazione  senza distinzioni tra soggetti disabili e non) possa considerarsi un ragionevole accomodamento idoneo da escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.

L’ordinanza prende le mosse dalla Direttiva CE n. 78/2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei lavoratori disabili, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 216/2013.

Sulla base di tale Direttiva si è formata, in ambito comunitario e, successivamente, in ambito nazionale,  un  filone  giurisprudenziale  che  ha  ritenuto  che  l’applicazione  indifferenziata  del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori non disabili costituisca una discriminazione indiretta, in quanto provoca una disparità di trattamento a danno del disabile che, a causa della fragilità insita nell’handicap, è posto in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori, visto il rischio di maggiore possibilità di accumulo di giorni di assenza e di raggiungere, così, più facilmente i limiti del periodo di comporto.

Il comporto: brevi cenni sull’istituto

In applicazione dell’art. 32 Cost., che eleva a diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute, e dell’art. 38 Cost., co. 2, l’art. 2110 c.c. dispone che il lavoratore che si assenta per malattia  ha  diritto  non  solo  alla  conservazione  del  proprio  posto  di  lavoro,  ma  altresì  alla corresponsione, quando previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto).

Solo  una  volta  decorso  tale  periodo,  il  datore  di  lavoro  potrà  legittimamente  recedere  dal contratto di lavoro per superamento del comporto a norma dell’art. 2118 c.c., ossia riconoscendo al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.

In  tal  modo,  l’art.  2110  c.c.  realizza  un  contemperamento  tra  contrapposti  diritti  di  rango costituzionale,  entrambi  ritenuti  meritevoli  di  tutela:  il  diritto  del  lavoratore  alla  salute  e  alla conservazione del posto e quello del datore di lavoro alla libertà di iniziativa economica privata.

Utilizzando le parole delle Sezioni Unite della Cassazione, il periodo di comporto rappresenta “un punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. SS.UU. 12568/2018).

Le nozioni comunitarie di disabilità e di discriminazione indiretta

La  Corte  di  Giustizia  Europea  ha  interpretato  la  direttiva  2000/78/CE,  avente  ad  oggetto  la «parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro», introducendo la nozione di disabilità c.d. europea.

Come emerge dalla giurisprudenza comunitaria formatasi sul tema, la disabilità è definita come «condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche,  che,  in  interazione  con  barriere  di  diversa  natura,  possa  ostacolare  la  piena  ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata» (in tal senso, C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16. Sulla stessa falsariga, in un’accezione allargata di disabilità, si veda anche Corte giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fagog Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità  rientra  nella  nozione  di  handicap,  ai  sensi  della  Direttiva  2000/78,  allorché  sia  di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale).

Sul tema occorre, altresì, precisare che il concetto di disabilità comunitario è del tutto autonomo e, dunque, “scollegato” dal riconoscimento, nel diritto interno da parte degli organi competenti, dell’invalidità ai sensi della l. 68/99 o dei benefici della l. n. 104/92 (Cass n. 23338/2018, Cass. n. 6798 del 2018. Al riguardo, recentemente, si sono altresì espressi negli stessi termini: Trib. Ravenna, 27 luglio 2023, Corte Appello Roma 27 novembre 2023, Trib. Rovereto, 30 novembre 2023 e Trib. Roma 18 dicembre 2023).

Fatta questa premessa sulla nozione di disabilità e considerando il tema del periodo di comporto, occorre poi prendere in considerazione il disposto dell’art. 2, lett. b), Direttiva 2000/78/CE in tema di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.

Secondo  la  normativa  comunitaria,  tale  forma  di  discriminazione  sussiste  allorché  una disposizione apparentemente neutra possa mettere in una posizione di particolare svantaggio la persona disabile, a meno che:

  1. tale disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che
  2. il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare soluzioni ragionevoli, per ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione.

Sul punto, la Corte di Giustizia, con la recente sentenza del 18 gennaio 2024, nella causa C- 631/22 (in wikilabor.it), richiamando altre proprie decisioni (cfr. sentenza del 21.10.2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C-824/19, EU-C-2021-862, punto 59 e giurisprudenza ivi citata), ha ribadito che la Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata in conformità con le disposizioni della  Convenzione  ONU,  al  cui  art.  2  viene  statuito  che  per  “discriminazione  fondata  sulla disabilità” si intende “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che  abbia  lo  scopo  o  l’effetto  di  pregiudicare  o  annullare  il  riconoscimento,  il  godimento  o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.

Sulla  scorta  di  tali  nozioni  di  disabilità  e  di  discriminazione  indiretta,  la  giurisprudenza,  sia europea sia nazionale, ha avuto modo di esprimersi sul tema del comporto e del licenziamento conseguente  al  suo  superamento  in  caso  di  persone  con  disabilità  nella  sua  definizione comunitaria.

Nello specifico, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che si pone in contrasto con il divieto di discriminazione basata sull’handicap una normativa nazionale che, senza effettuare alcuna distinzione tra lavoratore non disabile e disabile, consente al datore di lavoro di licenziare un lavoratore disabile in ragione di assenze dal lavoro imputabili alla sua condizione patologica.

Ad avviso della Corte di Giustizia una siffatta norma “è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78”.

Dello stesso avviso, avuto conto del tenore dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, è la Cassazione che, di recente, ha statuito che “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta  l’applicazione  dell’ordinario  periodo  di  comporto  al  lavoratore  disabile,  perché  la mancata  considerazione  dei  rischi  di  maggiore  morbilità  dei  lavoratori  disabili,  proprio  in conseguenza  della  disabilità,  trasmuta  il  criterio,  apparentemente  neutro,  del  computo  del periodo  di  comporto  breve  in  una  prassi  discriminatoria  nei  confronti  del  particolare  gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”.

Da ciò ne consegue che l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al portatore di handicap

Gli accomodamenti ragionevoli

Al fine di ridurre il rischio di compiere comportamenti discriminatori, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, pur nella libertà di iniziativa economica e privata e quindi nel rispetto di quei principi che gli consentono la libera organizzazione dell’azienda, deve – in base alla diligenza e buona fede – individuare “accomodamenti ragionevoli” che consentano la neutralizzazione o il ridimensionamento di situazioni che possano aggravare le condizioni fisiche del dipendente.

Ad avviso della Cassazione la necessità di individuare detti accomodamenti “(…) non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato (…). Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati (…)”.

Diversi al riguardo sono stati gli spunti forniti dalla giurisprudenza di merito circa gli eventuali accomodamenti  ragionevoli  che  il  datore  di  lavoro  può  attuare  in  funzione  delle  esigenze concrete delle persone con disabilità.

Tra questi, ad avviso di detta giurisprudenza, vi rientrano:

prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro;

In definitiva, dunque, il rischio di non tenere conto dell’eccessiva morbilità del portato di handicap

L’ordinanza del Tribunale di Ravenna

Il giudice rimettente, dopo aver richiamato la giurisprudenza della CGUE da cui ha poi preso le mosse  anche  la  giurisprudenza  di  merito  e  di  legittimità  nazionale,  ha  sollevato  dubbi  sulla necessità di stabilire una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, ritenendo che la normativa italiana sulla malattia fornisca già una tutela significativa al disabile. Ha anche esposto perplessità riguardo alla fattibilità di strumenti come lo scomputo, ad opera del datore di lavoro, dei periodi di assenza dovuti a disabilità dal periodo di comporto.

Continua a leggere la versione integrale su Modulo Contenzioso 24 de Il Sole 24 Ore.

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