“Il datore di lavoro può raccogliere i log di navigazione in Internet e i metadati delle e-mail dei dipendenti solo in presenza di specifiche condizioni e garanzie. Lo ha affermato il Garante privacy nel comminare una sanzione di 50mila euro alla Regione Lombardia” (Provvedimento n. 243 del 29 aprile 2025).
Come si legge sul sito istituzionale dell’Autorità, il provvedimento giunge al termine di un ciclo ispettivo volto a verificare l’osservanza della normativa privacy da parte della Regione nell’ambito dei trattamenti dei dati dei dipendenti. Tale provvedimento avviene a quasi un anno di distanza dalla pubblicazione del documento di indirizzo sulla conservazione di questi dati dal titolo “Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati” (Provvedimento n. 364 del 6 giugno 2024).
Sebbene la vicenda abbia riguardato nello specifico una pubblica amministrazione, vale la pena chiarire che tutto quanto emerso, rilevato e chiarito dall’Autorità è pienamente applicabile anche ai titolari del trattamento operanti nel settore privato.
Con il termine “metadati” si devono intendere le informazioni relative alle operazioni di invio e ricezione e smistamento dei messaggi che possono comprendere gli indirizzi email del mittente e del destinatario, gli indirizzi IP dei server o dei client coinvolti nell’instradamento del messaggio, gli orari di invio, di ritrasmissione o di ricezione, la dimensione del messaggio, la presenza e la dimensione di eventuali allegati e, in certi casi, in relazione al sistema di gestione del servizio di posta elettronica utilizzato, anche l’oggetto del messaggio spedito o ricevuto.
I log di navigazione in Internet permettono, invece, di tenere traccia delle attività svolte durante la navigazione web e contengono informazioni come, ad esempio, indirizzi IP visitati, URL delle pagine web aperte, orari e durata della connessione, tipo di dispositivo e browser utilizzato, eventuali download o upload effettuati.
Il Provvedimento di indirizzo del 6 giugno 2024, chiarisce che il periodo massimo di conservazione di questi dati è di 21 giorni. L’eventuale conservazione per un tempo più ampio può essere effettuata solo in presenza di particolari condizioni che rendano necessaria l’estensione e, in ogni caso, è richiesto il soddisfacimento di una delle condizioni di garanzia previste nel nostro ordinamento dall’articolo 4, L. 300/1970: (i) accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza, (ii) l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro.
Ciò in quanto tutte queste informazioni consentono al datore di lavoro di individuare modelli comportamento, di conoscere le relazioni e le abitudini dei lavoratori ma anche di dedurre elementi come il rendimento e la produttività. In altre parole, possono comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Con l’ispezione effettuata dall’Autorità, è emerso che la Regione conservava:
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Con la sentenza n. 315 del 5 giugno 2025, il Tribunale di Vicenza ha affermato che, ai fini della competenza territoriale, la residenza del lavoratore in remote working può essere rilevante solo se risulta che presso l’abitazione venga svolta in modo stabile e organizzato una parte essenziale dell’attività lavorativa, tale da radicare lì l’esecuzione della prestazione.
Nell’impugnare giudizialmente il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro, il lavoratore – con mansioni di “commerciale esterno” – incardinava il procedimento giudiziale avanti al giudice del luogo in cui risiedeva e dove lo stesso utilizzava il computer portatile e il telefono cellulare consegnatigli dall’azienda.
Nel costituirsi in giudizio, la società datrice eccepiva, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del giudice adito.
A fronte dell’eccezione svolta dalla società resistente, il Tribunale richiamava, in primo luogo, la disposizione di cui all’art. 413 co. 2 c.p.c. che, come noto, collega la competenza territoriale a tre distinti criteri alternativi, ovverosia la circoscrizione in cui (i) è sorto il rapporto, (ii) si trova l’azienda o (iii) una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.
Richiamando la giurisprudenza di legittimità, il Tribunale evidenziava altresì la necessità di interpretare in senso estensivo il concetto di dipendenza aziendale, per consentire “di rendere più funzionale e celere il processo, radicandolo nei luoghi normalmente più vicini alla residenza del dipendente, nei quali sono più agevolmente reperibili gli elementi probatori necessari al giudizio (Cass. n. 506/2019; Cass. n. 6458/2018)“.
Fermo quanto sopra, il Tribunale precisava che, in ogni caso, “occorre pur sempre la sussistenza di un collegamento oggettivo o soggettivo del luogo ove il lavoratore presta la sua opera con la organizzazione aziendale”.
Occorre infatti considerare che quando l’attività lavorativa in remote working possa essere fungibilmente espletata in un luogo qualunque, senza che emerga l’esistenza presso l’abitazione del lavoratore di “alcun altro elemento (o collegamento oggettivo o soggettivo, come sopra evidenziato) che caratterizzasse in qualche modo la abitazione quale dipendenza aziendale, nel senso delineato, allora tale criterio non può essere preso in considerazione ai fini della individuazione della competenza territoriale, residuando unicamente i criteri del luogo di conclusione del contratto (…) oppure della sede ove il lavoratore era addetto (…)”.
Su tali presupposti, il Tribunale di Vicenza – non ritenendo ravvisabili elementi da cui evincere che presso l’abitazione del ricorrente fosse stabilmente organizzata e svolta una porzione fondamentale della sua prestazione, tali da ancorare l’attività a quel luogo in modo sufficientemente solido – ha accolto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla società.
Con l’ordinanza n. 15987 del 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ha ribadito l’applicazione rigorosa dell’art. 1335 c.c., secondo cui la presunzione di conoscenza degli atti recettizi non può essere superata da ostacoli soggettivi, nemmeno quando il destinatario versi in condizioni di fragilità psicofisica e la notifica venga volutamente occultata da un familiare convivente.
Il caso di specie trae origine dal licenziamento per inidoneità assoluta e permanente, intimato ad un lavoratore mediante lettera inviata all’indirizzo di residenza dello stesso. In particolare, la lettera di licenziamento, regolarmente recapitata, è stata ritirata dalla madre del lavoratore che, nel dichiarato intento di preservare il figlio da eventuali ripercussioni psicologiche, ha omesso volontariamente di informarlo del contenuto della comunicazione. In considerazione di ciò, il dipendente ha impugnato il recesso oltre il termine di decadenza previsto dalla legge.
Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello di Bologna dichiararono inammissibile il ricorso, in considerazione dell’intervenuta decadenza dell’impugnazione, ritenendo perfezionata la presunzione di conoscenza con la regolare ricezione dell’atto all’indirizzo del destinatario.
La Corte di Cassazione ha, dunque, confermato la correttezza della pronuncia della Corte d’Appello di Bologna. Il fulcro della decisione risiede nella rigorosa interpretazione dell’art. 1335 c.c., secondo cui un atto recettizio si presume conosciuto dal momento in cui perviene all’indirizzo del destinatario, salvo che quest’ultimo provi di essere stato nella condizione oggettiva e incolpevole di non poterne avere notizia. Non assumono, pertanto, rilevanza gli impedimenti di natura soggettiva né le determinazioni assunte da terzi conviventi.
Nel caso specifico, gli Ermellini hanno escluso che lo stato di salute del lavoratore o la decisione della madre di occultare la lettera potessero configurare un impedimento oggettivo. Tali circostanze, infatti, attengono alla sfera personale e familiare del destinatario e non possono considerarsi sufficienti a elidere gli effetti della presunzione legale di conoscenza. In particolare, solo fatti esterni, estranei alla volontà del soggetto, come calamità naturali, errori postali o assenza prolungata per causa di forza maggiore, possono integrare la prova contraria ammessa dalla norma.
In conclusione, la pronuncia in commento evidenzia la natura perentoria dei termini di impugnazione del licenziamento, anche nei casi in cui emergano elementi soggettivi che impediscano al lavoratore di essere messo a conoscenza del provvedimento disciplinare a proprio carico.
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Con sentenza n. 11985 del 7 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che, nell’esercizio delle proprie mansioni di cassiere, si era reso responsabile di reiterate irregolarità contabili, consistenti principalmente nell’omissione della registrazione di operazioni di vendita e nel mancato rilascio degli scontrini fiscali. Secondo la Suprema Corte, tali condotte, ancorché riferibili a importi di modesto valore e pur in assenza di un accertamento puntuale di appropriazioni indebite, sono comunque idonee a compromettere in modo irreversibile il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
La vicenda trae origine da un controllo interno attivato dall’azienda tramite una società di investigazioni, che aveva riscontrato ripetute anomalie nella gestione delle operazioni di cassa da parte del dipendente, tali da determinare l’avvio del procedimento disciplinare e il successivo licenziamento per giusta causa.
Il provvedimento espulsivo veniva impugnato giudizialmente dal dipendente.
Il Tribunale, con ordinanza resa all’esito della fase sommaria ex art. 1 commi 51 n. 92/2012, e con successiva sentenza confermativa resa nella fase dell’opposizione, accoglieva il ricorso del dipendente, annullando il provvedimento datoriale e condannando quest’ultimo al pagamento della relativa indennità risarcitoria.
Secondo il giudice di primo grado, il datore di lavoro non aveva fornito prova in merito ai fatti addebitati al dipendente. In particolare, ad avviso del giudice, i documenti contabili prodotti dalla società non risultavano attendibili, gli sbilanci di cassa riscontrati erano stati ritenuti fisiologici e privi di rilevanza disciplinare e la mera assenza di un’esatta corrispondenza tra gli importi non registrati e le eccedenze di cassa non consentiva di desumere alcuna appropriazione indebita. Inoltre, il Tribunale aveva ritenuto che l’utilizzo della medesima postazione di cassa da parte di più operatori, mediante un unico codice identificativo, rendesse incerta l’attribuzione esclusiva delle irregolarità contestate al lavoratore licenziato.
La Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il reclamo proposto dalla società e rigettato integralmente l’impugnazione del lavoratore.
Contrariamente alle valutazioni rese dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha ritenuto raggiunta la prova degli addebiti attraverso il plurimo e convergente corredo indiziario derivante dalle dichiarazioni rese dal personale investigativo e dal riscontro offerto dagli ammanchi di cassa, nonché dalla disamina critica delle prove testimoniali e documentali.
Di conseguenza, i giudici d’appello hanno ritenuto legittimo il licenziamento, osservando come le condotte accertate rappresentassero, in relazione alla funzione ricoperta dal dipendente e al di là della esiguità dei valori sottratti, una violazione grave e reiterata degli obblighi di correttezza e fedeltà, tale da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi, tra cui l’omesso esame da parte della Corte d’Appello di fatti decisivi del giudizio e, in particolare, dell’asserita appropriazione del corrispettivo delle vendite.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando integralmente la decisione impugnata. Gli Ermellini hanno infatti evidenziato che, ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa, non è necessario fornire la prova di un’appropriazione indebita in senso stretto, essendo sufficiente l’esistenza di condotte che, per la loro gravità, oggettiva e soggettiva, siano idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
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Il D.Lgs. n. 23/2015 è sopravvissuto al recente referendum dell’8 e 9 giugno che, con una affluenza del 30,6%, non ha raggiunto il quorum. Il risultato non sorprende ma l’abrogazione del D.Lgs. n. 23/2015 sarebbe stata, comunque, poco rilevante dal punto di vista delle tutele offerte ai lavoratori.
Ricordiamo che il sistema delle ‘tutele crescenti’ era nato, nell’ambito della riforma del mercato del lavoro del 2014, per creare una disciplina organica dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi intimati, sia dai datori di lavoro con piu’ di 15 dipendenti sia da quelli ‘sotto-soglia’, ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. Nelle intenzioni del legislatore la riforma avrebbe dovuto entrare in vigore gradualmente essendo, per l’appunto, prevista la sua applicazione solo per i nuovi rapporti di lavoro iniziati a partire da tale data.
Rispetto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, gia’ profondamente modificato dalla ‘Riforma Fornero’ nel 2012, il D.Lgs. n. 23/2015 mirava a introdurre un nuovo sistema di tutele fondato su due principi. Il primo, l’introduzione di una indennita’ risarcitoria crescente in funzione dell’anzianita’ di servizio del dipendente interessato e, il secondo, la limitazione dell’ambito di applicazione della tutela reintegratoria. In effetti, la riforma in parola aveva previsto, in linea con le discipline adottate in Germania ed in Spagna, una rigida formula matematica parametrata sull’anzianita’ di servizio, per eliminare la discrezionalita’ dei giudici nella determinazione delle indennita’ risarcitorie.
Le nuove regole prevedevano una tutela risarcitoria, per le aziende con oltre 15 dipendenti, di 2 mensilita’ per ogni anno di anzianita’ di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilita’ (valori dimezzati per le imprese ‘sotto-soglia’, con limite massimo di 6 mensilita’).
Oggi, il D.Lgs. n. 23/2015 e’ profondamente diverso dalla sua formulazione originaria ed offre tutele pressoche’ sovrapponibili – e per alcuni versi anche migliori – rispetto a quelle dell’art. 18.
Il valore dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo e’ stato, infatti, elevato dal ‘Decreto Dignita” che ha portato le mensilita’ da un minimo di 6 ad un massimo di 36. Inoltre, la Corte Costituzionale ha privato il D.Lgs.
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