Le implicazioni negative dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, nel rispetto degli obblighi facenti capo al lavoratore, rappresentano giusta causa di licenziamento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31866 dell’11 dicembre 2024, ha statuito che la condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma altresì, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

Giusta causa e condotte extra lavorative: excursus giurisprudenziale

Come noto, con l’art. 2119 c.c. il legislatore ha definito come giusta causa di recesso «una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» e, dunque, un fatto, attribuibile a uno dei contraenti, che sia di gravità tale da rendere qualsiasi altra opzione diversa dal recesso immediato inattuabile, siccome insufficiente ad offrire tutela dell’interesse della parte recedente.

La nozione di giusta causa affonda le proprie radici nella ampiezza della sua formulazione, essendo non a caso ricompresa nel novero delle c.d. “clausole generali” (Cass. 8 maggio 2018, n. 10964): si tratta di una nozione aperta, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione di elementi di fatto (anche relativi all’evolversi della coscienza sociale e della percezione di gravità di determinati accadimenti) e di diritto.

Richiamando le parole della Suprema Corte, la “giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (Cass., 30 settembre 2022, n. 28515). È stato peraltro ribadito, anche recentemente, che la valorizzazione di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, è parte integrante del processo interpretativo (Cass. 22 agosto 2024, n. 23029)

Nel delineare la casistica dei comportamenti del lavoratore suscettibili di costituire giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha stabilito che la lesione del vincolo fiduciario possa essere conseguenza sia di un inadempimento agli obblighi previsti dal contratto di lavoro sia di una condotta tenuta dal lavoratore in ambito extra-lavorativo.

Il lavoratore è, infatti, tenuto al rispetto – oltre che degli obblighi contrattuali – degli obblighi accessori di comportamento che, pure in ambito “extra-lavorativo”, impongono di tutelare gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro e la cui violazione determina il venir meno della fiducia anche in relazione al futuro corretto adempimento della prestazione.

A titolo esemplificativo, in diverse occasioni la giurisprudenza ha qualificato come giusta causa di recesso comportamenti adottati in violazione del cd. “minimo etico”, intendendosi per tale un comportamento che il lavoratore, non diversamente da ogni altra persona, può rappresentarsi come contrario ai principi alla base della convivenza civile o ai principi di correttezza e buona fede.

Si pensi ad esempio al licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro ad un dipendente con mansioni di conducente di scuolabus a seguito della condanna penale definitiva inflittagli per aver compiuto atti idonei, in modo non equivoco, a cagionare l’interruzione della gravidanza della compagna. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del recesso in ragione dell’oggettiva gravità del reato ascritto e considerato il disvalore sociale dell’atto avente un riflesso diretto sull’immagine del datore di lavoro (Cass. 3 aprile 2024, n. 8728).

E ancora, la detenzione, in ambito extra-lavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è stata ritenuta in grado di incidere in maniera particolarmente grave il rapporto di lavoro, in termini di prognosi futura circa l’affidabilità del dipendente, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito (Cass. 6 agosto 2015, n. 16524. Nel caso di specie, la Suprema Corte confermava la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto particolarmente grave in termini di prognosi futura di affidabilità la condotta del dipendente, « chef de rang » di un ente termale, normalmente addetto al cd. « room service », attese le mansioni svolte, implicante contatti con il pubblico, e l’acquisto dello stupefacente da un collega).

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La Cour de cassation, par son arrêt n° 7567 du 27 mars 2020, a relevé qu’en matière de faute grave, le juge est tenu de vérifier les faits reprochés au salarié, objectifs et subjectifs, au-delà du classement opéré par la convention collective.

Les faits de l’affaire

En l’espèce, il s’agissait d’une dispute verbale entre un ouvrier et son chef de service à l’intérieur des locaux de l’entreprise ; lors de cette dispute, le premier assénait un coup de pied au genou à son interlocuteur.

Le salarié était alors licencié pour faute grave tel que prévu par la convention collective des opérateurs de l’industrie chimique et pharmaceutique qui évoque dans ce cas un « trouble grave de la vie de l’entreprise » justifiant ainsi le licenciement immédiat.

Suite à la contestation du licenciement et, en particulier, en conclusion de la phase sommaire prévue par le rite « Fornero », le salarié obtenait son annulation, avec droits à réintégration et indemnisation prévus par l’article 18, alinéa IV, Loi n° 300 de 1970.

L’ex employeur formait alors un recours contre l’ordonnance rendue par le Tribunal qui, après avoir établi les faits, le déboutait, jugeant en tout état de cause que l’épisode n’était pas caractéristique d’un « trouble grave de la vie de l’entreprise ».

La décision était confirmée en appel : les juges milanais soulignaient notamment que la société, bien qu’ayant invoqué la dispute survenue dans ses locaux et les voies de fait, n’avait cependant pas évoqué le critère essentiel du « trouble grave de la vie de l’entreprise », ni n’avait précisé, alors que cela aurait dû être le cas, la connotation réelle de ce dernier dans le cadre de l’événement dans son ensemble, en indiquant quelles avaient été les graves altérations de la vie de l’entreprise en termes d’effets. En conséquence, les juges d’appel estimaient que le grief ne faisait aucune référence à l’événement et à sa gravité, des éléments essentiels aussi bien pour caractériser le grief que pour permettre à l’accusé d’organiser sa défense.

La société se pourvoyait en cassation avec trois motifs.

La décision de la Cour de Cassation

La Haute cour saisie a tout d’abord souligné que la notion légale de faute grave est indépendante des stipulations de la convention collective. Partant, « la liste des cas de licenciement pour faute grave contenue dans les conventions collectives » est « fournie à titre d’exemple uniquement, de sorte que le juge du fond peut proposer sa propre appréciation concernant une grave inexécution ou un comportement du salarié » susceptible de « faire disparaître le lien de confiance entre l’employeur et le salarié ». Les hauts juges ont donc relevé que pour établir l’existence d’une faute grave ou d’une cause réelle et sérieuse, le juge du fond n’est confronté qu’à la seule limite de savoir si « il n’est pas possible d’infliger un licenciement pour faute grave si celui-ci constitue une sanction plus grave que celle qui est prévue par la convention collective par rapport à une infraction donnée, à savoir la conduite reprochée au salarié ». De plus on lit dans l’arrêt que « le juge appelé à vérifier l’existence de la faute grave ou de la cause réelle et sérieuse », est en tout état de cause toujours tenu de vérifier si la stipulation de la convention collective est conforme aux notions de faute grave et cause réelle et sérieuse. Il doit « vérifier le comportement, dans tous ses aspects subjectifs et objectifs, en s’affranchissant des stipulations conventionnelles prévues ». Partant, le classement opéré par la convention collective en termes de comportements constituant une faute grave de licenciement ne peut être considéré comme contraignant.

Les hauts juges, retenant que la Cour d’appel avait omis de tenir compte de la gravité du comportement reproché et, en conséquence, la proportionnalité de la sanction, alors que l’article 2119 du code civil en dispose ainsi – ont ainsi cassé l’arrêt et renvoyé l’affaire devant la Cour d’appel pour qu’elle soit rejugée.