La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15204 del 20 giugno 2017, è intervenuta in materia di licenziamento disciplinare intimato ad un dirigente senza previo esperimento della procedura di cui all’art. 7 della L. 300/1970. La Suprema Corte, richiamando alcune recenti pronunce, anche a Sezioni Unite (Cass. n. 2553 del 10 febbraio 2015, Cass. Sez. Un. N. 7880 del 6-30 marzo 2007), ha chiarito che “le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7 della legge 300/1970 sono espressione di un principio di generale garanzia fondamentale a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare”, che trova applicazione a tutti i rapporti di lavoro subordinato, senza distinzione tra i dipendenti in relazione alla loro collocazione apicale. Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con gli interventi del giudice delle leggi, perché riesuma “una vecchia e ormai logora nozione di dirigente, inteso quale alter ego dell’imprenditore”, e sarebbe in violazione del principio “audiatur et altera pars”, come indefettibile garanzia del prestatore di lavoro. D’altronde, sostiene la Corte, i dirigenti rientrano espressamente nella catalogazione dell’art. 2095 cod. civ. e, come tali, partecipano alla disciplina dettata per il prestatore di lavoro subordinato in generale. In difetto di attivazione delle garanzia procedimentali in esame, le conseguenze risarcitorie saranno, quindi, quelle dettate dalla contrattazione collettiva per il licenziamento privo di giustificazione (condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare).

Il Tribunale di Catania, sezione lavoro, richiamando un precedente del Tribunale di Firenze, ha dichiarato, con propria ordinanza del 27 giugno 2017, legittimo il licenziamento intimato ad una dipendente via whatsapp. A parere del  Tribunale il mezzo utilizzato dal datore di lavoro ha comunque assolto all’onere della forma scritta trattandosi di un documento informativo che la lavoratrice licenziata, nel caso di specie, ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da impugnarlo tempestivamente. Al riguardo il Tribunale ha ricordato che secondo la Suprema Corte “non sussiste per il datore di lavoro l’onere di adottare forme sacramentali” potendo “la volontà di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara”. Nella stessa ordinanza il Tribunale ha preso, altresì, posizione sull’eccezione di difetto di legittimazione del soggetto che ha intimato il licenziamento sollevata dal lavoratrice, essendo stato il provvedimento sottoscritto dal direttore tecnico e non dal datore di lavoro. Nel rigettarla il Tribunale ha ricordato che la disciplina di cui all’art. 1399 cod. civ., che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo – ma con salvezza dei diritti dei terzi – del contratto concluso dal soggetto privo dei poteri di rappresentanza, è applicabile ai sensi dell’art. 1324 cod. civ, anche a negozi unilaterali come il licenziamento.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14871 del 15 giugno 2017, richiamando un proprio orientamento giurisprudenziale, ha affermato che, nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione della posizione non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere diversamente ripartite ed attribuitesecondo insindacabile scelta imprenditoriale”. Ciò in quanto, a parere della Cassazione, proprio nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda al fine di una sua più economica gestione decisa dall’imprenditore “non semplicemente per un incremento di profitto ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi”. Pertanto, il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, spettandogli solo il potere di controllare la reale sussistenza del motivo addotto a fondamento del provvedimento espulsivo, ossia  l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14457 del 9 giugno 2017, ribaltando la decisione “doppia conforme” dei precedenti gradi di giudizio, è intervenuta in tema di patto di stabilità nel rapporto di lavoro subordinato. Nello specifico la Corte ha osservato che, fuori dalle ipotesi di giusta causa ex art. 2119 cod. civ., il lavoratore può liberamente disporre della facoltà di recesso, pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nell’ipotesi di sua violazione. Secondo la Suprema Corte questa conclusione è coerente con la riconosciuta disponibilità del diritto al posto di lavoro, desumibile sia dall’ammissibilità delle risoluzioni consensuali che dal “consolidamento degli effetti del licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione”. Nella sentenza in esame la Corte, inoltre, affronta il tema della corrispettività di questo “sacrificio”, giungendo alla conclusione che il trattamento retributivo concordato, complessivamente considerato, qualora non superi il cd. “minimo costituzionale” non può compensare, in alcuna misura, (anche) la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. La corrispettività, quindi, va valutata alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, potendo consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, quale una maggiorazione della retribuzione o una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal dipendente.

L’art. 54 bis del D.L. n. 50/2017, introdotto in sede di conversione della Legge n. 96/2017, disciplina le prestazioni di lavoro occasionali. Per prestazioni di lavoro occasionali si intendono le attività lavorative rese nel rispetto dei seguenti limiti economici, riferiti tutti all’anno civile di svolgimento delle stesse: a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore ad Euro 5.000; b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore ad Euro 5.000; c) per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore ad Euro 2.500. Le tipologie di prestazioni occasionali previste sono due: il Libretto Famiglia” (“LF”) ed il contratto di prestazione occasionale (“Cpo”). Al LF, destinato alle persone fisichenon nell’esercizio di una impresa o di una libera professione”, sono ammesse le seguenti attività: a) piccoli lavori domestici; b) assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità; c) insegnamento privato supplementare. Al Cpo possono, invece, ricorrere tutti gli altri utilizzatori ad eccezione di: (i) coloro che hanno alle proprie dipendenze più di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; (ii) le imprese del settore agricolo; (iii) le imprese dell’edilizia e di settori affini. Non si può in ogni caso far ricorso al contratto di prestazione occasionale nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi. Con circolare n. 107/2017 dello scorso 5 luglio, l’INPS ha poi reso operativa la piattaforma per l’attivazione delle nuove prestazioni occasionali. In sostanza, con questo intervento legislativo viene reintrodotto l’aggettivo “occasionale”, eliminato nel 2013 dal legislatore dall’art. 70 del D.Lgs 276/2003 che regolamentava il lavoro accessorio