Con la nota n. 4833 del 5 giugno 2017, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito chiarimenti in sulla corretta applicazione del D.Lgs. n. 136/2016 in materia di distacco transnazionale. Con riferimento al concetto di “prestazione di servizi” il provvedimento chiarisce che in tale ampia locuzione – che presuppone l’espletamento di attività lavorative temporanee in favore di un destinatario situato sul territorio italiano (i.e. il distaccatario) ovvero di un’unità produttiva dell’azienda straniera distaccante presente in Italia ovvero presso un soggetto committente – rientrano gli appalti, i subappalti e, più in generale, gli accordi commerciali aventi ad oggetto lo scambio di servizi tra imprese stabilite in Paesi diversi. Quanto al concetto di un’unità produttiva dell’azienda straniera distaccante in Italia, l’Ispettorato ha precisato che deve trattarsi di un’unità avente un minimo di organizzazione di mezzi e/o persone e che costituisca dunque un centro di imputazione di rapporti e situazioni giuridiche riferibili al soggetto straniero. Secondo l’Ispettorato nell’ambito dei distacchi transnazionali genuini rientrano anche le ipotesi in cui i lavoratori stranieri vengono inviati in Italia presso una filiale del soggetto straniero distaccante oppure presso altro operatore economico (i.e. distaccatario) sito in Italia e, successivamente, siano impiegati sempre in Italia per l’esecuzione di un appalto presso un’altra azienda committente. Da ultimo, l’Ispettorato, da un lato, ha escluso dalla locuzione di “prestazioni transnazionali di servizi” le attività svolte presso stand temporanei allestiti nell’ambito di fiere, mostre e manifestazioni non potendo lo stand essere considerato quale unità produttiva, mentre dall’altro vi ha fatto rientrare le attività di montaggio e smontaggio degli stand.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 12804 del 22 maggio 2017, ha affermato che è sanzionabile disciplinarmente il dipendente che fotocopia materiale costituente know-how aziendale, anche se tale attività viene svolta per tutelare un proprio diritto in giudizio. Nel caso di specie il lavoratore, dapprima sanzionato e poi licenziato, è ricorso in Cassazione affermando che (i) la fotocopiatura del materiale aziendale era necessaria alla sua difesa essendo stato a lungo demansionato (ii) non si trattava di un documento riservato, ed, in ogni caso (iii) la finalità di tutela dei diritti deve prevalere sul dovere di riservatezza. Secondo la Corte di Cassazione, tale motivo non può ritenersi fondato in quanto, “anche dalla prova testimoniale effettuata”, è emerso che si trattava della fotocopiatura non di “un mero materiale riservato dell’azienda”, ma di “istruzioni che contenevano specifiche informazioni relative al tipo di materie usate, le procedure e la strumentazione utilizzata (…), un vero e proprio know-how aziendale la cui riservatezza appare rafforzata dall’esigenza di non diffondere a terzi (tra i quali potrebbero rientrare soggetti che possono essere concorrenti) conoscenze che hanno un rilievo produttivo”. Secondo la Corte, dunque, ciò che viene in risalto non è “un generico dovere di non divulgare documenti aziendali, ma uno specifico obbligo a mantenere riservati documenti che riguardano anche aspetti importanti e significativi dell’organizzazione produttiva del datore di lavoro”. Documenti di cui, tra l’altro, il lavoratore, secondo la Corte, avrebbe potuto sempre richiederne l’acquisizione al giudice adito ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13799 del 31 maggio 2017, è intervenuta in materia di licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che aveva postato su Facebook alcuni commenti contro la propria società nonché nei confronti del legale rappresentante della stessa. Nel caso di specie la società, condannata in appello a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno pari alle retribuzioni dal dì del licenziamento a quello della reintegra, è ricorsa in Cassazione lamentando la mancata applicazione del principio secondo cui l’art. 18, L. 300/1970, riconosce la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento. Le doglienze della società sono state ritenute infondate dalla Corte di Cassazione, la quale, richiamando i propri precedenti in materia, ha affermato che: “l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 stat. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria”. Orbene, stando a questo orientamento, non è detto che postare su Facebook espressioni contro il proprio datore di lavoro presenti il carattere dell’antigiuridicità che legittima un licenziamento per giusta causa.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14175/2017, ha ribadito che, ai fini del computo del requisito occupazionale e della verifica sulle ragioni aziendali alla base di licenziamento, si ha un unico centro di interessi a cui ricondurre i rapporto di lavori, solo se viene dimostrata l’esistenza, nel contesto di diverse società appartenenti allo stesso gruppo, di un frazionamento fraudolento. In particolare, la Corte, uniformandosi a sue precedenti pronunce, ha confermato che perché ricorra questo frazionamento fraudolento devono sussistere i seguenti requisiti: “a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori”. Ciò significa che solo in presenza di questi elementi si fuoriesce dal contesto dell’azienda in cui è avvenuto il licenziamento e si considera il gruppo cui essa appartiene con tutte le conseguenze del caso.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11895/2017, nel dichiarare illegittimo un licenziamento disciplinare ha affermato che, nell’ambito di un procedimento ex art 7 della Legge n. 300/1970, l’audizione orale richiesta dal lavoratore, costituisce un presupposto del diritto di difesa dello stesso. La Suprema Corte ha, altresì, precisato che tale «indefettibile presupposto procedurale» deve essere garantito anche in presenza di giustificazioni scritte ampie e potenzialmente esaustive. Ciò in quanto è proprio la richiesta del lavoratore a dimostrare che egli stesso non le ritiene sufficienti e in ogni caso da integrare o precisare in sede di successiva audizione.