La Corte Territoriale della Lombardia, con la sentenza n. 33/33/17, ha confermato che l’indennità erogata al dirigente a seguito di un licenziamento ingiustificato impugnato giudiziale e chiuso in via transattiva (nel caso di specie trovava applicazione il CCNL Dirigenti industria), non ha natura risarcitoria ed è, pertanto, soggetta a prelievo fiscale. Tale indennità, infatti, non può essere considerata come risarcimento erogato a titolo di danno emergente, avente la finalità di reintegrare il patrimonio del danneggiato per le perdite o spese sostenute. Essa va inquadrata come indennità supplementare e trova la sua origine nel rapporto di lavoro, costituendo, quindi, lucro cessante. Orbene l’unica possibilità di esenzione del prelievo fiscale è la dimostrazione, da parte del contribuente, che l’erogazione di somme sia riferibile alla sola voce di “risarcimento puro”. Nel caso di specie, invece, era emerso che il titolo per l’assoggettamento delle somme ad IRPEF non era stato l’atto conciliativo bensì la sentenza di primo grado in base alla quale era stato emesso il cedolino.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8260 del 30 marzo 2017, riformando la sentenza della Corte d’Appello territorialmente competente, ha accolto le censure di un lavoratore che aveva sottoscritto un verbale di conciliazione in sede sindacale e poi ne aveva chiesto l’annullamento finalizzato all’accertamento giudiziale dell’inefficacia del licenziamento intimatogli nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo. In particolare, il lavoratore sosteneva che nella fattispecie concreta ricorresse il vizio del consenso derivante da dolo, essendo stato indotto a firmare il verbale di conciliazione sull’assunto che la sua posizione professionale rientrasse tra quelle eccedenti e che tale assunto, poco tempo dopo, si era rivelato falso stante l’assunzione, da parte della società, di un altro lavoratore per la medesima posizione da lui in precedenza ricoperta. Secondo la Suprema Corte i giudici di merito hanno errato nel non aver valutato se la condotta della società datrice di lavoro fosse stata atta ad indurre in inganno il lavoratore. Ciò in quanto, anche una «condotta di silenzio malizioso» è idonea ad integrare il raggiro e, quindi, il vizio del consenso del dolo omissivo. Secondo la stessa,infatti, anche nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza – qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus – integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c. Ed in ragione di tale principio, la Corte ha, quindi, rinviato alla Corte d’Appello l’accertamento della idoneità della condotta della società ad integrare un dolo omissivo in danno del lavoratore.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9395 depositata il 12 aprile 2017, si è pronunciata sul licenziamento intimato ad un dipendente invalido per superamento del periodo di comporto, dichiarandone la legittimità. La Corte, infatti, ha sì confermato l’orientamento secondo cui le assenze collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate ai fini del superamento del periodo di comporto se l’invalido sia adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni di salute. Ciò in quanto l’impossibilità della prestazione deriva dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore. Nello stesso tempo la stessa ha chiarito che, se le assenze (come nel caso di specie) dipendono da altre cause e malattie, il lavoratore invalido può essere licenziato per superamento del periodo di comporto, al pari degli altri dipendenti. La Corte ha, altresì, osservato che l’esclusione delle giornate di inabilità al lavoro vale anche se la malattia di cui è affetto il lavoratore è preesistente all’assunzione, purché non rientrante tra quelle che hanno condotto al suo inserimento obbligatorio in azienda.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 475/2017, è intervenuta in materia di licenziamento della lavoratrice madre, ribadendo, ancora una volta, che il licenziamento intimato alla stessa dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo e improduttivo di effetti. Nel caso di specie, la Corte ha corretto la decisione dei giudici di merito che, nel ritenere illegittimo il licenziamento, ordinava alla società datrice di lavoro di riassumere la lavoratrice o, in mancanza, di risarcirle il danno commisurato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Al riguardo, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno erroneamente applicato l’art. 8 della L. n. 604 del 1966, poiché “la disciplina legislativa di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001 non effettua alcun richiamo alle L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo”. Di conseguenza, nel caso di specie, il rapporto va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio. In altri termini, nel periodo protetto il posto di lavoro è salvo.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 730 datata 8 aprile 2017, torna a pronunciarsi sul regime di tutela applicabile in presenza di un patto di prova nullo per coloro che sono assunti con contratto a tutele crescenti. Nel caso di specie ad una lavoratrice veniva comunicato il recesso per mancato superamento del periodo di prova. La lavoratrice adiva così il Tribunale di Milano, chiedendo, tra le altre, che venisse dichiarata la nullità del patto di prova per difetto di specifica indicazione delle mansioni che ne costituivano l’oggetto. Il Giudice di prime cure accoglieva la richiesta della lavoratrice, dichiarandolo nullo sull’assunto che (i) la dizione “analyst consultant” utilizzata nella lettera di assunzione non corrispondeva ad alcuno dei profili professionali indicati nel CCNL di settore, (ii) nemmeno l’oggetto del patto poteva esser ricavato aliunde, anche in considerazione della peculiare genesi del rapporto a seguito di avviamento obbligatorio e, in assenza, quindi di trattative pre-assuntive e di piena liberalità nella selezione della dipendente da parte del datore. In merito al regime di tutela applicabile, il Tribunale ha osservato trattasi di un recesso “(meramente) ingiustificato, perché intimato fuori dall’area della libera recedibilità, trovando, quindi, applicazione la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, D. Lgs. 23/15, che disciplina le ipotesi di licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo”. Questa sentenza si pone così in contrasto con quanto già statuito sul tema dal Tribunale di Torino con sentenza del 16 settembre 2016 e dallo stesso Tribunale di Milano con sentenza del 3 novembre 2016.