Lo scorso 28 febbraio è iniziato l’esame al Senato del Ddl n. 2208, recante disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (c.d. whistleblowing). La legge, qualora approvata, porterà alla modifica dell’art. 6 D.Lgs. 231/01. In particolare sarà previsto l’obbligo, sia per i soggetti apicali sia per i sottoposti (inclusi i collaboratori esterni), di presentare segnalazioni di illeciti che riterranno essersi verificati all’interno della società o nel suo interesse e/o a suo vantaggio. Il tutto mediante la predisposizione di misure idonee a garantire la riservatezza dell’identità del segnalante, imponendo l’assoluto divieto di atti ritorsivi o discriminatori nei suoi confronti, collegati proprio alla segnalazione effettuata. Tali atti potranno essere denunciati all’Ispettorato Nazionale del Lavoro e alle Organizzazioni Sindacali. L’eventuale licenziamento intimato al soggetto segnalante (o il mutamento di mansioni) sarà, infatti, considerato nullo, in quanto ritorsivo e discriminatorio, a meno che il datore di lavoro non dimostri la sussistenza di legittime ragioni a fondamento del provvedimento.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7166 del 21 marzo 2017, torna ad affrontare il tema del licenziamento disciplinare. Nel caso di specie un dipendente, in qualità di tecnico reperibile e responsabile dell’emergenza, veniva licenziato all’esito di un procedimento disciplinare per essersi rifiutato di attivarsi a fronte di due successive sollecitazioni di intervento per un calo di pressione e una fuga di gas. Il lavoratore adiva il Giudice di prime cure affinché ne dichiarasse l’illegittimità, vedendosi però respingere la relativa domanda. Lo stesso ricorreva, pertanto, in appello. La Corte territoriale, in totale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. La Corte osservava, infatti, che l’addebito contestato al dipendente rientrava nel novero di quelli che il CCNL applicato al rapporto di lavoro sanzionava, in difetto di recidiva, con una sanzione conservativa. Avverso la decisione della Corte territoriale il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione. I giudici di legittimità, nella sentenza in esame, hanno chiarito che il giudice di merito deve controllare la rispondenza delle disposizioni collettive disciplinari a quanto previsto dall’art. 2106 cod. civ. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative. Sempre secondo la Suprema Corte il giudice di merito non può – invece – fare l’inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti. Sulla base di ciò, la Corte di Cassazione ha statuito che in materia disciplinare va, in ogni caso, esaminata la gravità dell’infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo nonché sotto quello della futura affidabilità del lavoratore circa la prestazione dedotta in contratto.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3370 depositata il 16 dicembre 2016, ha osservato che il datore di lavoro, in caso di licenziamento per motivi economici, nel verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale (c.d. obbligo di repechage) non deve limitarsi alle mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore eccedentario, ma deve contemplare tutte le mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Ciò in quanto, le modifiche all’art. 2103 cod. civ. introdotte dal Jobs Act, hanno comportato il superamento della nozione di equivalenza delle mansioni, che costituiva il precedente parametro a cui era vincolato il datore di lavoro nell’assegnazione di nuove mansioni ai propri dipendenti. Pertanto, se da un lato la “nuova” formulazione dell’art. 2013 cod. civ. ha reso più flessibile l’organizzazione del lavoro a vantaggio dell’impresa, dall’altro ha introdotto obblighi più stringenti nella verifica del “repechage”.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5323 del 2 marzo 2017, è tornata ancora una volta pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al fine di circoscriverne contenuti e limiti. Nel caso di specie un impiegato amministrativo impugnava giudizialmente il licenziamento intimatogli per una asserita necessità di riduzione dei costi aziendali. La Società, pur avendo provato in giudizio di aver perso molteplici gare d’appalto e di trovarsi in difficoltà nei confronti dei competitors, non aveva assolto l’onere probatorio relativo all’effettività del ridimensionamento funzionale dell’assetto organizzativo aziendale con annessa soppressione della posizione ricoperta dal lavoratore. La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, nel rigettare il ricorso presentato dalla Società, ha confermato la correttezza di entrambe le pronunce di merito che avevano constatato il difetto di prova del giustificato motivo oggettivo, difetto di prova di per sé idoneo a determinare l’illegittimità del recesso.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6770 del 15 marzo 2017, ha cassato la decisione della Corte di Appello di Roma stabilendo a contraris che, in caso di retrocessione all’impresa committente dei servizi affidati in appalto, non è escluso che possa configurarsi un trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. Ciò, quando detta retrocessione comporti un passaggio di beni, ivi incluso il personale, tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica attività imprenditoriale. A supporto di tale tesi, la Cassazione – oltre a far leva su principi dalla stessa enunciati in precedenti giudizi – richiama numerose decisioni della Corte di Giustizia Europea nelle quali i giudici comunitari avevano individuato quale elemento necessario per la sussistenza di un trasferimento d’azienda il fatto che l’entità economica in questione conservasse la propria identità a prescindere dal cambiamento dell’effettivo proprietario e, dunque, dallo strumento utilizzato per la successione nei rapporti giuridici sottostanti. Orbene, in caso di passaggio di un complesso organizzato di beni da un imprenditore ad un altro, si configurerà un trasferimento d’azienda ex art. 2112 cod. civ. nella misura in cui l’entità economica trasferita – a seguito della sua traslazione ed a prescindere dallo strumento giuridico adottato – conservi la propria identità e sia tale da consentire il proseguimento o la ripresa della sua gestione. Ciò, anche nel caso in cui il complesso di beni organizzato sia costituito soltanto da un gruppo di lavoratori.