Il Tribunale di Milano, sezione lavoro,  con ordinanza n. 4703 del 20 febbraio 2017, si è pronunciato sul ricorso ex art. 1, comma 48 ss. L. 92/2012 presentato da un lavoratore avverso il licenziamento per giusta causa intimatogli da una Società nostra cliente per aver venduto su internet, sotto falso nome, prodotti della stessa. La Società era giunta alla conclusione di procedere con un simile provvedimento all’esito delle indagini condotte da un’agenzia investigativa autorizzata. Il ricorrente, sia in sede di giustificazioni, sia nel ricorso, aveva omesso di negare i fatti contestati ovvero di fornire alcuna controdeduzione al riguardo, dichiarando di essere tenuto a conferire esclusivamente “con l’autorità procedente”. Il Giudice assegnatario della causa, in primo luogo, si è pronunciato d’ufficio sulla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dal lavoratore, affermando che con il ricorso Fornero “non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 (dell’art.1 L. 92/2012)” e che “pertanto, le ulteriori diverse domande, fondate su altri fatti costitutivi, (quale quella qui elevata, fondata sul danno biologico), vanno ritenute inammissibili”. Inoltre il Giudice, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali, ha rigettato l’istanza con cui il ricorrente aveva chiesto l’esclusione del documento prodotto dalla Società sul rapporto investigativo, in quanto “il datore di lavoro può controllare direttamente, mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno (agenzia investigativa, come nella specie) l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione; ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente”. Da ultimo, in merito alla sussistenza del fatto posto alla base della contestazione disciplinare, il Giudice ha affermato che il ricorrente “anche nelle giustificazioni rese dopo la contestazione disciplinare, non fornisce alcun dato effettivamente utile a manifestare la propria estraneità ai fatti (…)”, precisando che “sarebbe stato sufficiente indicare una provenienza lecita degli oggetti, al fine di evitare ogni tipo di complicazione”. A questo proposito il Giudice ha, altresì, rimarcato che “neppure nel corso della odierna udienza (ndr prima udienza il dipendente) ha fornito una adeguata contestazione a sostegno della principale delle sue asserzioni, ossia l’insussistenza del fatto contestato”. Il Giudice è così giunto alla conclusione che “il comportamento callido e fraudolento del lavoratore determina certamente una irreversibile frattura del rapporto di fiducia che giustifica ampiamente il recesso datoriale”, rigettando integralmente il ricorso e condannandolo alle spese di lite.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017, hanno risposto al quesito inerente la natura del rapporto intercorrente tra la società per azioni ed il suo amministratore, alias se sia qualificabile come lavoro parasubordinato o autonomo (ovvero estraneo a tale ambito). Nello specifico le Sezioni Unite hanno statuito che l’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una società per azioni sono legati ad essa da un rapporto di tipo societario che, anche in considerazione (i) della immedesimazione organica che si realizza tra la persona fisica e l’ente e (ii) dell’assenza del requisito della coordinazione, non è ricompreso tra quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 cod. proc. civ. In altri termini il rapporto in questione non è assimilabile né ad un contratto d’opera né tantomeno ad un rapporto di lavoro di tipo subordinato o parasubordinato. Le Sezioni Unite attuano così una inversione di tendenza rispetto alla decisione dalle stesse assunta nel 1994 (sentenza n. 10680) allorquando avevano affermato che all’interno dell’organizzazione societaria, l’attività dell’amministratore doveva considerarsi continuativa, coordinata nonché prevalentemente personale e quindi soddisfare i requisiti di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civ., non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell’operato gestorio.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 149 del 10 febbraio 2017, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente per aver consumato abusivamente beni aziendali (cibi e bevande) sul posto di lavoro. Nella fase sommaria, il giudice adito dal lavoratore con ricorso ex art. 1, comma 48, L. n. 92/2012, aveva considerato illegittimo il licenziamento e condannato il datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il giudice dell’opposizione, in riforma dell’ordinanza del primo giudice, con la sentenza in commento, ha dichiarato legittimo il licenziamento, nonostante la modestia del pregiudizio aziendale, valorizzando tra l’altro i seguenti aspetti: (i) i testimoni avevano riferito che il lavoratore non era nuovo a comportamenti simili a quelli che avevano motivato l’atto di recesso; (ii) il lavoratore aveva negato i fatti contestati anziché ammetterli; (iii) la posizione rivestita dal lavoratore (assistente responsabile di un reparto). Da questa sentenza emerge in ogni caso che, nel valutare la proporzionalità tra il fatto addebitato e il provvedimento adottato, ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. Ciò in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti, a prescindere dalla assenza o dalla tenuità del danno patrimoniale eventualmente arrecato.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2000 del 26 gennaio 2017, è tornata a pronunciarsi sul diritto del dirigente ad ottenere il pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute e sul relativo onere probatorio. Nello specifico la Corte ha affermato che la maturazione di tale diritto (e il conseguente riparto probatorio) è strettamente connessa al ruolo ricoperto dal dirigente all’interno dell’azienda. Pertanto i dirigenti cd. “apicali” o comunque i dirigenti che per la indiscutibile posizione ricoperta si trovano nella condizione di non dover rendere conto dettagliatamente delle loro decisioni personali in tema di ferie, non hanno diritto alla relativa indennità sostitutiva qualora non ne abbiano goduto in costanza di rapporto di lavoro, a meno che non provino la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla suddetta fruizione. Per contro, il personale dirigenziale non in posizione apicale o comunque privo nei fatti del potere di autodeterminazione delle ferie, soggiace al principio generale secondo cui il lavoratore, per ottenere il riconoscimento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute, ha soltanto l’onere di provare di aver lavorato nei giorni ad esse destinati, incombendo sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova del relativo pagamento.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1912 del 25 gennaio 2017, ha confermato la decisione dei giudici del Tribunale di Roma, dichiarando legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che, assegnato a mansioni inferiori, si era reiteratamente rifiutato, sul posto di lavoro, di svolgere i nuovi compiti, assumendo un atteggiamento sprezzante e minaccioso verso i vertici aziendali. Secondo la Cassazione, infatti, l’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’assegnare il dipendente a mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa purché “tale reazione sia connotata da caratteri di positività, risultando proporzionata e conforme a buona fede”. Valutazione questa che, sempre a parere della Corte, risulta però superflua qualora il lavoratore (come nel caso di specie) non si sia limitato al rifiuto della prestazione, ma abbia tenuto comportamenti “autonomamente illegittimi”, quali l’occupazione di spazi aziendali o l’uso di espressioni ingiuriose e sprezzanti nei confronti del datore o del superiore. Resta in ogni caso il lavoratore demansionato presentandosi sul posto di lavoro rinuncia all’eccezione di inadempimento nei confronti del datore di lavoro e, quindi, non può rifiutarsi di svolgere con diligenza, correttezza e buona fede la propria prestazione.