La Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 20 settembre 2016, n. 18409, ha confermato la legittimità del licenziamento dell’impiegata part-time per giustificato motivo oggetto fondato sulla necessità di una più economica gestione dell’impresa.
In particolare, la vicenda posta al vaglio della Suprema Corte prendeva le mosse dal reclamo ex art. 1, co. 58, L. 92/12 depositato dalla lavoratrice, innanzi alla Corte di Appello di Roma, avverso la sentenza di rigetto di primo grado.
La Corte di Appello, in particolare, riteneva: la sussistenza del motivo oggettivo di licenziamento per riorganizzazione dell’ufficio di segreteria, cui era addetta la lavoratrice, con riduzione da due a una risorsa; corretta la scelta della dipendente da licenziare in quanto impiegata part-time e dunque con mansioni infungibili rispetto alla collega impiegata full time; rispettati i principi di correttezza e buona fede contrattuale nella misura in cui il datore di lavoro prima di intimare il licenziamento aveva infruttuosamente proposto ad entrambe le dipendenti l’impiego part-time; assolto il tentativo di repechage anche con riferimento ad altra società realizzante un centro unico di imputazione con la società datrice di lavoro. Avverso la precitata sentenza di rigetto ricorreva in sede di legittimità la lavoratrice per la cassazione della sentenza, fondando il proprio ricorso su due motivi di gravame. Resisteva la Società con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso, la lavoratrice denunciava la violazione degli artt. 3, L. 604/1966, 1175 e 1375 cod. civ. per non aver la Corte di merito ritenuto inesistente il motivo oggettivo di licenziamento, in quanto individuato in una mera riduzione dei costi e risoltosi nella soppressione non di una funzione, ma di un lavoratore tout court, senza che fosse sussistente una effettiva riorganizzazione aziendale.
La Suprema Corte, sul punto, richiamando i propri precedenti del 22 settembre 2014, n. 19959, del 19 agosto 2009, n. 18421 e del 3 luglio 2008, n. 18202, ha innanzitutto rilevato che il motivo di ricorso era ai limiti dell’ammissibilità per la sua genericità, e comunque privo di una specifica confutazione delle argomentazione poste a fondamento della decisione impugnata. Venendo poi al motivo di impugnazione, la Corte ha confermato che la scelta di procedere ad una riorganizzazione aziendale anche solo determinata da una più economica gestione dell’impresa legittima il recesso datoriale, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Costituzione e in quanto tale insindacabile dal giudice di merito.
Con il secondo motivo di ricorso, la lavoratrice lamentava la violazione degli artt. 5, L. 604/1966, 2697 cod. civ., 115, 116 cod. proc. civ., 1175 e 1375 cod. civ. per non aver la Corte di merito rilevato: l’inosservanza dei criteri di scelta a proprio favore rispetto alla collega; la fungibilità delle loro mansioni per irrilevanza della diversa entità dell’orario di lavoro osservato; la violazione dell’obbligo di repechage anche in riferimento ad altra Società costituente, unitamente al datore di lavoro, un centro unico di imputazione.
La Suprema Corte ha rigettato tale motivo, dichiarando: per nulla pertinente il richiamo ai criteri di scelta in ipotesi di licenziamento per soppressione della posizione, che la scelta del dipendente da licenziare sulla base della diversità dell’orario di lavoro fosse in assoluto rispetto dei principi di correttezza e buona fede ex art. 1175 cod. civ. in relazione alle specifiche esigenze aziendali; che la contestazione circa la violazione dell’obbligo di repechage fosse generica e pretestuosa per l’assoluta mancanza di riscontro di una diversa collocazione lavorativa nell’asserita unicità di centro di imputazione.
Il ricorso principale veniva pertanto rigettato, con condanna della lavoratrice ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.