La Corte di Cassazione, sez. pen., con sentenza 50919 del 17 dicembre 2019, ha confermato che l’installazione di impianti di videosorveglianza, dai quali possa derivare un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, deve essere preceduta dal raggiungimento di un accordo sindacale o, in difetto, dall’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa. Non è sufficiente il consenso dei lavoratori interessati.
I fatti di causa
Il Tribunale di Milano aveva condannato un imprenditore al pagamento di una ammenda, per aver violato gli artt. 114 e 171 del D.Lgs 196/2003 e gli artt. 4, comma 1, e 38 dello Statuto dei Lavoratori. Ciò in quanto l’imprenditore aveva installato all’interno della propria azienda 16 impianti di videosorveglianza, al dichiarato scopo di controllarne l’accesso e fungere da deterrente per eventi criminosi, i quali però permettevano un controllo a distanza sull’attività dei dipendenti. L’installazione era avvenuta senza un preventivo accordo sindacale ovvero il rilascio di una autorizzazione amministrativa.
Sul punto, infatti, il Tribunale aveva evidenziato che l’imprenditore aveva sì richiesto agli organi periferici dell’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente il rilascio dell’autorizzazione ma, prima del suo conseguimento aveva installato i predetti impianti.
E a nulla, secondo il Tribunale, poteva valere la liberatoria depistata in giudizio, sottoscritta da tutti i dipendenti e inviata preventivamente dall’imprenditore all’ispettorato, in quanto la stessa:
- era stata formata successivamente alla realizzazione materiale della condotta imputata all’imprenditore medesimo ed alla contestazione della sua esistenza e
- in ogni caso, alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, non poteva fungere da “sostituto o dell’esistenza di un accordo sindacale ovvero dell’autorizzazione rilasciata dall’organo pubblico”.
Avverso la sentenza di primo grado ricorreva in appello l’imprenditore, eccependo, tra le altre, che l’assenso prestato dai dipendenti doveva intendersi come elemento atto a escludere la rilevanza penale della condotta contestatagli.
Il ricorso de quo veniva convertito, in ossequio al principio del favor impugnationis, in ricorso per cassazione, non potendo essere appellato poiché era stata comminata solo l’ammenda.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato dall’imprenditore, ha, innanzitutto, rilevato che la fattispecie di cui è causa è disciplinata dall’art. 114 del D.Lgs. 196/2003, che anche seguito dell’entrata in vigore dell’art. 15 del D.Lgs. 101/2018 (Decreto di adeguamento dell’ordinamento nazionale al Regolamento UE 2016/679 in materia di protezione dei dati personali), prevede quanto segue: “la violazione delle disposizioni di cui all’art. 4, comma 1, (…) della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 della medesima legge”.
A nulla rilevando, sempre a parere della Corte di Cassazione, “la circostanza (…) secondo la quale l’impianto di registrazione visiva era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l’attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia, la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei lavoratori previste dalle norme precettive dianzi ricordate”.
Al pari è irrilevante, secondo la Corte di Cassazione, la circostanza secondo cui l’imprenditore non aveva avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo il relativo impianto gestito da un soggetto terzo. Ciò in quanto l’art. 4, comma 1, dello Statuto dei lavoratori vieta, in assenza di un preventivo accordo sindacale o, in difetto di una preventiva autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato del lavoro, la installazione degli strumenti di videosorveglianza a distanza.
Inoltre, la Corte di Cassazione ha sottolineato come l’art. 38 dello Statuto dei Lavoratori non tuteli “l’interesse personale del singolo lavoratore né la sommatoria aritmetica di ciascuno di essi, ma presidia gli interessi di carattere collettivo e superindividuale, sebbene non si possa escludere una possibile interferenza tra la lesione delle posizioni giuridiche facenti capo, sia pure in prima battuta, alle rappresentanze sindacali e quelle facenti occasionalmente capo ai singoli lavoratori”. E la condotta datoriale, che non consente l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali, causa l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici. Le rappresentanze sindacali sono, infatti, “deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento dell’attività lavorativa, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione”.
In questo contesto la Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente, ha rimarcato come il datore di lavoro, qualora installi impianti senza rispettare le garanzie procedimentali di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, assume un comportamento antisindacale, reprimibile con la speciale tutela approntata dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (cfr Corte di cassazione, Sezione lavoro, 16 settembre 1997, n. 9211).
E sempre secondo la Corte di Cassazione, le garanzie procedurali dettate dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori trovano il loro fondamento nella configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro. In caso contrario, continua la Corte di Cassazione, “basterebbe al datore di lavoro, onde eludere la procedimentalizzazione imposta dalla legge, fare firmare a ciascun lavoratore, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui egli accetta l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso, la cui libera determinazione appare viziata dal timore, in caso di rifiuto alla sottoscrizione della dichiarazione in questione, della mancata assunzione”. In conclusione, a parere della Corte di Cassazione, il consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che l’interesse collettivo tutelato rimane fuori della teoria del consenso dell’avente diritto.