L’avvocato Vittorio De Luca, Managing Partner dell’omonimo studio, entra nel merito dei provvedimenti legislativi che hanno introdotto il divieto, dapprima generalizzato e successivamente settoriale, dei licenziamenti per motivi economici. Il Governo ha raggiunto un’intesa con le parti sociali in merito al blocco dei licenziamenti che ne pensa? “L’intesa prevede un impegno a far ricorso a tutti gli ammortizzatori sociali esistenti prima di ricorrere ai licenziamenti, in particolare l’utilizzo della cassa integrazione” dichiara il legale. “L’impegno in questione, per come strutturato, rappresenta una pura forma di raccomandazione, non certo un obbligo. A fronte di un divieto generalizzato dal marzo 2020 e sino al marzo 2021, ci troviamo ora di fronte ad un quadro variegato: con il Decreto Sostegni e con la legge di conversione del Decreto Sostegni bis, il blocco dei licenziamenti è stato in parte superato e in parte prorogato a determinate condizioni”. Dando uno sguardo al panorama europeo, l’Unione Europea ha, di fatto, bocciato la misura in vigore dal marzo 2020, ricordando che l’Italia è l’unico Stato membro ad aver introdotto un divieto generalizzato sui licenziamenti dall’inizio della crisi Covid-19. 

Che ne pensa? “Con le Raccomandazioni pubblicate il 2 giugno la Commissione Europea ha rilevato come il blocco dei licenziamenti non sia stato particolarmente efficace e si sia rivelato superfluo in considerazione dell’ampio ricorso a sistemi finalizzati al mantenimento del posto di lavoro. La Commissione ha bocciato il provvedimento evidenziando che si tratta di una misura che avvantaggia i lavoratori a tempo indeterminato a scapito di quelli a tempo determinato, gli interinali e gli stagionali. Occorre quindi sottolineare – continua il legale – che il congelamento di interi settori produttivi rischia di essere controproducente perché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro alle mutevoli esigenze aziendali”. 

Fonte: L’Economia del Corriere della Sera

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 25 marzo 2021, ha dichiarato nullo il recesso intimato in periodo di prova, poiché contrario al blocco dei licenziamenti per ragioni economiche, introdotto dall’art. 46, del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) e confermato dalla normativa emergenziale succeduta al Decreto stesso, se basato sulla necessità di sopprimere una posizione considerata costosa.

I fatti di causa

Una dipendente veniva assunta da un hotel nel marzo 2020 e nel contratto di lavoro veniva previsto un periodo di prova della durata di 6 mesi. Dopo solo dieci giorni dall’inizio del rapporto di lavoro, a causa dell’insorgere dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, la struttura alberghiera si vedeva costretta a chiudere temporaneamente al pubblico. In conseguenza della chiusura, l’Ufficio del Personale comunicava a tutti i dipendenti l’attivazione del Fondo di integrazione salariale (c.d. “FIS”), salvo poi revocarla esclusivamente per la ricorrente in quanto mancante del requisito previsto per la predetta attivazione (il rapporto di lavoro era iniziato successivamente al 23 marzo 2020). La lavoratrice veniva, quindi, posta in modalità di lavoro agile, riuscendo, nonostante la limitata operatività dell’hotel, a svolgere varie mansioni (conf. call, contatti quotidiani con i referenti dell’ufficio commerciale, condivisione di iniziative di carattere commerciale ecc).

Successivamente, con comunicazione del 16 aprile 2020, l’hotel comunicava alla lavoratrice l’intenzione di recedere dal rapporto di lavoro in periodo di prova. La dipendente ricorreva quindi al Tribunale di Roma per sentir dichiarare la nullità del recesso in quanto – a suo avviso – fondato su motivo illecito determinante.

La decisione del Tribunale di Roma

Prima di entrare nel merito della questione, il giudice capitolino ha richiamato alcuni principi espressi dalla Suprema Corte in materia di recesso intimato durante il periodo di prova. Nello specifico il Tribunale di Roma ha ricordato che secondo la Suprema Corte (i) durante detto periodo «la libertà di recesso non significa (…) che esso sia a totale discrezione del datore di lavoro» e (ii)  va in ogni caso riconosciuta «la sindacabilità del concreto esercizio del recesso operato dall’imprenditore in costanza del periodo di prova e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito» (cfr sentenza n. 1180/2017).

Secondo il Tribunale di Roma, la Corte di Cassazione negherebbe dignità giuridica all’esercizio della pura e semplice discrezionalità funzionalmente slegata dal patto di prova, assegnando al lavoratore l’onere di provare di aver superato positivamente la prova e che il recesso sia legato a motivi illeciti estranei al patto stesso.

E nel caso di specie, il giudice capitolino ha ritenuto assolto l’onere probatorio circa il positivo superamento del periodo di prova, poiché (i) la dipendente aveva elencato le mansioni svolte durante detto periodo, producendo documentazione idonea a dimostrare di averle espletate in modo irreprensibile, tanto da essere apprezzata dai suoi referenti e (ii) la società resistente non aveva contestato in modo specifico l’espletamento delle predette mansioni.

In riferimento alla prova circa la sussistenza di un motivo illecito determinante, invece, il Tribunale ha individuato indizi gravi, precisi e concordanti capaci di assurgere a rango di prova, a conforto della tesi che il recesso fosse stato deciso dalla società per conclamati motivi economici piuttosto che per motivi legati all’espletamento della prova, avendo avuto la stessa la necessità di eliminare una posizione di lavoro costosa.

Tali indizi, secondo il Tribunale, sarebbero stati rinvenuti (i) nell’inclusione iniziale della posizione della dipendente nel numero dei dipendenti per i quali era stato richiesto l’accesso al FIS (a riprova della sua piena integrazione nell’organico aziendale); (ii) nell’aver formalmente richiesto la FIS (seppur successivamente revocata) a zero ore per la dipendente comprovando così l’impossibilità della stessa di svolgere le proprie mansioni a carattere operativo; (iii) nella situazione di oggettiva, grave, difficoltà economica della società resistente, circostanza da considerarsi fatto notorio per tutte le strutture alberghiere nel periodo emergenziale.

Accertato, dunque, il positivo superamento del periodo di prova e la reale motivazione del licenziamento – l’esigenza di estromettere dal contesto aziendale una risorsa divenuta eccessivamente onerosa – il giudice ha dichiarato la «nullità assoluta del recesso datoriale ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 e 1345 c. c., essendo stato il reale motivo che ha giustificato il provvedimento espulsivo violativo dell’art. 46 D. L. 18/2020» e in quanto tale illecito.

A norma dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015, la società datrice di lavoro è stata quindi condannata alla reintegrazione in servizio della lavoratrice con conseguente condanna al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

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La sentenza in commento ci ricorda dunque che, seppure sia possibile per il datore di lavoro recedere senza motivazione dal rapporto durante il periodo di prova, è tuttavia principio ormai consolidato quello secondo cui la libertà di recesso non significa che esso sia a totale discrezione del datore di lavoro. Tale discrezionalità deve essere circoscritta nell’ambito della funzione cui il patto di prova è finalizzato. Pertanto, il recesso può considerarsi nullo, qualora il lavoratore, come nel caso di specie, riesca a dimostrare il positivo superamento della prova e che il vero motivo sia da rinvenirsi in un motivo illecito determinante estraneo allo svolgimento della prova (nel caso di specie in quanto contrario al divieto di licenziamenti per motivi economici introdotto dall’art. 46 del Decreto Cura Italia). Ciò, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegra in servizio del lavoratore ed al pagamento del risarcimento del danno oltre che dei contributi previdenziali ed assistenziali.

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Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 3605 del 19 aprile 2021, si è nuovamente pronunciato in merito all’estensione o meno del blocco dei licenziamenti, disposto dall’art. 46 del Decreto Cura Italia e confermato dai successi provvedimenti emergenziali, al personale dirigenziale. Nello specifico il Tribunale – contrariamente alle conclusioni a cui era giunto il precedente 26 febbraio – ha statuito che “il dato letterale della norma, in uno con la filosofia che la sorregge, non consente di ritenere che la figura del dirigente possa essere ricompresa nel blocco“.

I fatti di causa

Per far fronte ad una situazione di crisi, aggravata dalle conseguenze dell’emergenza pandemica, una società, con comunicazione del 29 aprile 2020, aveva licenziato il proprio Chief Operating Officer per soppressione della posizione, con ridistribuzione delle funzioni allo stesso assegnate tra altri responsabili aziendali.

Il dirigente aveva impugnato il recesso eccependo, da un lato, la sua nullità per violazione dell’art. 46 del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) sull’assunto che il divieto di licenziamento individuale introdotto dalla normativa emergenziale dovesse applicarsi anche al personale dirigenziale e, dall’altro, l’illegittimità dello stesso.

La decisione del Tribunale

Nel rigettare il ricorso promosso dal dirigente, il Tribunale di Roma ha preliminarmente rilevato che l’art. 46 del Decreto Cura Italia – così come i successivi provvedimenti emergenziali che hanno prorogato il blocco dei licenziamenti – ha espressamente escluso la possibilità di intimare recessi per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/66.

Orbene, sulla base del tenore letterale della norma e sull’assunto che l’art. 3 della Legge 604/66 non si applica ai dirigenti, sia per espressa previsione normativa (art. 10 L. 604/66) che per costante orientamento giurisprudenziale, il Tribunale ha escluso che la figura dirigenziale possa essere ricompresa nel blocco dei licenziamenti.

Il Tribunale ha poi rilevato la “chiara ed evidente simmetria” tra il blocco dei licenziamenti e il ricorso agli ammortizzatori sociali, che ha consentito in maniera pressoché generalizzata alle aziende la possibilità di ridurre il costo del lavoro per far fronte alle perdite. Simmetria confermata, oltretutto, dalla possibilità per i dator di lavoro, introdotta sempre dall’art. 46 del Decreto Cura Italia al comma 1-bis, di revocare i licenziamenti già intimati prima del blocco purché contestualmente venisse fatta richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale.

In ogni caso, a parere del Tribunale, il binomio “divieto di licenziamento” e “ricorso agli ammortizzatori sociali” non regge con riferimento ai dirigenti, in quanto agli stessi non è consentito, in costanza di rapporto, di beneficiare degli ammortizzatori sociali. Un’interpretazione che consentisse di includere il personale dirigenziale nel blocco dei licenziamenti presenterebbe profili di incostituzionalità, in quanto lascerebbe a carico del datore di lavoro gli oneri del rapporto di lavoro dirigenziale pur in presenza di una giustificatezza del recesso.

Il Tribunale ha, inoltre, ritenuto di non poter giungere a conclusioni diverse neppure in ragione dell’ordinanza del medesimo Tribunale del 26 febbraio 2021, a parere della quale il divieto si estenderebbe ai dirigenti poiché “secondo una ‘interpretazione costituzionalmente orientata’ non si capirebbe l’esclusione dei dirigenti dal blocco visto la ratio della norma che è quella di impedire il licenziamento in generale senza distinzione di sorta“.

Con la pronuncia in esame, il Tribunale non ha neanche condiviso l’ulteriore motivazione contenuta nell’ordinanza del 26 febbraio scorso secondo cui sarebbe irragionevole non includere i dirigenti nel divieto poiché protetti dalla disciplina del licenziamento collettivo. Ed infatti, con la sentenza in commento, il Tribunale ha statuito che la diversità tra fattispecie giustifica una diversità di trattamento e non può costituire valido motivo per estendere il beneficio del blocco al licenziamento individuale del dirigente.

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Il percorso logico-giuridico che ha condotto il Tribunale ad escludere l’estensione del blocco dei licenziamenti al personale dirigenziale può risultare condivisibile, poiché in linea con le previsioni di legge e con la ratio dell’intero impianto normativo emergenziale.

Non può non riflettersi, tuttavia, sulla circostanza che la giurisprudenza di merito sino ad oggi intervenuta sull’interpretazione della medesima fonte normativa, sia giunta a soluzioni diametralmente opposte, con una conseguente incertezza per le aziende circa gli esiti e costi dell’eventuale licenziamento delle figure apicali.

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Il Decreto Sostegni (D.L. 41/2021), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 marzo 2021 ed entrato in vigore il successivo 23 marzo, ha prorogato il divieto di licenziamento per motivi economici (licenziamenti individuali e procedure di licenziamento collettivo), in maniera generalizzata sino al 30 giugno 2021 e poi differenziata. Nello specifico, il divieto di licenziamento proseguirà dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021 solo per le aziende che possono beneficiare della cassa integrazione guadagni in deroga e dell’assegno ordinario FIS. Tuttavia, il Decreto Sostegni ha confermato la possibilità (introdotta dal Decreto Agosto e prevista anche dalla Legge di Bilancio 2021), durante la vigenza del divieto di licenziamento, di stipulare accordi collettivi aziendali con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Sul punto l’INPS con il messaggio 689/2021 ha chiarito che per la validità dell’accordo collettivo aziendale è sufficiente la sua sottoscrizione da parte anche di una sola delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Gli accordi devono avere ad oggetto un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro e riguardare i lavoratori che vi aderiscono. I lavoratori in questione possono accedere alla prestazione di disoccupazione NASPI per i quali il datore di lavoro deve provvedere al versamento del ticket di licenziamento.

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Il Tribunale di Ravenna, con la sentenza del 7 gennaio 2021, ha stabilito che anche il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alla mansione rientra tra le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo vietate dalla normativa emergenziale da Covid-19.

I fatti di causa

Un lavoratore ha impugnato giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli in data 30 aprile 2020 a seguito di una sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, accertata dal medico competente qualche giorno prima.  

La società datrice di lavoro nel resistere in giudizio ha eccepito che l’inidoneità fisica in questione non rientrerebbe nelle ipotesi previste dalla normativa emergenziale che imporrebbe solo il divieto di licenziamenti aventi natura economica in senso stretto.

La decisione del Tribunale

Nell’accogliere il ricorso presentato dal lavoratore, il Tribunale, in primo luogo, ha rilevato che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione rientra nella categoria dei licenziamenti basati su motivi oggettivi.

Il Tribunale ha poi stabilito che detta ipotesi rientra nell’ambito applicativo del blocco dei licenziamenti imposto dal legislatore per far fronte alla emergenza pandemica da Covid-19. Ciò in quanto questa tipologia di licenziamento deve considerarsi destinataria delle stesse ragioni di tutela economica e sociale che sono alla base di tutti gli altri recessi che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.

Secondo il Tribunale, per il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, il licenziamento deve essere considerato l’extrema ratio, evitabile con l’adozione di misure organizzative tali da consentirgli di continuare a lavorare, eventualmente passando a svolgere mansioni inferiori.

E a parere del Tribunale la società resistente avrebbe potuto svolgere tale valutazione solo all’esito del superamento della situazione di contrazione economica pressoché totale, dovuta al c.d. lockdown.

In questo contesto, vale la pena ricordare che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere licenziati per giustificato motivo se possono essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. In tal caso, il datore di lavoro è tenuto a impiegare il lavoratore in una diversa attività utilizzabile nell’impresa, secondo il suo assetto organizzativo. In sostanza, il datore di lavoro, pur non essendo tenuto a modificare il proprio assetto organizzativo, è obbligato ad assegnare all’invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni e a reperire, nell’ambito della struttura aziendale, il posto di lavoro più adatto alle sue condizioni di salute.