Ogni incentivo datoriale rivolto ai lavoratori per indurli a rinunciare alle ferie ovvero a sollecitarli a rinunciarvi deve ritenersi in contrasto con il principio di irrinunciabilità delle ferie e con il diritto del lavoratore a vedersi garantito il beneficio di un riposo effettivo.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13613/2020 ha chiarito che: “Il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio fondamentale del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88. Non è compatibile con l’art. 7 della predetta direttiva, una normativa nazionale che preveda una perdita automatica del diritto alle ferie annuali retribuite, non subordinata alla previa verifica che il lavoratore abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tale diritto, infatti il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti”.

Pertanto, il mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro si sarebbe posto non solo in contrato con

  • l’art. 7 “Ferie annuali” della direttiva 2003/88 secondo cui: “1.Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.”;
  • ma anche con l’art. 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25355 del 9 ottobre 2019, ha affermato che il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipendium da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore, è tenuto ad allegare circostanze di fatto specifiche e a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative. L’antefatto che la Suprema Corte ha esaminato, è stato, in estrema sintesi, il seguente. Un liquidatore di sinistri veniva licenziamento dalla Compagnia Assicurativa presso cui prestava la propria attività lavorativa all’esito di un procedimento disciplinare azionato nei suoi confronti per aver tenuto una condotta gravemente colposa. In particolare, al lavoratore era stato contestato di non aver effettuato in 18 episodi, prima di disporre i pagamenti, tutta l’attività propedeutica ed istruttoria necessaria ad accertare il reale verificarsi nonché la dinamica degli accadimenti relativi ai sinistri e delle conseguenti lesioni denunciate. Il Tribunale di Cosenza aveva respinto l’opposizione ex art. 1, comma 51, della L. 92/2012, proposta dal lavoratore e dalla Compagnia assicurativa avverso l’ordinanza emessa nella fase sommaria. Con essa, in parziale accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, era stato dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannata la Compagnia Assicurativa al pagamento di una indennità pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Compagnia assicurativa proponeva reclamo in appello ed il lavoratore si costituiva proponendo reclamo incidentale. La Corte distrettuale riteneva insussistenti i 18 episodi contestati, osservando, peraltro, che “il ragguardevole carico di lavoro attribuito al lavoratore rendesse (comunque) inesigibile (ndr avesse comunque reso inesigibile) la conoscenza delle anomalie che, invero, erano state (asseritamente) rilevate, dalla parte datoriale, solo a seguito di una dispendiosa e merita attività di indagine”. La Corte di appello territorialmente competente accoglieva così il reclamo incidentale del lavoratore ed annullava il licenziamento ad esso intimato, ordinando: – da un lato, alla Compagnia assicurativa di reintegrare il lavoratore e condannandola al versamento, con decorrenza dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegra, dei contributi previdenziali e assistenziali, oltre interessi, – dall’altro, al lavoratore di restituire la somma pari a 8 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori dalla percezione al soddisfo. Non solo. La Corte d’Appello rigettava l’eccezione di compensazione dell’aliunde perceptum o percipendium sollevata da parte datoriale, sostenendo che non erano stati offerti “elementi specifici, idonei a dar conto di un minor danno da risarcire”. Avverso tale sentenza, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso, affidato a quattro motivi, e il lavoratore resisteva con controricorso. Di nostro interesse, si rivela soltanto il quarto motivo di impugnazione con cui l’Impresa di Assicurazione ha denunciato l'”omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la critica afferisce al rigetto dell’eccezione di aliunde perceptum et percipendium; la parte ricorrente imputa alla Corte di Appello di non aver effettuato i necessari approfondimenti al riguardo, come era invece, suo onere”. La Suprema Corte, nel rigettare il predetto motivo di impugnazione, ha, tra le altre, sottolineato come la Corte d’appello avesse fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui “il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipiendum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (ex plurimis, Cass. Nr. 4999 del 2017)”.

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17248 del 2 luglio 2018, ha affrontato la questione della tutela del lavoratore in presenza di una serie di contratti a tempo determinato. In particolare, secondo la Suprema Corte l’indennità compresa nel range tra le 2,5 e le 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto di cui all’art. 32, comma 5, della Legge 183/2000 (oggi abrogato), da riconoscersi al lavoratore a seguito della conversione del rapporto a tempo indeterminato, deve necessariamente tenere conto dei pregiudizi, retributivi e contributivi, subiti dallo stesso nel periodo compreso tra la scadenza del contratto e la sentenza di ricostituzione del rapporto. A parere della Corte, l’indennità in questione, invece, non può ritenersi applicabile ai periodi di effettiva prestazione lavorativa durante i quali il lavoratore non può aver subito conseguenze negative né sul piano salariale né su quello contributivo. Secondo la Corte di Cassazione, con riferimento a questi periodi non opera il principio di omnicomprensività dell’indennità ex art. 32 della Legge 183/2000 ed il lavoratore ha diritto alla computazione degli stessi ai fini dell’anzianità di servizio e della maturazione dei relativi scatti di anzianità. In altri termini detto diritto non può essere intaccato ed inglobato nell’indennizzo forfettizzato del danno causato dal non lavoro.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17514 del 4 luglio 2018, ha ritenuto giustificato il licenziamento disciplinare intimato all’autista di pullman di un’impresa di noleggio privato che, durante un lungo periodo di assenza dal lavoro per infortunio in itinere, era stato scoperto mentre lavorava presso un parcheggio di autovetture. In pari data, il 4 luglio 2018, la Corte di Cassazione ha emesso un’altra ordinanza, la n. 17424, in cui ha invece affermato che è illegittimo il licenziamento comminato ad un dipendente inabile al lavoro per una gastroenterite, il quale, nel periodo di assenza, aveva svolto in proprio un’attività di tinteggiatura di esterni. Le predette conclusioni, apparentemente opposte, trovano in realtà il loro punto di incontro nel principio in base al quale lo svolgimento di altra attività lavorativa durante l’assenza dal lavoro per malattia non è automaticamente riconducibile ad un illecito disciplinare. Ciò in quanto è necessario verificare se tale attività risulti incompatibile con la condizione di morbilità o sia idonea ad impedire o ritardare la guarigione. Proprio alla luce di quanto sopra, la Corte, nella sentenza n. 17514, ha ritenuto che le azioni compiute dal lavoratore “apparivano ictu oculi incompatibili con la denuncia di infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie”. Al contrario, con ordinanza n. 17424, la Corte ha accertato che “lo svolgimento dell’attività (extra) lavorativa durante la malattia non fosse incompatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, né determinasse un pregiudizio al normale recupero delle normali energie psico-fisiche”.