Con l’ordinanza n. 1476 del 15 gennaio 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla gravità del fatto addebitato ad un dipendente quale ragione posta alla base del recesso per giusta causa, comminato ai sensi dell’art. 2119 Cod. Civ.

Al termine dei tre gradi di giudizio la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal dipendente confermando le precedenti pronunce.

I fatti di causa

La vicenda trae origine da un licenziamento intimato da una società ad un lavoratore assunto con qualifica di cuoco per aver quest’ultimo illegittimamente e reiteratamente sottratto generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro. Nell’ambito del procedimento disciplinare il lavoratore aveva richiesto di posticipare l’incontro fissato per l’audizione per ragioni di salute. Nello specifico, il lavoratore aveva prodotto dei certificati medici che attestavano una situazione di ansia reattiva da stress.

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – avanti al quale era stato impugnato il licenziamento – respingeva l’azione promossa dal lavoratore ai sensi della Legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero).

L’adita Corte d’Appello di Napoli, in secondo grado, rilevava: (i) l’insussistenza della lesione del diritto di difesa in quanto la prodotta certificazione medica non era idonea a giustificare un legittimo impedimento e, pertanto, la richiesta di rinvio dell’incontro aveva finalità meramente dilatorie; (ii) che il materiale istruttorio acquisito processualmente aveva confermato l’addebito mosso in sede disciplinare, vale a dire la sottrazione reiterata e senza autorizzazione, di cibi cucinati, nonché l’inadempimento agli obblighi di fedeltà, lealtà e correttezza (imputabile al lavoratore); (iii) la sussistenza di proporzionalità della sanzione espulsiva comminata in ragione dell’illiceità del fatto e dei comportamenti posti in essere (penalmente rilevanti) fondanti e giustificatrici della proporzionalità della sanzione.

Sulla base di tali presupposti, i giudici della Corte d’Appello rigettavano le pretese del lavoratore.

La sentenza della Corte di Cassazione

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione denunciando, da un lato, la violazione della disciplina dettata dall’art. 7 della Legge 300/1970 per le procedure disciplinari (c.d. Statuto dei Lavoratori) e, dall’altro, errori nella valutazione degli elementi probatori riguardanti l’accertamento dell’intensità della condotta e la mancanza di proporzionalità della sanzione.

La Corte, in sede di gravame, ribadisce come nei casi di licenziamento disciplinare, il lavoratore abbia diritto, qualora ne faccia richiesta, di essere sentito dal datore di lavoro, ferma restando pur sempre la possibilità di differimento, concessa al lavoratore nei casi di sussistenza di comprovati e validi motivi che possano pregiudicarne l’effettivo e corretto esercizio.

Nel caso di specie, ad avviso della Suprema Corte, la condotta realizzata (furto di cibo), seppur non così grave da recare danni e pregiudizi economici di rilevante entità, integra un’ipotesi di giusta causa di recesso manifestando disvalore sociale e ponendosi in “contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale […] sebbene vi possa essere stata una apparente tolleranza da parte del datore di lavoro”.

La Suprema Corte, a valle delle valutazioni svolte sulla gravità della condotta, Corte conclude poi che la modesta entità del fatto “non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro” (Cass. 11806/1997; Cass. n. 19684/2014).

Marco Giangrande e Antonella Iacobellis sono stati i docenti del percorso formativo tenutosi gli scorsi 23, 24, 25 novembre inerente al modulo Diritto del Lavoro del master “Diritto e Impresa” (Milano) organizzato da Il Sole 24 ORE Business School.

La docenza ha avuto ad oggetto, tra l’altro, le fonti del diritto del lavoro, gli elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato, le clausole necessarie e accessorie del contratto di lavoro subordinato, i contratti a termine, l’esercizio del potere disciplinare e gli istituti del trasferimento, del distacco e della trasferta. Durante la lezione di Marco e Antonella, si sono tenute anche alcune esercitazioni per consentire ai partecipanti di poter calare nella realtà tutte le nozioni condivise.

23 novembre 2020

La docenza ha avuto ad oggetto le fonti del diritto del lavoro, l’instaurazione del rapporto di lavoro, gli elementi tipizzanti del rapporto di lavoro subordinato e del rapporto di lavoro autonomo, l’art. 2103 c.c. “Jus variandi”, con focus particolare sul demansionamento, e il contratto a termine.

Esercitazione: redazione di un patto di non concorrenza.

24 novembre 2020

La docenza ha avuto ad oggetto l’esercizio del potere disciplinare e gli istituti del trasferimento, del distacco e della trasferta.

Esercitazione: la lezione si è svolta in modalità di business game, che consiste nella risoluzione di un caso aziendale, attraverso un percorso di domande con risposta multipla. Questa modalità esperienziale ha consentito ai partecipanti, divisi in squadre, di imparare, giocando, a comminare correttamente una sanzione disciplinare per evitare possibili ripercussioni da parte del lavoratore.

25 novembre 2020

La docenza ha avuto ad oggetto come difendere l’azienda in tribunale e affrontare un’udienza di lavoro: il ricorso introduttivo del giudizio; il lavoro dietro le quinte: la stretta collaborazione tra avvocato e cliente; l’iter processuale: la prima udienza, l’istruttoria testimoniale e l’udienza di discussione.

Esercitazione: redazione di una lettera di contestazione disciplinare ed esame di un ricorso ex art. 414 c.p.c. a seguito di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 24 febbraio 2020, n. 4879, ha affermato che la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, della L. 300/1970 in caso di “insussistenza del fatto contestato” è applicabile altresì in caso di inesistenza della contestazione ovvero qualora la stessa contenga fatti diversi da quelli posti alla base del licenziamento.

I fatti di causa

La vicenda processuale da cui trae origine la decisione della Suprema Corte ha visto il susseguirsi di due decisioni allineate da parte dei giudici territoriali di merito.

Infatti, la Corte d’Appello, confermando la sentenza del giudice di prime cure, aveva ritenuto:

  • illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, per insussistenza del fatto materiale contestato. Ciò in quanto non era stato ravvisato alcun intento minatorio nella frase “io non ho nulla da perdere, se mi faccio male io non mi faccio male da solo” pronunziata dal dipendente come reazione al comportamento del datore di lavoro che gli aveva negato la possibilità di godere delle ferie ad agosto; e
  • violato il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, evincibile dalla valutazione comparativa tra le circostanze di fatto enunciate nella contestazione dell’addebito e le differenti ed ulteriori circostanze enunciate nella lettera di licenziamento. In quest’ultima, infatti, si faceva riferimento per la prima volta ad azioni di “ricatto, minaccia e lesione dell’immagine aziendale” asseritamente poste in essere dal lavoratore.

Infine, alla stregua di tali rilievi veniva confermata la correttezza della tutela reintegratoria applicata, senza che rilevasse la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

Avverso la decisione di secondo grado, il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione, deducendo che i vizi procedurali, anche gravi, possono dare luogo solo ad una tutela indennitaria ridotta, mentre le altre tutele possono applicarsi allorquando vi sia sul piano sostanziale un difetto di giustificazione del licenziamento.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha osservato che in presenza di un licenziamento formalmente viziato, e quindi inefficace, per violazione dell’obbligo di motivazione, trova applicazione una sanzione indennitaria (sempre sostitutiva del posto di lavoro) ridotta, perché variabile da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità, tenuto conto della gravità della violazione formale commessa (art. 18, comma 6, dello Statuto dei Lavoratori).

In ogni caso, secondo la Corte di Cassazione, resta ferma l’applicazione delle diverse tutele previste dall’art. 18, commi 4°, 5° o 7° – in sostituzione della tutela indennitaria ridotta e non in aggiunta ad essa – qualora emerga, su domanda del lavoratore, l’ingiustificatezza del licenziamento. Per ingiustificatezza del licenziamento si intende l’inesistenza di un giustificato motivo soggettivo, oggettivo o di una giusta causa il cui onere della prova, una volta che il lavoratore ha spiegato la sua domanda, resta comunque in capo al datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della legge 604/1966.

La Corte di Cassazione – di fronte alla dibattuta questione dell’individuazione del regime di tutela applicabile in ipotesi di omessa iniziale contestazione di taluni comportamenti – ha, quindi, statuito che “ove il licenziamento venga intimato senza contestazione disciplinare, lo stesso continua, come in passato, ad essere considerato ingiustificato ed è sanzionato con la reintegrazione ad effetti risarcitori limitati”.

La giustificazione della tutela reintegratoria sempre a parere della Corte, si rinviene nel fatto che, ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. Lav., tale tutela è prevista in caso di “insussistenza del fatto contestato”, che implicitamente non può che ricomprendere anche l’ipotesi di inesistenza della contestazione.

A fronte di tutte le ragioni menzionate, il ricorso della società datrice di lavoro è stato respinto, perché considerato privo di ogni fondamento.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19103 del 1° agosto 2017, ha confermato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice resasi responsabile d’aver fornito informazioni riservate in merito all’azienda presso cui era in forza, esprimendo anche giudizi denigratori sulla stessa, ed ai suoi dipendenti, ad un ex collega poi assunto da una società concorrente. Il caso di specie fa riferimento all’epilogo di un procedimento disciplinare che si fondava su una contestazione del tutto generica. Al riguardo la Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva statuito che “la contestazione disciplinare risultava formulata in termini generici, recando riferimenti a fatti privi di collocazione temporale e riferiti a soggetti non specificati”, motivo per il quale non poteva che dichiararsi priva di effetto. Ed il giudice di legittimità, investito poi della questione, nel confermare la decisione di secondo grado ha avuto modo di ribadire l’ormai unanime orientamento giurisprudenziale secondo cui le contestazioni disciplinari devono presentare i caratteri della “specificità, immediatezza ed immutabilità. Ciò in quanto essi sono  “volti a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alla quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi, perché non tempestivamente contestate, perché diverse dalle condotte oggetto della iniziale contestazione, perché non adeguatamente definite nelle loro modalità essenziali ed essere così esattamente individuabili”. Orbene una lettera di contestazione priva dei requisiti della specificità, della immediatezza e della immutabilità vizia l’intero procedimento disciplinare determinando, di conseguenza, la nullità del provvedimento sanzionatorio all’esito eventualmente irrogato.