La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022, ha affermato che la specificazione delle mansioni oggetto del patto di prova può avvenire anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo, sempreché il rimando sia sufficientemente specifico.

I fatti di causa

La pronuncia della Suprema Corte trae origine da una sentenza della Corte di Appello di Trento che aveva confermato la sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso presentato da una lavoratrice affinché venisse accertata la nullità del patto di prova apposto al suo contratto di lavoro e la conseguente nullità del recesso intimatole per mancato superamento della prova. Nel caso di specie la lavoratrice era stata assunta come “addetto ai lavori non rientranti nel ciclo produttivo» e inquadrata nel “livello I 3” del CCNL di settore, ovvero il CCNL Gomma e Plastica.

Secondo la Corte d’Appello, il rimando al CCNL non conferiva specificità alle mansioni assegnate alla lavoratrice poiché la previsione collettiva menzionava fra i compiti riconducibili a detto livello i “lavori analoghi a lavori di pulizia», senza ulteriore specificazione o esemplificazione.

A parere della Corte territoriale, ulteriore elemento di incertezza – in relazione ai compiti richiesti e sui quali doveva essere verificato l’esito della prova – era rappresentato dalla clausola acclusa al contratto individuale secondo cui “mansioni e obiettivi verranno in seguito specificati e faranno parte integrativa del contratto”. Questa clausola, secondo la Corte d’Appello, non era riconducibile, come sostenuto dalla società, all’ambito del potere conformativo del datore di lavoro estrinsecantesi attraverso ordini di servizio.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, in primo luogo, ribadito che la causa del patto di prova deve essere individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, “in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.

Questa esigenza di specificità delle mansioni oggetto del patto di prova, “è funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito che deve essere effettuata in relazione alla prestazione e mansioni di assegnazione quali individuate nel contratto individuale”.

Inoltre, ad avviso della Corte, sebbene sia in astratto possibile integrare la clausola del patto di prova mediante il rinvio ai contenuti della qualifica e del livello di inquadramento del CCNL, è necessario che “il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”. Ma, nel caso di specie, il rinvio al CCNL non era idoneo a conferire specificità al contenuto delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova della lavoratrice. Ciò in quanto la declaratoria collettiva relativa alla posizione professionale di inquadramento evocava fra i compiti di possibile adibizione, accanto a quelli di pulizia, lavori agli stessi “analoghi”.  Espressione questa che, ad avviso della Corte, “ampliava in maniera indefinita l’ambito delle mansioni in concreto riconducibili al livello considerato”.

In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società, condannandola alle spese di lite.

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Lo scorso 7 dicembre, le Parti Sociali e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno sottoscritto il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” (il “Protocollo”).

Il Protocollo, come si legge nelle premesse, “fissa il quadro di riferimento per la definizione dello svolgimento del lavoro in modalità agile esprimendo linee di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e/o territoriale nel rispetto della disciplina legale di cui alla legge 22 maggio 2017, n. 81 e degli accordi collettivi in essere, tutto ciò affidando alla contrattazione collettiva quanto necessario all’attuazione nei diversi e specifici contesti produttivi”.

Le principali linee di indirizzo

In primo luogo, il Protocollo chiarisce che l’adesione al lavoro agile deve avvenire su base volontaria e deve essere, in ogni caso, subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale, fermo restando il diritto di recesso. L’eventuale rifiuto del lavoratore di aderire o svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità agile non integra gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, né rileva sul piano disciplinare.

L’accordo individuale deve regolamentare aspetti quali:

  • la durata (a termine o a tempo indeterminato);
  • l’alternanza tra i periodi di lavoro all’interno e all’esterno dei locali aziendali;
  • i luoghi eventualmente esclusi per lo svolgimento della prestazione lavorativa esterna ai locali aziendali;
  • gli aspetti relativi all’esecuzione della prestazione lavorativa;
  • gli strumenti di lavoro;
  • la disconnessione;
  • le forme e le modalità di controllo;
  • l’attività formativa;
  • le forme e le modalità di esercizio dei diritti sindacali.

Come noto, l’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile non presuppone un preciso orario di lavoro ma, al contrario, una autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati nonché del rispetto dell’organizzazione, delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali. Autonomia che si ritrova anche nella scelta del luogo di lavoro dal quale eseguire la prestazione. Tuttavia, chiarisce il Protocollo: “la prestazione di lavoro […] può essere articolata in fasce orarie, individuando […] la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa. Non solo, vanno, anche “adottate specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire la fascia di disconnessione”.

Il Protocollo, inoltre, ricorda che, di norma, è il datore di lavoro a fornire la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile. In ogni caso, qualora si concordi l’utilizzo di strumenti propri, è necessario stabilire criteri e requisiti adeguati di sicurezza.

Il Protocollo ribadisce che il lavoratore è tenuto a trattare i dati personali cui accede per fini professionali in conformità alle istruzioni fornite dal datore. Pertanto, al fine di garantire la compliance alla normativa in materia di protezione dei dati personali nonché il rispetto della riservatezza, il datore di lavoro è tenuto a:

  • adottare tutte le misure tecnico – organizzative adeguate;
  • informare il lavoratore sui trattamenti di dati che lo riguardano;
  • istruirlo, fornendogli le indicazioni sulle misure di sicurezza che deve osservare;
  • adottare policy aziendali per la gestione dei dati personali (ad es. procedura per la gestione dei data breach, procedura per la gestione dell’esercizio dei diritti degli interessati, procedura per il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro);
  • aggiornare il Registro del trattamento ex art. 30 del GDPR. Viene, altresì, raccomandato di effettuare la Valutazione di impatto ex art. 35 del GDPR.

Anche in caso di esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile, il datore di lavoro è tenuto a garantire la salute e la sicurezza del lavoratore fornendo, tempestivamente, a quest’ultimo e al RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) una informativa scritta che descriva i rischi generali e specifici connessi alla modalità agile di esecuzione del rapporto di lavoro. Anche da remoto, ribadisce il Protocollo, il lavoratore continua ad avere diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali.

È necessario, infine, che il datore di lavoro (i) preveda percorsi formativi finalizzati a incrementare specifiche competenze tecniche, organizzative, digitali, anche per un efficace e sicuro utilizzo degli strumenti di lavoro forniti in dotazione e (ii) garantisca la formazione obbligatoria in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e di protezione dei dati personali.

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Il Protocollo fornisce delle linee di indirizzo che rappresentano un quadro di riferimento per la futura contrattazione collettiva, nazionale e aziendale e/o territoriale, fermi restando gli accordi in essere anche individuali.

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Con nota n. 1363 del 14 settembre 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (l’“INL”) ha fornito chiarimenti in merito alle modifiche apportate dal D.L. n. 73/2021 (c.d. “Decreto Sostegni bis”) alla disciplina delle causali da apporre ai contratti a termine.

Nuova causale

Il Decreto Sostegni bis, così come convertito dalla L. n. 106/2021, ha integrato la disciplina prevista dall’art. 19, del D.Lgs. n. 81/2015, introducendo, con la prima parte (lettera a), la possibilità per la contrattazione collettiva (di livello nazionale, territoriale e aziendale) di individuare specifiche esigenze per la stipula di un contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi. Tali esigenze vanno ad affiancarsi alle altre ragioni giustificatrici di cui al medesimo articolo.

In merito alle caratteristiche sostanziali delle predette “specifiche esigenze” l’INL, con la circolare in esame, ha chiarito che la norma non pone particolari vincoli contenutistici, essendo richiesto solamente che esse siano specifiche e, quindi, concrete, evitando formulazioni generiche.

La delega alla contrattazione collettiva per l’individuazione delle causali, ha evidenziato l’INL, non ha riflessi unicamente per la stipula del primo contratto di durata superiore ai 12 mesi ma influisce anche sulle norme che regolano gli istituti del rinnovo e della proroga, di cui all’art. 21, del D.Lgs. 81/2015.

Infatti, l’apposizione di una delle causali individuate dall’art. 19 è sempre richiesta (a pena di trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato) in caso di rinnovo mentre, in caso di proroga, solo quando, in virtù della stessa, la durata complessiva del contratto superi i 12 mesi.

Pertanto, sarà possibile rinnovare o prorogare un contratto a termine secondo le nuove previsioni (esigenze specifiche) della contrattazione collettiva.

Limitazione temporale

Con la lett. b) del medesimo comma 1 dell’art. 41 bis è stato, altresì, inserito all’art. 19 un il comma 1.1 secondo il quale “il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”.

Numerosi dubbi interpretativi erano sorti circa la portata applicativa del termine temporale del 30 settembre 2022 previsto dalla nuova disposizione normativa.

L’INL, con la nota in commento, è intervenuta a dissipare ogni incertezza, chiarendo che la limitazione temporale (30 settembre 2022) al ricorso alla nuova causale (specifiche esigenze individuate dalla contrattazione collettiva):

  • si applica soltanto nei casi di stipulazione di un primo contratto a termine che abbia una durata iniziale superiore ai 12 mesi; mentre
  • non trova applicazione in materia di rinnovi e proroghe.

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Alla luce dei chiarimenti dell’INL, possiamo dunque concludere che:

  • fino al 30 settembre 2022 sarà possibile stipulare un primo contratto a tempo determinato di durata iniziale superiore ai 12 mesi, secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva (oltre che secondo le altre causali individuate dall’art. 19, D.Lgs. 81/2015).  E il termine del 30 settembre, come chiarito dall’INL, va riferito alla formalizzazione del contratto, il quale ben potrà prevedere una durata del rapporto che superi tale data (fermo restando il limite complessivo dei 24 mesi);
  • dopo il 30 settembre 2022 sarà, comunque, possibile stipulare un primo contratto a tempo determinato di durata iniziale superiore ai 12 mesi ma solo facendo ricorso alle altre causali indicate dall’art. 19, co.1, D.Lgs. 81/2015, ossia:
  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
  • le regole in materia di rinnovi e proroghe non sono condizionate temporalmente. Pertanto, sarà possibile prorogare o rinnovare i contratti a termine in ragione delle causali previste dalla contrattazione collettiva (oltre che delle altre causali di cui sopra), anche successivamente al 30 settembre 2022.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7221 del 15 marzo 2021, ha ribadito il principio di diritto secondo cui il contratto integrativo aziendale, così come il diritto riconosciuto al dipendente dall’uso aziendale, non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda.

I fatti di causa

Un lavoratore, assunto da una società, passava presso un’altra società tramite una cessione di contratto e infine, per effetto di un trasferimento d’azienda, presso un nuovo datore di lavoro (Società cessionaria).

Le prime due società avevano riconosciuto ai propri dipendenti, per il compimento del trentesimo anno di anzianità aziendale, un orologio d’oro che, tuttavia, non veniva corrisposto dalla Società cessionaria al lavoratore in questione.

Pertanto, il dipendente agiva in giudizio per chiedere il riconoscimento della somma di € 2.500,00 (pari al valore di acquisto dell’orologio d’oro) oltre rivalutazione ed interessi, nonché dell’ulteriore somma di € 1.272,75, oltre rivalutazioni di legge, per l’accantonamento ai fini di T.f.r. (per inclusione in esso di quanto corrispostogli per premio di anzianità, di compenso per festività cadenti la domenica, permessi individuali non fruiti e lavoro straordinario).

Il Tribunale accoglieva il ricorso del lavoratore, condannando la Società cessionaria al pagamento di quanto dallo stesso richiesto. Quest’ultima ricorreva in appello avverso la sentenza di primo grado.

La Corte di merito, investita della sola impugnazione della condanna al pagamento, nel rigettare il ricorso ribadiva che la prassi aziendale di consegna dell’orologio ai dipendenti al compimento del trentesimo anno di anzianità di servizio, era stata mantenuta presso la Società cessionaria.

Secondo la Corte, sebbene detta prassi – poiché fonte eteronoma del contratto individuale e non sua clausola integrativa eventualmente più favorevole – non si conservi nel trasferimento d’azienda, per effetto della sostituzione della contrattazione collettiva applicata dal cessionario (anche se più sfavorevole) era stata riconosciuta anche dalla Società cessionaria con accordo integrativo aziendale.

La Società Cessionaria agiva, dunque, in Cassazione, lamentando l’erronea interpretazione dell’accordo integrativo da parte della Corte territoriale.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione adita ha ribadito in primo luogo il principio di diritto secondo cui, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, si applica la contrattazione integrativa aziendale del cessionario e non già della società cedente. Anche il diritto riconosciuto dall’uso aziendale – parificabile al contratto integrativo sul piano dell’efficacia nei rapporti individuali, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, sostitutivo delle clausole contrattuali e collettive in vigore – non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda (anche se quella applicata dall’impresa cessionaria sia più sfavorevole), sicché non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di una propria contrattazione integrativa.

In secondo luogo, la Corte ribadisce il principio generale secondo cui il contrasto fra contratti collettivi, come è anche il contratto aziendale, va risolto sulla base della effettiva volontà delle parti operanti in area più vicina agli interessi disciplinati, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutte pari dignità e forza vincolante. Pertanto, i contratti territoriali possono, sulla base del principio dell’autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ., prorogare l’efficacia dei contratti nazionali e derogarli, anche in peius, fatta salva la salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori. Tali diritti non possono ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa di eguale o diverso livello.

Alla luce di tutto quanto sopra, a parere della Corte di Cassazione, il lavoratore ha maturato il diritto all’equivalente pecuniario dell’orologio, quale premio di anzianità e fedeltà, per effetto della prassi già in uso presso la società cedente e dell’accordo integrativo aziendale (successivo) cui andava riconosciuto valore ricognitivo della prassi aziendale preesistente.

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E’ entrata in vigore il 29 agosto scorso la “Legge annuale per il mercato e la concorrenza” (legge n. 124), pubblicata in Gazzetta Ufficiale, il precedente 14 agosto. Molte le novità oggetto della novella legislativa, approvata dopo ben 2 anni di gestazione. Per quanto concerne la previdenza complementare, la legge sulla concorrenza ha introdotto la possibilità per i lavoratori dipendenti di scegliere per una destinazione anche solo parziale del TFR ai fondi pensione, così modificando il testo del decreto n. 252/2005. Nello specifico la legge prevede che la percentuale minima di TFR maturando destinabile alla previdenza complementare potrà essere determinata dalla contrattazione collettiva. Infatti, a differenza che in passato, i contratti e gli accordi collettivi potranno stabilire quanta parte del TFR potrà essere destinata alla previdenza complementare e quanta, invece, lasciarne in azienda. In tal modo, l’effetto positivo sarà quello di superare le resistenze dei lavoratori relative all’apparente perdita di liquidità che potrà poi essere riscossa alla fine della carriera lavorativa. Tuttavia, precisa la norma, in assenza di indicazioni da parte della contrattazione collettiva, il conferimento continuerà ad essere totale. Nella stessa legge sono state, altresì, previste delle misure minori, quali (i) l’anticipo della rendita complementare nel caso di cessazione dell’attività lavorativa e (ii) il riscatto della posizione individuale maturata e del relativo regime tributario.