Assogrocery e le organizzazioni sindacali NIdiL CGIL FeLSA CISL e UILTemp hanno sottoscritto lo scorso 19 febbraio l’accordo collettivo che prevede una serie di tutele per gli “shopper”, ossia per i collaboratori che, mediante l’ausilio di piattaforme digitali delle aziende committenti, preparano e consegnano la spesa a domicilio dei clienti.

L’accordo attua, di fatto, quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, D.Lgs. 81/2015, applicabile alle collaborazioni c.d. “etero-organizzate” nella parte in cui prevede un’esplicita esclusione dell’automatica applicazione della normativa del lavoro subordinato in presenza di accordi collettivi che prevedano specifiche tutele di natura economica per i collaboratori.

L’accordo prevede che gli “shopper” restino lavoratori autonomi nella misura in cui è riconosciuta agli stessi la possibilità di scegliere liberamente quando effettuare la prestazione lavorativa, scegliendo gli slot indicati dalla piattaforma e potendo anche revocare la disponibilità data.

Dal punto di vista economico è previsto, tra le misure più rilevanti, il riconoscimento di un compenso minimo di 12,50 euro per incarico (della durata di un’ora) e un’indennità di disponibilità pari a 1,30 euro con maggiorazioni garantite per il lavoro domenicale e festivo.

Contrattualmente inoltre viene prevista una specifica tutela per la malattia che si concretizza nella sospensione dell’account e nel pagamento di un’indennità giornaliera al ricorrere di specifici eventi oltre che una tutela per la maternità per la quale è previsto un indennizzo economico e il mantenimento del rapporto di collaborazione mediante la sospensione dell’account.

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All’interno dei contratti collettivi di diritto comune si rinvengono spesso le c.d. “clausole di ultrattività” o di ultravigenza, in virtù delle quali le disposizioni contenute all’interno del contratto collettivo che sia scaduto o sia stato disdettato, restano in vigore fino alla conclusione di un nuovo contratto collettivo destinato a sostituirlo. 

Con sentenza n. 33982/2022 del 17 novembre 2022, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, si è pronunciata sia sulla natura di tali clausole che sulla rilevanza di una loro violazione da parte del datore di lavoro. 

In particolare, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha rilevato che, alla previsione della perdurante vigenza del contratto fino alla nuova stipulazione dev’essere riconosciuto il significato della indicazione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata chiaramente individuato in relazione a un evento futuro certo (la nuova stipula), benché’ privo di una precisa collocazione cronologica. 

La violazione della clausola di ultrattività da parte del datore di lavoro, proseguono gli Ermellini, può dirsi integrare gli estremi di una condotta antisindacale che, pertanto, soggiace all’applicazione della disciplina contenuta nell’art. 28, L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori). 

Nel caso di specie, il giudice del merito, aveva escluso che la violazione della clausola di ultrattività avesse determinato una lesione delle prerogative sindacali con specifico riferimento alla fase delle trattative per il rinnovo del contratto aziendale, nella convinzione che la violazione della clausola di ultrattività integri una “violazione di natura contrattuale”, che il singolo lavoratore può far valere con autonoma domanda. 

Per la Cassazione, tuttavia, la conclusione dei giudici di merito non può essere condivisa, in quanto non tiene in considerazione la plurioffensività della condotta antisindacale, che non pregiudica l’autonoma coesistenza dell’azione collettiva (sindacale) e di quella individuale. 

In conclusione, secondo la Corte di Cassazione, la violazione della clausola di ultrattività può determinare una lesione delle prerogative sindacali integrante gli estremi di una condotta antisindacale ai fini dell’applicazione dell’articolo 28 dello statuto dei lavoratori. 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7567 del 27 marzo 2020, ha osservato che in tema di giusta causa il giudice è tenuto a verificare la condotta addebitata al lavoratore, in tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi che la compongono, al d là della tipizzazione contenuta nel contratto collettivo.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine da un diverbio litigioso sorto tra un lavoratore con mansioni di operaio e il proprio capoturno all’interno dei locali aziendali; nel corso della menzionata lite, il primo colpiva il secondo con un calcio al ginocchio.

Il lavoratore veniva così licenziato per giusta causa sulla scorta della previsione del CCNL per gli addetti all’industria chimica e chimico-farmaceutica che riconduce tale fattispecie nelle ipotesi di “grave perturbamento della vita aziendale” le quali giustificano, per l’appunto, il licenziamento in tronco.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento e, in particolare, a conclusione della fase sommaria del rito “Fornero”, il lavoratore otteneva l’annullamento dello stesso con annessa tutela reintegratoria e risarcitoria ai sensi dell’art. 18, co. IV, L. n. 300 del 1970.

La società ex datrice di lavoro, a questo punto, proponeva ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale, il quale, accertata la sussistenza del fatto, respingeva il ricorso ritenendo l’episodio, in ogni caso, non idoneo a recare un “grave perturbamento della vita aziendale”.

Anche in appello veniva confermata la decisione di primo grado: in particolare, i giudici distrettuali del capoluogo meneghino, sottolineavano come la società pur avendo contestato l’alterco litigioso e le vie di fatto verificatisi all’interno del perimetro dello stabilimento, non aveva tuttavia enunciato l’essenziale parametro del “grave perturbamento della vita aziendale”, né aveva precisato, come invece avrebbe dovuto, l’effettiva connotazione di quest’ultimo nel quadro dell’intero episodio, segnalando quali fossero state in termini di effetti le gravi alterazioni della vita aziendale che si erano verificate. Conseguentemente, i giudici del gravame ritenevano la contestazione non idonea a contenere alcun riferimento all’evento e alla sua gravità, elementi essenziali sia ad integrare la stessa contestazione sia a porre l’incolpato in condizione di articolare una difesa possibilmente volta a negare l’evento e i suoi connotati.

Avverso la sentenza di secondo grado la società proponeva ricorso in cassazione a tre motivi, a cui resisteva il lavoratore.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione investita della causa ha sottolineato preliminarmente come la nozione legale di giusta causa prescinde dalle previsioni del contratto collettivo. Pertanto, “l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha” una “valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento o comportamento del lavoratore” tale da “far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”. I Giudici di legittimità hanno dunque osservato che nella verifica circa l’esistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, il giudice di merito incontra il solo limite che “non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore”. Oltre a ciò, nella sentenza de qua, si legge che “il giudice chiamato a verificare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento” è comunque sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo. Lo stesso deve “verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista”. Pertanto, la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di licenziamento non può considerarsi vincolante.

I Giudici di legittimità, così, ritenendo che la corte territoriale avesse omesso di valutare la gravità della condotta contestata e di conseguenza la proporzionalità della sanzione espulsiva – in contrasto con quanto richiesto dall’art. 2119 cod. civ – hanno cassato la sentenza e rinviato la causa alla Corte d’appello in diversa composizione.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21537 del 20 agosto 2019, ha dichiarato illegittima la disdetta unilaterale da parte del datore di lavoro del contratto collettivo applicato prima della sua naturale scadenza anche se lo stesso è receduto dalla propria associazione di categoria (nel caso di specie Confindustria).

I fatti di causa

La Corte distrettuale aveva riformato parzialmente la decisione di primo grado, confermandola nella parte in cui aveva respinto l’opposizione della Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatturiera  – CGIL Provinciale e la riconvenzionale della società datrice di lavoro avverso detta decisione. Il Tribunale aveva considerato antisindacale la condotta della società consistita nell’aver omesso di informare ed interpellare un sindacato rappresentativo in merito alle trattative e alla successiva conclusione di un nuovo contratto collettivo con le altre organizzazioni sindacali.

La Corte d’appello aveva rilevato che la società datrice, essendo receduta da Confindustria, non era più tenuta a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore (nel caso di specie Federgomma) e, pertanto, libera di applicare ai propri dipendenti il CCNL richiamato nell’accordo aziendale.

Il sindacato firmatario del contratto con Federgomma ricorreva in cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello, a cui resisteva la Società con controricorso.

La decisione della Corte di cassazione

La Suprema Corte, innanzitutto, ha richiamato un suo precedente secondo il quale nel contratto collettivo la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali, invece al singolo datore di lavoro non è consentito recedere unilateralmente dallo stesso, neppure adducendo l’eccessiva onerosità ai sensi dell’art. 1467 cod. civ., salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore con i sindacati locali.

La Corte ha poi ripreso un altro precedente per il quale va riconosciuta al datore di lavoro la facoltà di recedere da un contratto collettivo postcorporativo stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Ciò in quanto il contratto non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti. In caso contrario verrebbe vanificata la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione.

Sempre secondo la Corte tale principio è valido purché il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e non siano stati lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio.

In questo contesto la Corte richiama due sentenze (cfr sentenza 14511/2013 e sentenza 24268/2013) a parere delle quali nel nostro ordinamento non sussiste un obbligo a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, rientrando nell’autonomia negoziale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente.

Tuttavia, a parere della Corte, nella fattispecie in esame ciò di cui si discute è l’applicazione del contratto collettivo sino alla sua naturale scadenza, in mancanza di una disdetta dello stesso da parte dei soggetti legittimati.

Sul punto la Corte ritiene che nessun principio o norma induce a ritenere consentita l’applicazione di un nuovo contratto collettivo prima della prevista scadenza di quello in corso di applicazione, che le parti si sono impegnate a rispettare.

All’esito la Cassazione ha così rinviato la sentenza alla Corte distrettuale, in diversa composizione, a cui spetterà il riesame alla stregua dei principi enunciate nella sentenza in esame, oltre alla liquidazione delle spese di lite.