La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33809 del 12 novembre 2021, ha affermato che il dipendente che cancella o trasferisce all’esterno dati aziendali, pone in essere una condotta disciplinarmente rilevante, oltre che un illecito civile e penale. Ai fini della prova della condotta illecita tenuta dal lavoratore, il datore di lavoro può legittimamente acquisire e produrre in giudizio la corrispondenza privata rinvenuta a seguito della riconsegna del personal computer aziendale, prevalendo il diritto di difesa in giudizio su quello di inviolabilità della corrispondenza.

I fatti di causa

Nel caso di specie, un dirigente, dopo aver rassegnato le proprie dimissioni, riconsegnava alla Società il personal computer assegnatoli in dotazione, del tutto formattato e privo di ogni documento, dato e informazione aziendale. Il datore di lavoro si rivolgeva, dunque, ad un perito informatico nel tentativo di recuperare i dati e le informazioni cancellate dall’ex dipendente.

A valle dell’intervento e grazie al reperimento della password di accesso alla piattaforma Skype, il perito rinveniva alcune conversazioni avute dall’ex dipendente con soggetti esterni all’organizzazione aziendale (tra cui imprese concorrenti) e che disvelavano il perpetrarsi di una serie di condotte infedeli ed illecite da parte dello stesso. La Società proponeva, quindi, domanda giudiziale volta all’ottenimento di un cospicuo risarcimento dei danni asseritamente subiti a causa della condotta del dirigente.

La Corte d’Appello di Torino, ribaltando la decisione del giudice di prime cure, riteneva infondata la domanda formulata dalla Società, escludendo l’esistenza di alcuna prova circa le presunte condotte illecite del lavoratore e conseguentemente il diritto al risarcimento del danno richiesto. Nello specifico, la Corte d’Appello considerava inutilizzabili in giudizio le conversazioni acquisite dalla Società sull’account Skype del dirigente, in quanto ottenute in violazione della segretezza della corrispondenza e in assenza del suo consenso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel cassare la decisione della Corte d’Appello, ha in primo luogo ritenuto il comportamento tenuto dal lavoratore lesivo del patrimonio aziendale e rilevante non solo sul piano civilistico, con conseguente diritto del datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti, ma anche sotto un profilo penalistico, integrando il reato previsto dall’articolo 635 bis cod. pen. (ovvero danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici). Secondo la Corte di Cassazione, la condotta posta in essere dal lavoratore rileva anche da un punto di vista disciplinare in quanto contraria agli obblighi di fedeltà e diligenza.

Quanto alla legittimità della produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali, la Suprema Corte, nel richiamare precedenti pronunce, ha affermato che questa “è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza (…), sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa.

In materia di trattamento dei dati personali, ha proseguito la Corte “il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo l’art. 24, lett. f) I. 196/2003 di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria”. Ciò, continua al Corte, “a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.

In tal senso, il diritto di difesa, secondo la Suprema Corte, non sarebbe limitato alla sede processuale, potendosi ben estendere a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata, come avvenuto nel caso di specie.

Infine, la Corte di Cassazione, nel motivare la propria decisione, ha confermato la legittimità dei controlli effettuati dal datore di lavoro anche in riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 4, L. 300/1970 (ratione temporis applicabile), rinvenendo la natura “difensiva” degli stessi. A parete della Corte i controlli sono intervenuti dopo la cessazione del rapporto di lavoro e comunque dopo la commissione del fatto lesivo consistente nella cancellazione dei dati aziendali da parte del dirigente.

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Il Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro ha presentato istanza di interpello al Ministero del Lavoro per conoscere il suo parere in merito alla configurabilità del silenzio assenso con riferimento alla richiesta di autorizzazione all’installazione di impianti audiovisivi e di strumenti ex art. 4 della legge 300/1970. Ciò in considerazione delle disposizioni di cui alla Legge 241/1990 secondo le quali il silenzio dell’amministrazione competente equivale ad accoglimento della domanda.

 

In particolare, è stato chiesto al Ministero se il silenzio dell’organo amministrativo adito, in relazione all’istanza di autorizzazione, possa essere considerato assenso tacito ad essa, in virtù del quale l’impresa possa procedere all’installazione degli impianti/strumenti richiesti.

 

La conclusione del Ministero

L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è volto a contemperare le esigenze datoriali con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore sul luogo di lavoro. Nello specifico “si vuole evitare che l’attività lavorativa risulti impropriamente e ingiustificatamente caratterizzata da un controllo continuo e anelastico, tale da eliminare ogni profilo di autonomia e riservatezza nello svolgimento della prestazione lavorativa”.

 

La disposizione in esame affida, in primis, ad un accordo tra il datore e le rappresentanze sindacali la possibilità di installazione di impianti/strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività lavorativa. In difetto di accordo, l’installazione è subordinata all’ottenimento dell’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.

 

Anche il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto più volte a regolamentare tale fattispecie, in considerazione della stretta interazione che lega l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori alla normativa in materia di privacy, spesso richiamata nei provvedimenti autorizzatori.

 

Pertanto, secondo il Ministero, la formulazione dell’art. 4, primo comma, della L. 300/1970 “non consente la possibilità di installazione ed utilizzo di impianti di controllo in assenza di un atto espresso di autorizzazione, sia esso di carattere negoziale (accordo sindacale) o ammnistrativo (il provvedimento)”.

 

Secondo il Ministero questa interpretazione è in linea con la giurisprudenza secondo la quale “la diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro“ (cfr. Cass. pen. n. 22148/2017), in continuità con un orientamento interpretativo consolidato in materia (cfr. Cass. pen. n. 51897/2016; Cass. civ. n. 1490/1986)”.

 

In considerazione di quanto esposto, ai procedimenti attivabili mediante presentazione dell’istanza ex art. 4, comma 1, della L. 300/1970 non è configurabile l’istituto del silenzio assenso. È necessaria l’emanazione di un provvedimento espresso di accoglimento o rigetto della relativa istanza.

 

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