Con il Provvedimento n. 288 del 21 maggio 2025, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha comminato ad una società italiana una sanzione del valore di 420mila euro per trattamento illecito dei dati personali di una dipendente, poi utilizzati per giustificarne il licenziamento.
La lavoratrice presentava reclamo contro la società lamentando l’uso improprio di suoi dati personali, estratti dal suo profilo del social network ‘Facebook’, dall’app di messaggistica ‘Messenger’ e da alcune chat della piattaforma ‘WhatsApp’. Tali informazioni, portate alla conoscenza della società, erano state impiegate per motivare due diverse contestazioni disciplinari a suo carico.
Nella prima contestazione, datata 16 febbraio 2024, la società riportava il contenuto di alcuni commenti scritti dalla reclamante sul proprio profilo Facebook, mediante l’inserimento di stralci virgolettati dei commenti e la descrizione del contenuto di alcune foto. Nella seconda, datata 21 marzo 2024, riportava il contenuto di una conversazione avvenuta tramite account Messenger tra la reclamante e un terzo (che la inoltrava alla Società tramite WhatsApp), non dipendente della Società, trascrivendo stralci virgolettati della conversazione. Inoltre, nella medesima contestazione, venivano riportati stralci virgolettati di una comunicazione inviata dalla reclamante, in data 22 febbraio 2024, ad alcuni colleghi, tramite il proprio account WhatsApp.
Richiamando l’articolo 8 della L 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che vieta al datore di lavoro “di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, la società sosteneva di non aver avuto un ruolo attivo nella raccolta dei dati ma che, essendo tali informazioni pervenutele tramite segnalazioni, potessero essere utilizzate a fini disciplinari perché il caso di specie non configurerebbe una indagine vietata dallo Statuto dei Lavoratori.
L’Autorità Garante coglie l’occasione per ricordare che:
L’Autorità, chiarendo di non essere investita del compito di valutare i fatti ritenuti disciplinarmente rilevanti ma che spetta invece al datore di lavoro – titolare del trattamento – effettuare una valutazione circa la liceità ma anche l’adeguatezza, la pertinenza e la proporzionalità dei trattamenti di dati che si intende effettuare, ha rilevato le numerose illiceità poste in essere dalla società che “una volta venuta a conoscenza che i dati trasmessi riguardavano comunicazioni private e commenti sul profilo Facebook chiuso, […] avrebbe dovuto astenersi dall’utilizzarli”.
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Con la sentenza n. 25167 del 9 luglio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale – ha ribadito che, ai fini della configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs. 74/2000), è necessario accertare non solo la consapevolezza della falsità dell’operazione (dolo generico), ma anche la finalità specifica di evadere le imposte (dolo specifico).
Nel caso in esame, l’amministratore di una società era stato condannato per aver utilizzato, in dichiarazione, fatture relative a un contratto di appalto ritenuto solo formalmente tale, ma in realtà funzionale a mascherare una somministrazione illecita di manodopera.
Tuttavia, la Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata era del tutto carente di motivazione in merito all’elemento psicologico, limitandosi ad affermare l’elusione degli obblighi contributivi e contrattuali, senza alcuna indagine sul fine evasivo.
Richiamando un orientamento consolidato (Cass. n. 37131/2024), la Corte ha sottolineato che l’accertamento del dolo specifico è imprescindibile, costituendo l’elemento soggettivo qualificante del reato. La mera utilizzazione di fatture relative a un contratto apparente – che dissimula una diversa operazione economica – non è sufficiente, in assenza della prova che il contribuente abbia perseguito consapevolmente un indebito risparmio d’imposta. In sostanza, affinché sussista il reato di dichiarazione fraudolenta, occorre provare che il soggetto mirava ad un risparmio (illegittimo) delle imposte dirette e dell’Iva attraverso la diversa tipologia contrattuale.
In conclusione, l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia conferma la necessità, in materia penal-tributaria, di un rigoroso accertamento dell’intenzionalità fraudolenta, che non può essere desunta in via automatica dalla riqualificazione civilistica del rapporto contrattuale.
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Con sentenza n. 11985 del 7 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che, nell’esercizio delle proprie mansioni di cassiere, si era reso responsabile di reiterate irregolarità contabili, consistenti principalmente nell’omissione della registrazione di operazioni di vendita e nel mancato rilascio degli scontrini fiscali. Secondo la Suprema Corte, tali condotte, ancorché riferibili a importi di modesto valore e pur in assenza di un accertamento puntuale di appropriazioni indebite, sono comunque idonee a compromettere in modo irreversibile il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
La vicenda trae origine da un controllo interno attivato dall’azienda tramite una società di investigazioni, che aveva riscontrato ripetute anomalie nella gestione delle operazioni di cassa da parte del dipendente, tali da determinare l’avvio del procedimento disciplinare e il successivo licenziamento per giusta causa.
Il provvedimento espulsivo veniva impugnato giudizialmente dal dipendente.
Il Tribunale, con ordinanza resa all’esito della fase sommaria ex art. 1 commi 51 n. 92/2012, e con successiva sentenza confermativa resa nella fase dell’opposizione, accoglieva il ricorso del dipendente, annullando il provvedimento datoriale e condannando quest’ultimo al pagamento della relativa indennità risarcitoria.
Secondo il giudice di primo grado, il datore di lavoro non aveva fornito prova in merito ai fatti addebitati al dipendente. In particolare, ad avviso del giudice, i documenti contabili prodotti dalla società non risultavano attendibili, gli sbilanci di cassa riscontrati erano stati ritenuti fisiologici e privi di rilevanza disciplinare e la mera assenza di un’esatta corrispondenza tra gli importi non registrati e le eccedenze di cassa non consentiva di desumere alcuna appropriazione indebita. Inoltre, il Tribunale aveva ritenuto che l’utilizzo della medesima postazione di cassa da parte di più operatori, mediante un unico codice identificativo, rendesse incerta l’attribuzione esclusiva delle irregolarità contestate al lavoratore licenziato.
La Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il reclamo proposto dalla società e rigettato integralmente l’impugnazione del lavoratore.
Contrariamente alle valutazioni rese dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha ritenuto raggiunta la prova degli addebiti attraverso il plurimo e convergente corredo indiziario derivante dalle dichiarazioni rese dal personale investigativo e dal riscontro offerto dagli ammanchi di cassa, nonché dalla disamina critica delle prove testimoniali e documentali.
Di conseguenza, i giudici d’appello hanno ritenuto legittimo il licenziamento, osservando come le condotte accertate rappresentassero, in relazione alla funzione ricoperta dal dipendente e al di là della esiguità dei valori sottratti, una violazione grave e reiterata degli obblighi di correttezza e fedeltà, tale da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi, tra cui l’omesso esame da parte della Corte d’Appello di fatti decisivi del giudizio e, in particolare, dell’asserita appropriazione del corrispettivo delle vendite.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando integralmente la decisione impugnata. Gli Ermellini hanno infatti evidenziato che, ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa, non è necessario fornire la prova di un’appropriazione indebita in senso stretto, essendo sufficiente l’esistenza di condotte che, per la loro gravità, oggettiva e soggettiva, siano idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Diritto de Il Sole 24 Ore.
Con la nota n. 9326 del 9 dicembre 2024, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fatto il punto sul nuovo regime sanzionatorio previsto dall’articolo 27 del D.lgs. 81/2008, come modificato dal D.l. 19/2024 (convertito dalla legge 56/2024), applicabile a tutte le violazioni sulla patente a crediti a far data dal 1° ottobre 2024.
Il comma 11 dell’articolo 27 introduce un regime sanzionatorio per le imprese che operano nei cantieri senza una patente a crediti valida o con un punteggio inferiore ai 15 crediti (vale la pena ricordare che il punteggio iniziale è di 30 punti).
Il legislatore ha previsto una sanzione amministrativa pari al 10% del valore dei lavori (al netto dell’IVA) e, comunque, non inferiore a euro 6.000, non soggetta alla procedura di diffida di cui all’art. 301-bis del D.lgs. n. 81/2008. Il valore dei lavori da considerare è quello indicato nel contratto di appalto o subappalto. Se il valore dei lavori non è noto o inferiore alla soglia minima, si applicherà comunque l’importo di euro 6.000. In ogni caso, è possibile ottenere una riduzione a un terzo dell’importo della sanzione qualora questa venga pagata entro 60 giorni.
Il legislatore ha previsto dei profili di responsabilità anche in capo al committente. Il committente, infatti, è responsabile della verifica del possesso della patente a crediti o del documento equivalente ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente, dell’attestazione di qualificazione Soa. Quest’ultima è un’attestazione che certifica i requisiti economici, organizzativi e tecnici dell’impresa, garantendo che la società ricevente soddisfi specifici criteri generali e speciali richiesti per l’esecuzione di lavori pubblici.
Rispetto all’obbligo di verifica previsto in capo al committente, nella nota in commento vengono distinte diverse ipotesi.
Competente ad emettere l’ordinanza-ingiunzione è l’Ispettorato del Lavoro territorialmente nel cui ambito territoriale opera il personale che ha accertato l’illecito, mentre, in assenza di esplicita previsione normativa, sono competenti all’accertamento dell’illecito e all’irrogazione della relativa sanzione tutti gli organi di vigilanza indicati nell’articolo 13 del Dlgs 81/2008.
Il pagamento delle sanzioni deve avvenire tramite PagoPA per i verbali dell’Ispettorato del Lavoro, mentre per gli altri organi di vigilanza il versamento deve essere effettuato su un conto dedicato, con indicazione della causale.
Un’altra novità introdotta dal comma 11 è l’esclusione delle imprese sanzionate dalla partecipazione a lavori pubblici di cui al D.lgs. n. 36/2023, per un periodo di sei mesi. In questo caso l’organo di vigilanza sarà tenuto a comunicare la sanzione sia all’ANAC che al Ministero delle Infrastrutture, che provvederà ad adottare il provvedimento interdittivo. L’impresa o il lavoratore autonomo dovranno essere allontanati dal cantiere oggetto di accertamento da parte del personale ispettivo che dovrà, altresì, informare i medesimi soggetti dell’impossibilità di operare all’interno di qualunque cantiere temporaneo o mobile.
Il nuovo regime sanzionatorio rafforza le responsabilità per i committenti e le imprese che operano nei cantieri, con sanzioni significative per chi non rispetta gli obblighi previsti dalla neonata normativa. Le sanzioni variano a seconda della situazione specifica ma il rispetto delle normative è essenziale per garantire la conformità dell’azienda all’attuale quadro normativo sia per garantire il rispetto della sua ratio più profonda, ossia tutelare e assicurare la salute e la sicurezza dei lavoratori.
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Con sentenza n. 2618 del 4 febbraio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore che, fruendo del congedo parentale, aveva intrapreso un’attività lavorativa parallela, così configurando un abuso di tale diritto.
Nel caso in esame, il lavoratore, durante il periodo di congedo parentale, aveva intrapreso un’attività di compravendita di autovetture, senza darne preventiva comunicazione al datore di lavoro. L’attività svolta, era emersa all’esito di una verifica effettuata da un’agenzia investigativa incaricata dalla Società datrice. A seguito delle indagini da parte dell’agenzia investigativa è, infatti, emerso che lo svolgimento dell’attività lavorativa parallela non fosse né saltuaria, né episodica, ponendosi così in contrasto con le finalità del congedo parentale retribuito, le quali, così come affermato dalla Suprema Corte «postulano che durante la sua fruizione, i tempi e le energie del padre lavoratore siano dedicati, anche attraverso la propria presenza, al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore».
Tale condotta, configurandosi come un abuso del diritto al congedo parentale, ha, dunque, giustificato la sanzione espulsiva nei confronti del lavoratore. La Corte di Cassazione ha, infatti, statuito quanto segue: «ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia».
Pertanto, gli Ermellini hanno ribadito che il congedo parentale, pur essendo un diritto del lavoratore-genitore, non possa essere utilizzato per perseguire finalità estranee a quelle per le quali è stato istituito.
In definitiva, l’abuso del congedo legittima la sanzione espulsiva, venendo in rilievo un comportamento che, oltre che costituire una grave violazione del dovere di fedeltà gravante sul lavoratore, è connotato da evidente un disvalore sociale alla luce dei costi sociali ed economici connessi.
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