In assenza della prova dell’estromissione per volontà datoriale, la domanda di inefficacia del licenziamento orale deve essere rigettata
Il Tribunale di Catania, con la recente sentenza n. 2385 del 5 giugno 2025, ha ribadito che la domanda di impugnativa del licenziamento, con la quale si censura l’inefficacia dell’atto espulsivo per essere stato intimato oralmente, pone a carico del lavoratore, in ossequio ai principi generali di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare il fatto costitutivo della pretesa, vale a dire che la risoluzione del rapporto di lavoro sia ascrivibile alla volontà datoriale diretta all’estromissione del lavoratore.
La pronuncia si inserisce in un solco giurisprudenziale ormai consolidato, ribadendo con chiarezza i principi che governano la materia e offrendo un’applicazione rigorosa delle regole probatorie.
Come noto, il licenziamento individuale è un atto unilaterale recettizio a forma vincolata, che richiede, a pena di inefficacia, la comunicazione per iscritto.
Tale principio fondamentale è sancito in modo inequivocabile dall’articolo 2 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale stabilisce che “il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro“.
La forma scritta è richiesta ad substantiam, ovverosia come requisito essenziale per la validità stessa dell’atto di recesso. La sua mancanza determina la conseguenza più grave prevista dalla legge: l’inefficacia del licenziamento, come pure esplicitato dal terzo comma del medesimo articolo.
Ciò significa che un licenziamento comunicato solo verbalmente è considerato tamquam non esset, ossia come mai avvenuto, e pertanto è del tutto inidoneo a produrre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.
La ratio sottesa a tale norma imperativa risiede nella necessità di garantire la certezza dei rapporti giuridici, di consentire al lavoratore una piena e consapevole difesa attraverso l’impugnazione e di assicurare che la decisione espulsiva da parte del datore di lavoro sia cristallizzata.
Se il dato normativo sostanziale è chiaro, la sua applicazione pratica solleva una fondamentale questione processuale nel momento in cui il lavoratore si rivolge al giudice lamentando di essere stato allontanato dal posto di lavoro a seguito di una mera comunicazione verbale.
In questo scenario, la risoluzione della controversia si sposta sul piano probatorio, governato dalla regola generale dell’articolo 2697 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
La giurisprudenza di legittimità, superando precedenti incertezze, ha consolidato un orientamento univoco e rigoroso: l’onere di dimostrare l’avvenuto licenziamento orale grava interamente sul lavoratore che lo impugna. Il fatto costitutivo della sua pretesa non è la mera interruzione della prestazione, bensì l’atto unilaterale con cui il datore di lavoro ha manifestato la volontà di estinguere il rapporto.
Ed infatti, la mera cessazione dell’attività lavorativa è stata definita dalla Suprema Corte come un “fatto neutro a significato polivalente”, potendo essa derivare da un licenziamento, da dimissioni o da una risoluzione consensuale.
Il punto di riferimento di tale indirizzo giurisprudenziale è la sentenza della Corte di Cassazione n. 3822 del 8 febbraio 2019, che ha enunciato un principio di diritto divenuto la guida per tutta la giurisprudenza successiva: “Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova“.
Tale orientamento è stato costantemente ribadito da pronunce successive, tra cui le sentenze della Suprema Corte n. 13195/2019, n. 1336/2024 e Cass. n. 15025/2025, le quali hanno confermato che il lavoratore deve provare l’atto di “estromissione” dal contesto aziendale. Se all’esito dell’istruttoria permane un’incertezza insuperabile, la domanda del lavoratore deve essere rigettata, anche qualora il datore di lavoro non abbia provato fatti contrari (come, ad esempio, dimissioni o risoluzione consensuale).
In passato, alcune sentenze sembravano alleggerire l’onere probatorio posto a carico del lavoratore. Ad esempio, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (sentenza n. 1258/2017), aveva affermato che a fronte dell’allegazione del licenziamento orale, la controdeduzione datoriale di dimissioni del lavoratore assumeva “la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, cod. civ.“. Tuttavia, l’orientamento inaugurato dalla Cassazione nel 2019 ha chiarito definitivamente la questione, precisando che la regola dell’onere della prova a carico del lavoratore è prioritaria e che l’incertezza probatoria si risolve a suo discapito.
Sebbene rigoroso, l’onere probatorio a carico del lavoratore non può definirsi “diabolico”. La giurisprudenza di merito offre, infatti, numerosi esempi su come tale prova possa essere efficacemente fornita dal lavoratore.
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Riflessioni alla luce dell’attualità in tema di relazioni sul luogo di lavoro
Nel tempo in cui le aziende promuovono il benessere lavorativo, la diversity e il work-life balance, un tema resta sullo sfondo, spesso non detto, ma molto sentito: le relazioni sentimentali sul posto di lavoro.
Una questione tutt’altro che semplice da affrontare in quanto tocca i nervi scoperti del diritto del lavoro: la libertà personale di ciascun individuo che si scontra con il rischio di un conflitto di interessi, passando poi per la gestione del clima aziendale e della responsabilità del datore di lavoro. Un intreccio, questo, molto complesso da districare, soprattutto da un punto di vista prettamente giuridico.
I casi di attualità, poi, hanno portato il tema delle relazioni sul luogo di lavoro al centro dell’opinione pubblica, si pensi al caso “ColdplayGate” dove l’inquadratura della kiss cam ha reso virale la relazione (ed il presunto tradimento) del CEO (ormai ex) di Astronomer e della responsabile delle risorse umane della società, o alla recentissima vicenda che ha coinvolto, anche in questo caso, l’ormai ex CEO di Nestlè, il quale è stato licenziato per volere del management della Società per aver intrattenuto una “relazione non dichiarata” con una dipendente, in violazione del codice di condotta aziendale e delle linee guida interne al gruppo.
È chiaro che le relazioni sui luoghi di lavoro non hanno, di per sé, nessuna componente di novità. È, a ben vedere, forse il cliché più vecchio del mondo; ma quando l’ufficio diventa anche un teatro di sentimenti, la domanda diventa: fino a che punto la legge può tutelare la libertà personale senza mettere a rischio la produttività aziendale?
È necessario, in primo luogo, partire da un punto fermo: l’Italia non presenta una normativa specifica che disciplina i rapporti sentimentali tra i colleghi, ma questo non significa che tutto sia lecito.
Il principio cardine da cui è necessario prendere le mosse è certamente contenuto nell’articolo 2 della Costituzione, il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui rientrano naturalmente anche la libertà affettiva e relazionale, che non può essere compressa dal potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, se non per finalità legittime, legate all’esecuzione della prestazione lavorativa e al corretto funzionamento dell’azienda.
Infatti, una relazione sentimentale in ambito lavorativo può assumere rilevanza giuridica e giustificare l’intervento del datore di lavoro quando le sue manifestazioni o conseguenze incidono negativamente sul rapporto di lavoro o sull’ambiente aziendale.
Il primo limite che incontra la libertà affettiva è senz’altro da ritrovare nelle disposizioni di cui agli articoli 2104 e 2105 del Codice Civile, che impongono al lavoratore doveri di diligenza e fedeltà.
Questo significa che ciascun lavoratore non deve porre in essere comportamenti che danneggino l’azienda o ne compromettano l’equilibrio interno, dovendo sempre operare nell’interesse dell’impresa.
In particolare, l’articolo 2105 del Codice Civile vieta al dipendente di trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro o di divulgare notizie riservate: una norma che, in certi contesti, assume un ruolo centrale laddove la relazione sentimentale comporti una fuga di informazioni, favoritismi o, addirittura, abusi di potere.
Sono, infatti, molteplici i profili “disciplinarmente rilevanti” che potrebbero emergere da una relazione sentimentale all’interno del contesto aziendale.
Prima fra tutti, la violazione degli obblighi contrattuali assunti dal lavoratore.
Potrà sembrare banale – ma non lo è – ma una relazione sentimentale sul luogo di lavoro potrebbe comportare un calo di rendimento da parte dei lavoratori interessati, i quali potrebbero incorrere in maggiori distrazioni, pause più prolungate o utilizzare gli strumenti aziendali per finalità di comunicazione personale e non professionale, compromettendo la qualità e la quantità della prestazione lavorativa (pensiamo all’utilizzo improprio della messaggistica Teams, per fare un esempio).
O ancora, gli interessati potrebbero tenere dei comportamenti inappropriati o percepiti come tali dai colleghi, che potrebbero turbare la serenità dell’ambiente lavorativo o creare malumori.
Vi è, poi, un ulteriore aspetto che merita particolare attenzione, ossia quello del conflitto di interessi. Il lavoratore potrebbe, infatti, cercare di favorire il proprio partner o, addirittura, l’azienda concorrente presso cui questo lavora, danneggiando il proprio datore di lavoro.
Il profilo del conflitto di interessi, peraltro, si innesta a sua volta in un altro profilo di rilievo, quello dell’abuso di posizione che può avere un impatto sull’organizzazione aziendale.
Tale aspetto diventa particolarmente delicato laddove la relazione sia intrattenuta tra un superiore gerarchico ed un subordinato (chiaramente ci riferiamo esclusivamente alla ipotesi di consensualità). Ebbene, tale legame potrebbe generare problematiche non solo organizzative ma finanche legali.
Potrebbero, infatti, sorgere problemi di imparzialità nelle decisioni, nelle valutazioni delle performance, o nell’assegnazione di premi e incarichi del partner-subordinato. Peraltro, eventuali favoritismi (effettivi o presunti), laddove colti dai colleghi, potrebbero essere percepiti come un’ingiustizia, minando non solo il morale e la coesione del team ma anche i livelli di produttività.
Sullo stesso piano si pone l’ipotesi di discriminazione indiretta, nel senso che i colleghi consapevoli dell’esistenza della relazione sentimentale potrebbero lamentare di essere destinatari di un trattamento deteriore rispetto a quello riservato al partner o, comunque, una posizione di svantaggio per ciò che attiene alle possibilità di carriera.
Dunque, alla luce di quanto sopra, è evidente che una relazione sentimentale sul luogo di lavoro – in maniera particolare laddove siano coinvolti soggetti con ruoli gerarchici differenti – può potenzialmente esporre il datore di lavoro a innumerevoli rischi.
Peraltro, non si può non citare anche la posizione di garanzia che la legge attribuisce al datore di lavoro in forza delle disposizioni di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, secondo cui il datore di lavoro ha l’obbligo di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Tale previsione si traduce, in tema di relazioni sul posto di lavoro, in un implicito dovere per il datore di lavoro di prevenire e reprimere ogni forma di molestia a cui potrebbero essere esposti i prestatori di lavoro.
Sul punto, non si può che rilevare come l’ordinamento italiano offra una tutela forte contro le molestie, tanto da fornire una specifica definizione all’interno all’articolo 26, D. Lgs. 198/2006, ossia il Codice delle Pari Opportunità, specificando, in primo luogo, come le molestie sono da considerarsi a tutti gli effetti delle discriminazioni e definendole poi sia come “comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” sia come i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i predetti comportamenti.
Lo stesso Codice delle Pari Opportunità, peraltro, ha visto la recente introduzione, proprio all’art. 26, di una specificazione circa la posizione di garanzia del datore di lavoro, laddove è stato previsto proprio che “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro”. E ancora “Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
Peraltro, anche molti contratti collettivi nazioni di lavoro hanno recepito (e rafforzato) questi principi, spingendo sempre di più le aziende a creare un ambiente di lavoro rispettoso della dignità di tutti e libero da molestie.
A titolo esemplificativo, si pensi al CCNL terziario-Confcommercio che dedica l’articolo 38 proprio alla tutela contro le molesti sessuali, recependo i principi a cui si ispira il “Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali” allegato alla raccomandazione della Commissione europea del 27 novembre 1991, come modificato dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro, nonché riprendendo le citate disposizioni contenute nel Codice delle Pari Opportunità e sottolineando il dovere dell’azienda di mettere in atto le misure idonee a prevenire il verificarsi di comportamenti configurabili come discriminazioni o molestie e diffondere la cultura del rispetto della persona.
Come è ben immaginabile, la giurisprudenza è rigorosa nel confermare la legittimità di quei licenziamenti per giusta causa intimati dal datore di lavoro a fronte della sussistenza di molestie sessuali poste in essere da un proprio dipendente, anche in assenza di uno specifico codice disciplinare sul punto.
È evidente, ancora con maggiore chiarezza, come il datore di lavoro sia chiamato a tutelare i propri dipendenti e che nel fare ciò possa utilizzare tutti gli strumenti concessi dalla normativa, come appunto un provvedimento espulsivo di quel lavoratore che ha tenuto una condotta particolarmente riprovevole come quella della molestia.
C’è da dire che un provvedimento disciplinare produce un duplice effetto: tutelare la persona offesa e potenzialmente una più vasta platea di lavoratori da possibili ulteriori condotte molese che dovessero essere attuate dal medesimo (recidivo) dipendente ma anche esimersi da responsabilità ex articolo 2087 Codice Civile.
Ora, se la situazione patologica delle molestie presenta specifici obblighi e previsioni di legge, come appena visto, più complesso è il tema delle possibili forme di tutela che possono essere adottate dall’azienda – anche in via preventiva – ove scongiurare possibili risvolti negativi derivanti da una relazione sentimentale sul luogo di lavoro quando questa è consensuale.
Negli ultimi anni, infatti, molte aziende – soprattutto di grandi dimensioni – hanno adottato codici etici, codici disciplinari e regolamenti aziendali che espressamente includono previsioni che vanno a disciplinare obblighi comunicativi e informativi da parte dei lavoratori al datore di lavoro qualora venga intrattenuta una relazione sentimentale tra colleghi nonché obblighi di condotta gravanti sui lavoratori medesimi.
Tutto questo si traduce nell’esigenza datoriale di evitare il verificarsi di violazioni di obblighi contrattuali, conflitti di interesse o abuso di potere, come descritti in precedenza, e, laddove dovessero verificarsi, poter adottare dei provvedimenti per reprimere legittimamente tali condotte.
Non sono insolite, infatti, previsioni contenute all’interno dei regolamenti aziendali che impongano al lavoratore un obbligo informativo circa la sussistenza di una relazione con un collega, specialmente laddove vi sia un rapporto di subalternità, o con un lavoratore di un’azienda concorrente, dalla cui violazione possono essere previste conseguenze disciplinari, finanche il licenziamento per i casi più gravi.
Se la ratio della previsione appare chiara, il mancato rispetto di tali obblighi può diventare terreno di controversia.
In alcune sentenze, la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità del licenziamento disciplinare per violazione del codice etico aziendale, soprattutto in casi di reticenza, menzogna o quando la relazione ha generato situazioni di disagio in azienda.
Per citare alcuni esempi, il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 2589/2023, si è trovato a giudicare la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente per avere intrattenuto una relazione con una collega senza segnalare tale circostanza al datore di lavoro, in violazione di quanto previsto dal regolamento aziendale e il codice etico vigenti.
Nel caso di specie, peraltro, sussistevano ulteriori gravi condotte tenute dal lavoratore, sempre legate alla relazione sentimentale avuta con la collega.
Un’altra pronuncia particolarmente significativa in materia è la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 774/2022. In questo caso, la lavoratrice veniva licenziata per giusta causa per aver posto in essere più atti a favore di un soggetto concorrente della datrice di lavoro, in violazione dell’obbligo di fedeltà, poiché intratteneva una relazione sentimentale con un soggetto legato all’azienda concorrente.
Nel caso di specie, la relazione sentimentale non è stata la causa diretta del licenziamento, ma ha costituito il contesto all’interno del quale si sono realizzati gli atti di infedeltà. Il licenziamento non è stato intimato per l’esistenza della relazione in sé o per la sua mancata comunicazione, ma per le concrete azioni poste in essere dalla lavoratrice a vantaggio del concorrente, azioni che hanno integrato una grave violazione dei suoi doveri contrattuali.
In ogni caso, il punto è chiaro: il diritto del lavoro e la giurisprudenza non sanzionano i sentimenti, ma si prefiggono l’obiettivo di tutelare l’organizzazione aziendale, il principio di non discriminazione (tra lavoratori trattati diversamente per ragioni relazionali) e la trasparenza gestionale.
Infatti, un licenziamento basato sulla mera esistenza di una relazione sentimentale tra colleghi, o sulla sua mancata comunicazione, sarebbe con ogni probabilità considerato illegittimo per violazione del diritto alla privacy del lavoratore.
Tuttavia, il licenziamento può essere ritenuto legittimo se il datore di lavoro è in grado di dimostrare che tale relazione ha concretamente e oggettivamente generato una situazione di conflitto di interessi o ha portato a una violazione degli obblighi di fedeltà, correttezza e diligenza, ledendo in modo irreparabile il vincolo fiduciario. L’onere della prova di tali circostanze, in ogni caso, grava interamente sul datore di lavoro.
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Con il Provvedimento n. 288 del 21 maggio 2025, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha comminato ad una società italiana una sanzione del valore di 420mila euro per trattamento illecito dei dati personali di una dipendente, poi utilizzati per giustificarne il licenziamento.
La lavoratrice presentava reclamo contro la società lamentando l’uso improprio di suoi dati personali, estratti dal suo profilo del social network ‘Facebook’, dall’app di messaggistica ‘Messenger’ e da alcune chat della piattaforma ‘WhatsApp’. Tali informazioni, portate alla conoscenza della società, erano state impiegate per motivare due diverse contestazioni disciplinari a suo carico.
Nella prima contestazione, datata 16 febbraio 2024, la società riportava il contenuto di alcuni commenti scritti dalla reclamante sul proprio profilo Facebook, mediante l’inserimento di stralci virgolettati dei commenti e la descrizione del contenuto di alcune foto. Nella seconda, datata 21 marzo 2024, riportava il contenuto di una conversazione avvenuta tramite account Messenger tra la reclamante e un terzo (che la inoltrava alla Società tramite WhatsApp), non dipendente della Società, trascrivendo stralci virgolettati della conversazione. Inoltre, nella medesima contestazione, venivano riportati stralci virgolettati di una comunicazione inviata dalla reclamante, in data 22 febbraio 2024, ad alcuni colleghi, tramite il proprio account WhatsApp.
Richiamando l’articolo 8 della L 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che vieta al datore di lavoro “di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, la società sosteneva di non aver avuto un ruolo attivo nella raccolta dei dati ma che, essendo tali informazioni pervenutele tramite segnalazioni, potessero essere utilizzate a fini disciplinari perché il caso di specie non configurerebbe una indagine vietata dallo Statuto dei Lavoratori.
L’Autorità Garante coglie l’occasione per ricordare che:
L’Autorità, chiarendo di non essere investita del compito di valutare i fatti ritenuti disciplinarmente rilevanti ma che spetta invece al datore di lavoro – titolare del trattamento – effettuare una valutazione circa la liceità ma anche l’adeguatezza, la pertinenza e la proporzionalità dei trattamenti di dati che si intende effettuare, ha rilevato le numerose illiceità poste in essere dalla società che “una volta venuta a conoscenza che i dati trasmessi riguardavano comunicazioni private e commenti sul profilo Facebook chiuso, […] avrebbe dovuto astenersi dall’utilizzarli”.
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Con la sentenza n. 25167 del 9 luglio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale – ha ribadito che, ai fini della configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs. 74/2000), è necessario accertare non solo la consapevolezza della falsità dell’operazione (dolo generico), ma anche la finalità specifica di evadere le imposte (dolo specifico).
Nel caso in esame, l’amministratore di una società era stato condannato per aver utilizzato, in dichiarazione, fatture relative a un contratto di appalto ritenuto solo formalmente tale, ma in realtà funzionale a mascherare una somministrazione illecita di manodopera.
Tuttavia, la Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata era del tutto carente di motivazione in merito all’elemento psicologico, limitandosi ad affermare l’elusione degli obblighi contributivi e contrattuali, senza alcuna indagine sul fine evasivo.
Richiamando un orientamento consolidato (Cass. n. 37131/2024), la Corte ha sottolineato che l’accertamento del dolo specifico è imprescindibile, costituendo l’elemento soggettivo qualificante del reato. La mera utilizzazione di fatture relative a un contratto apparente – che dissimula una diversa operazione economica – non è sufficiente, in assenza della prova che il contribuente abbia perseguito consapevolmente un indebito risparmio d’imposta. In sostanza, affinché sussista il reato di dichiarazione fraudolenta, occorre provare che il soggetto mirava ad un risparmio (illegittimo) delle imposte dirette e dell’Iva attraverso la diversa tipologia contrattuale.
In conclusione, l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia conferma la necessità, in materia penal-tributaria, di un rigoroso accertamento dell’intenzionalità fraudolenta, che non può essere desunta in via automatica dalla riqualificazione civilistica del rapporto contrattuale.
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Con l’ordinanza n. 15987 del 2025, la Corte di Cassazione italiana ha stabilito che la comunicazione del licenziamento si presume conosciuta dal destinatario nel momento in cui viene recapitata al suo indirizzo di residenza, anche se il lavoratore non ne viene effettivamente informato.
Il caso di specie riguarda un licenziamento irrogato per inidoneità assoluta e permanente al lavoro, comunicato ad un lavoratore mediante lettera raccomandata inviata all’indirizzo di residenza dello stesso. In particolare, la lettera di licenziamento, regolarmente recapitata, veniva ritirata dalla madre del lavoratore, convivente con il medesimo, la quale decideva di non consegnarla al figlio per proteggerlo da eventuali ripercussioni psicologiche che la notizia del licenziamento avrebbe potuto provocargli. Di conseguenza, il dipendente procedeva all’impugnazione del licenziamento oltre il termine di decadenza previsto dalla legge, pari a 60 giorni dal ricevimento della relativa comunicazione, invocando, a giustificazione della tardività dell’impugnazione, la mancata conoscenza del licenziamento.
Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello di Bologna (giudizio di secondo grado) dichiaravano inammissibile il ricorso, in considerazione dell’intervenuta decadenza dell’impugnazione, ritenendo a tutti gli effetti valida la comunicazione ricevuta all’indirizzo del lavoratore, sussistendo una presunzione legale di conoscenza data dalla sostanziale equivalenza giuridica tra conoscenza e conoscibilità in relazione alla ricezione di un atto al domicilio del destinatario.
La Corte di Cassazione ha quindi confermato questa interpretazione, ribadendo come, secondo la legge italiana, esiste una presunzione legale di conoscenza degli atti: un atto si considera conosciuto quando arriva all’indirizzo del destinatario. Tale presunzione può essere superata solo in presenza di ostacoli oggettivi e indipendenti dalla volontà del lavoratore, come calamità naturali, gravi disservizi postali o assenze prolungate dovute a cause di forza maggiore, ma non da fattori soggettivi del ricevente.
In conclusione, la sentenza ribadisce che, secondo il diritto italiano, i termini per contestare un licenziamento sono perentori e decorrono dal momento in cui la comunicazione perviene all’indirizzo del lavoratore, anche nei casi in cui emergano elementi soggettivi che impediscano al lavoratore di essere messo a conoscenza del provvedimento disciplinare a proprio carico.