L’intervista di Alberto De Luca per l’Osservatorio economico e sociale Riparte l’Italia.

Avv. De Luca, una delle misure che è stata adottata quasi subito all’inizio della Pandemia è stato il blocco dei licenziamenti. Con riferimento al profilo di legittimità della norma, ritiene sia possibile un divieto così esteso e pervasivo?

Tra gli addetti ai lavori, dubbi di legittimità si erano diffusi dal principio per via dell’aperto contrasto del divieto con il diritto costituzionale della libertà di iniziativa economica; dubbi senz’altro alimentati dalle continue proroghe del divieto che, introdotto inizialmente per 3 mesi, vige ormai da più di un anno. La valutazione di legittimità dipende dai pesi dei vari interessi e valori in gioco, che sono tutti di rango costituzionale: da un lato il diritto alla salute (individuale e collettiva) e al lavoro, dall’altro quello della libertà d’impresa. Segnali critici di tenuta delle restrizioni sono cominciati ad affiorare in giurisdizioni simili alla nostra.

In Spagna, per esempio, a fronte di un quadro normativo emergenziale analogo al nostro, il Tribunale di Barcellona ha disapplicato il divieto di licenziamento e giudicato legittimo un licenziamento per ragioni economiche, ritenendo il divieto contrastante sia con il quadro costituzionale che con il diritto comunitario, che infatti tutela la libertà di impresa come uno dei diritti fondamentali dell’Unione.

Tornando a noi, ulteriori proroghe del divieto dei licenziamenti previsto in Italia, che parrebbe cosa certa, dovranno in prospettiva ridurre il proprio perimetro di azione, facendo finalmente i conti con i vari interessi contrapposti, allentando le maglie a favore del ritorno (almeno in parte) a forme di flessibilità nella gestione degli organici da parte delle imprese.

Il blocco dei licenziamenti è al centro di un braccio di ferro tra le imprese, che ne invocano il superamento, e le parti sociali, che ne chiedono l’estensione. Può chiarirci cosa succederà se il blocco dovesse decadere o se venisse confermato?

È chiaro che ulteriori proroghe del divieto rischierebbero soltanto di rimandare un problema che prima o poi dovrà inevitabilmente essere affrontato, considerato che la perdurante emergenza pandemica ha comportato a tutti gli effetti la più profonda crisi economica del dopo guerra, destinata a ripercuotersi nei prossimi anni in modo diffuso.

Sicuramente, in caso di mancata proroga del divieto, le imprese che finora sono state obbligate a preservare i livelli occupazionali procederanno con interventi rimandati nel tempo, in molti casi ancora legati a motivi di esubero estranei all’emergenza sanitaria e magari persino precedenti ad essa. Questo, gioco forza, porterà a un rilancio del contenzioso in materia di licenziamenti che sin qui è rimasto sopito da ormai un anno. Viceversa, un’estensione del divieto di licenziamento porterebbe necessariamente con sé il rinnovo degli ammortizzatori sociali emergenziali ad oggi previsti, con connesso ulteriore aggravio dei costi pubblici connessi.

Il mondo del lavoro sarà fondamentale nella ripartenza del Paese, anche per scongiurare il rischio di una crisi occupazionale senza precedenti. Con il nuovo governo, quali opportunità si aprono per favorire il mondo del lavoro e quali sfide invece bisogna affrontare?

Il contesto profondamente critico non consente di parlare di vere e proprie opportunità. Senz’altro l’esecutivo di nuova nomina avrà la possibilità di ragionare su un periodo di osservazione ormai cospicuo, considerato l’ormai non più recente inizio della pandemia. Tuttavia, il rilancio dell’economia e, con essa, del mondo del lavoro rappresentano senza dubbio la sfida più significativa.

In questo senso, da un punto di vista normativo, un ruolo centrale sembra destinata a ricoprirlo la disciplina dei lavori digitali che, se da un lato rappresentano uno dei pochi ambiti in controtendenza rispetto alla generale contrazione, dall’altro hanno assolto ad una vera e propria funzione di ammortizzatore sociale “occulto” nei mesi più bui dell’emergenza pandemica e non solo, garantendo forme di lavoro flessibili e, soprattutto, molto richieste. Rimettere al centro del dibattito legislativo questa tematica è senz’altro indispensabile, essendo tutt’altro che un rebus irrisolvibile, come invece talvolta parrebbe osservando la scarsa incisività degli interventi normativi sull’argomento.

Uno dei fronti su cui l’Italia si è dimostrata più indietro è il digitale, che sarà necessariamente una delle priorità su cui lavorare nel futuro immediato, soprattutto per la digitalizzazione di tantissimi mestieri e attività. Sotto il profilo giuslavoristico, ci sono sufficienti norme che regolamentano il lavoro digitale e che tutelino i lavoratori e le imprese rispetto alle nuove modalità con cui si esplica la prestazione lavorativa, o è necessario fare di più?

Ad oggi si può dire che manchi una regolamentazione dedicata e pertanto unitaria del lavoro digitale, sicuramente anche a causa dell’estrema rapidità con cui il mondo del lavoro si è evoluto negli ultimi anni proprio in questo settore. Si pensi anche solo all’incessante dibattito giurisprudenziale sulla qualificazione contrattuale del lavoro dei rider e delle tutele cui conseguentemente avrebbero diritto. Il tema è stato peraltro da ultimo affrontato anche da un’indagine su quattro società di delivery coordinata dalla Procura della Repubblica di Milano, per i profili penalistici, e dall’Ispettorato nazionale del lavoro per ciò che concerne l’inquadramento dei rapporti di lavoro.

Secondo l’Ispettorato i rider devono essere considerati come collaboratori coordinati e continuativi a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato per quanto riguarda aspetti retributivi, previdenziali, assicurativi, di salute e sicurezza. Tale conclusione appare in linea con quella già espressa dalla Corte di cassazione nella sentenza 1663/2020.

Al di là delle varie pronunce è chiaro che la situazione rimane di grande incertezza e forse un ruolo importante potrebbe giocarlo la contrattazione collettiva di settore. Il lavoro è nuovo e così il diritto del lavoro dovrebbe rinnovarsi e occupare nuovi spazi che fino ad epoca recente non erano d’attualità ma che oggi sono imprescindibili.

La pandemia ha avuto un effetto diretto anche sul modello di lavoro agile che molte aziende in Italia adottano. Cosa è cambiato sotto questo profilo e cosa invece potrà tornare come prima al termine dell’emergenza sanitaria?

Con l’introduzione del lavoro agile ormai dal 2017, si sono volute introdurre e favorire nuove modalità di prestazione del lavoro, svincolandosi dal concetto tradizionale di luogo di lavoro. Senza poter prevedere cosa sarebbe successo solo tre anni dopo, questo è stato il primo e forse il più importante atto di inconsapevole preparazione alla paralisi (principalmente fisica) che ha colpito il mondo del lavoro con l’emergenza epidemiologica. Il lock down ha infatti comportato una spinta inaspettata alla diffusione di questa modalità di lavoro, obbligando anche gli operatori più scettici a dissociare la prestazione lavorativa dal luogo in cui essa viene prestata (ovviamente dove possibile) con l’ausilio di tecnologia già esistente da molti anni.

Quello che però si è perso in certi contesti è l’effetto positivo e virtuoso dell’osmosi di conoscenze ed esperienze, legato appunto alla frequentazione dell’ufficio e del luogo di lavoro in generale. Venendo alle domande: quello che è cambiato è che il lavoro “da remoto” non è più un tabù nemmeno per i più tradizionalisti e ha continuato ad avere apprezzabile diffusione anche nei momenti di allentamento delle restrizioni sanitarie.

Quello che in parte tenderà a tornare come prima, dunque, potrebbe essere proprio la rivalutazione dell’importanza del luogo di lavoro come momento di contatto e di condivisione, non del tutto sostituibile da computer e smartphone.

In questo momento storico, tutti i paesi si stanno attrezzando per vaccinare il più velocemente possibile i propri cittadini. Non sono però mancate polemiche sull’introdurre o meno l’obbligo di vaccinazione sia per alcune categorie specifiche di lavoratori che anche in maniera più estesa. Da un punto di vista giuridico, è sostenibile un obbligo alla vaccinazione?

Se è pur vero che il datore di lavoro può, su indicazione del medico competente, prevedere il vaccino tra le misure idonee a garantire la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (in particolare per quelle attività in cui l’esposizione al rischio di contagio è maggiore), il contesto normativo non consente ancora di intravedere un obbligo del lavoratore che, se violato, possa portare al licenziamento. In aggiunta, come precisato di recente dal Garante per la Privacy, il datore di lavoro non potrebbe chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19 le quali potranno essere richieste solo dal medico competente nell’ambito dell’espletamento della sorveglianza sanitaria.

Il medico competente non potrebbe in ogni caso comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati o non vaccinati dovendosi limitare, ove la mancata sottoposizione al vaccino possa pregiudicare la tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, ad esprimere i soli giudizi di idoneità o inidoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni/limitazioni a cui il datore di lavoro si dovrà attenere.

Altro discorso riguarda invece la possibilità di respingere la prestazione lavorativa del dipendente ritenuto non idoneo dal medico competente (in quanto non vaccinato) e la conseguente possibilità di negare al lavoratore il pagamento dello stipendio divenendo la prestazione lavorativa così irricevibile. Tale strada sarebbe percorribile (con valutazione da fare caso per caso), solo ove non vi siano soluzioni alternative come lo svolgimento dell’attività in regime di lavoro agile o la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni che escludano rischi di contagio.

Del resto, come riportato nei giorni scorsi, l’INAIL sembrerebbe orientata a non riconoscere l’indennità assicurativa ai lavoratori che, dopo aver rifiutato il vaccino, contraggano il virus sul luogo di lavoro.

Come Osservatorio, abbiamo proposto sei iniziative per garantire la ripartenza della Giustizia in Italia:
  1. Assicurare la speditezza dei processi
  2. Implementare l’uso della tecnologia nelle procedure giudiziarie
  3. Rinnovare le strutture dove si esercita la Giustizia
  4. Rivedere la formazione del magistrato nell’ottica dell’equilibrio del decisore
  5. Riformare il C.S.M. spezzando i meccanismi correntizi
  6. Combattere le infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico
Può darci la sua opinione in merito? Aggiungerebbe qualcosa?

Tra i vari punti, il tema della speditezza dei processi è senz’altro molto sentito non solo dagli operatori del Paese, ma rappresenta anche un fattore in grado di incidere sull’attrattività del nostro sistema economico e giuridico. Il processo del lavoro rappresenta senz’altro un esempio virtuoso di efficienza, anche grazie ad un elevato livello di semplificazione che da sempre lo caratterizza, prediligendo oralità, immediatezza e concentrazione. Considerando la storia di successo del processo del lavoro, potrebbe essere senz’altro utile estenderne l’applicazione anche ad altri ambiti, al fine di incidere positivamente sulla speditezza dei processi. Quanto alla digitalizzazione, il processo telematico è ormai realtà collaudata anche nei tribunali di minori dimensioni, mentre l’emergenza epidemiologica ha introdotto e diffuso le udienze in modalità telematica che, in prospettiva e anche al di fuori delle condizioni emergenziali in atto, potrà ulteriormente aiutare ad ottimizzare le dinamiche processuali in termini di efficienza e speditezza.