È stata depositata in data 21 luglio 2025, la sentenza n. 118/2025 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).

La pronuncia introduce rilevanti novità in materia di tutela contro i licenziamenti illegittimi per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro privi dei requisiti occupazionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, dello Statuto dei Lavoratori (c.d. “datori sottosoglia”).

La norma censurata (art. 9, comma 1, D.Lgs. 23/2015) prevedeva, per i dipendenti illegittimamente licenziati da datori di lavoro sottosoglia, una tutela esclusivamente monetaria, stabilendo che l’ammontare delle indennità previste per le diverse ipotesi di licenziamento illegittimo (artt. 3, 4 e 6 del medesimo decreto legislativo) fosse dimezzato rispetto alle indennità garantite ai dipendenti di aziende sopra i 15 dipendenti e, in ogni caso, non potesse superare il limite di sei mensilità.

La Corte ha ritenuto che il limite massimo di sei mensilità non consentisse una “personalizzazione del danno subito dal lavoratore” e non costituisse un deterrente efficace contro i licenziamenti illegittimi, violando i principi di ragionevolezza, eguaglianza e tutela del lavoro (artt. 3, 4, 35, 41 e 117 della Costituzione). 

Conseguentemente, con la sentenza in commento, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità». Di conseguenza, pur rimanendo in vigore il meccanismo del dimezzamento degli importi, viene meno il tetto massimo invalicabile delle sei mensilità.

L’intervento della Corte amplia significativamente la discrezionalità del Giudice, il quale potrà ora liquidare – a favore dei dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 da datori sottosoglia – un’indennità superiore a sei mensilità e sino ad un massimo di 18 mensilità, commisurandola alla specificità del caso concreto. Il Giudice dovrà tenere conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri criteri quali le dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro (che, come sottolineato dalla Corte, non si esauriscono nel solo numero di dipendenti), il comportamento e le condizioni delle parti, garantendo così una “personalizzazione” del risarcimento.

La decisione si pone in continuità con la precedente sentenza n. 183/2022, con la quale la Corte, seppur all’epoca aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. 23/2015, aveva tuttavia già ravvisato un vulnus nella relativa disciplina, auspicando un intervento legislativo. A fronte dell’inerzia del Legislatore, la Corte ha ritenuto di non poter ulteriormente attendere, provvedendo direttamente a rimuovere il profilo di incostituzionalità più critico.

Resta fermo, come auspicato dalla stessa Corte, un futuro intervento del Legislatore volto a rivedere in termini complessivi i criteri identificativi delle piccole imprese, affiancando al dato numerico dei dipendenti anche indicatori più rappresentativi della reale forza economica del datore di lavoro, come il fatturato o il totale di bilancio.

Il 12 dicembre 2024, la Corte di cassazione ha ritenuto conformi le richieste di referendum depositate a luglio dalla Cgil inerenti, tra l’altro, la disciplina dei licenziamenti illegittimi nell’ambito del contratto di lavoro cosiddetto a tutele crescenti di cui al Dlgs 23/2015.
Tale sistema rimediale ha, da sempre, interessato l’opinione pubblica e il dibattito politico, e ancora oggi rappresenta un punto di frattura tra le parti sociali. Basti pensare che, se da un lato, lo scorso 8 settembre 2024, in occasione del primo incontro pubblico tra il leader della Cgil, Maurizio Landini, e il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, quest’ultimo aveva confermato che «superare il Jobs act sarebbe un tuffo nel passato, abbiamo un gap tra domanda e offerta di lavoro che vale 43 miliardi all’anno. Per noi oggi il tema è attrarre persone, non superare una misura che sta funzionando», dall’altro, il segretario generale della Cgil ha affermato che con il via libera della Cassazione ai quesiti referendari «si apre una grande opportunità per il Paese».

Orbene, stante il persistente divario tra le posizioni delle parti sociali e il forte impatto che il contratto a tutele crescenti ha sull’opinione pubblica (prova ne è, da ultimo, il raggiungimento del quorum referendario), appare utile valutare se, da un mero punto di vista tecnico/legale, la normativa di cui al Dlgs 23/2015 presenti attualmente sostanziali differenze rispetto alla tutela offerta dall’articolo 18, dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012, tali da renderne – ad avviso dei sostenitori del referendum – indispensabile l’abrogazione nell’ottica di ampliare l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria.

Nella sua originaria formulazione, l’intervento del legislatore era caratterizzato dall’automatica determinazione dell’indennità risarcitoria dovuta in caso di licenziamento illegittimo, sulla base di una formula matematica, al fine di superare un sistema imperniato sulla discrezionalità dell’organo giudicante.

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Sei anni fa, il 7 marzo 2015, entravano in vigore le tutele crescenti del Jobs Act, innovative tutele in caso di licenziamento illegittimo per i nuovi assunti a tempo indeterminato: un intervento ai tempi considerato rivoluzionario dei principi regolanti le tutele sino ad allora in vigore, che si prefiggeva di disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo in modo esclusivamente automatico e sulla base di una formula matematica, dando forma all’ambizioso progetto di superare le incertezze di un sistema fino ad allora imperniato sulla discrezionalità del giudicante.

In base alle nuove regole, veniva d’un tratto ridefinito, per le aziende con più di quindici dipendenti, l’ambito di operatività del dibattuto diritto alla reintegrazione che, veniva relegata ad ipotesi residuale applicabile solo ai casi più gravi (insussistenza del fatto contestato al lavoratore, ovvero licenziamento discriminatorio o in altro modo radicalmente nullo) cedendo così il passo ad una tutela risarcitoria, da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro mensilità, per i canoni sino ad allora vigenti piuttosto contenuta soprattutto nei primi anni di servizio.

Almeno nelle intenzioni, la riforma avrebbe dovuto favorire nuova occupazione e ridurre gli ostacoli normativi all’attrazione degli investimenti in Italia.

A distanza di pochi anni, tuttavia, può dirsi con una certa tranquillità che le tutele crescenti originariamente introdotte hanno avuto vita molto breve e altrettanto travagliata.

Da un lato infatti l’economia reale, vero motore di ogni forma di sviluppo e crescita dell’occupazione, non ha avuto il trend auspicato dovendo affrontare da ultimo lo scenario pandemico, inimmaginabile nel 2015, rendendo impossibile riscontrare nel tempo l’incidenza espansiva delle tutele crescenti da un punto di vista occupazionale. D’altra parte, non si sono fatti attendere interventi normativi da parte dei successivi governi e in rapida successione della Corte Costituzionale, che hanno stravolto i connotati della riforma lasciando ben poco di quanto originariamente previsto.

Il primo colpo al sistema delle tutele crescenti veniva inferto dal Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) che, senza modificare la formula per il calcolo dell’indennizzo spettante sulla base di due mensilità per ogni anno di servizio, aumentava l’intervallo dell’indennizzo, che diventava da sei a trentasei mensilità.

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La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), con la sentenza del 17 marzo 2021 (causa C-652/2019), si è espressa sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Milano il 5 agosto 2019 relativamente alla legittimità della disciplina dei licenziamenti collettivi contenuta nel Jobs Act.

I fatti di causa

Il caso riguarda una lavoratrice assunta a tempo determinato antecedentemente all’entrata in vigore del Jobs Act, stabilizzata a tempo indeterminato a fine marzo 2015 e poi licenziata nel 2017 nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.

I dipendenti interessati dalla procedura in questione, inclusa la lavoratrice, adivano il Tribunale di Milano che dichiarava illegittimi i licenziamenti impugnati per violazione dei criteri di scelta. Il Tribunale riconosceva alla lavoratrice – diversamente dai suoi colleghi che erano stati reintegrati poiché assunti a tempo indeterminato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/20215 (cd. Jobs Act), ossia prima del 7 marzo 2015 – la sola tutela indennitaria.

Il Tribunale, preso atto dell’esistenza di due regimi sanzionatori differenti in caso di licenziamento collettivo illegittimo scaturenti dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, ha chiesto alla Corte di Strasburgo se una simile differenza di trattamento fosse contraria al diritto dell’Unione europea.

La decisione della CGUE

La Corte di Giustizia ha riconosciuto la conformità del D.Lgs. n. 23/2015 con il diritto dell’Unione europea, chiarendo che non è discriminatorio il regime che prevede solo un’indennità (e non anche la reintegrazione) per il lavoratore assunto con contratto a termine prima del 7 marzo 2015 e stabilizzato dopo. Ciò in quanto il diverso trattamento è giustificato dal fatto che i lavoratori interessati dalle tutele crescenti ottengono, in cambio di un regime di tutela meno forte, una forma di stabilità dell’impiego.

Si tratterebbe secondo la Corte di Strasburgo di un incentivo volto a favorire la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato che costituisce un obiettivo legittimo di politica sociale e di occupazione, la cui scelta rientra nell’ampio margine di discrezionalità degli Stati membri.

A parere della Corte di Strasburgo tale considerazione si pone in linea con quanto deciso dalla Consulta nel 2018, la quale, trattando sostanzialmente la medesima questione, aveva ritenuto legittimo che la disciplina rimediale potesse essere differenziata in relazione alla data di assunzione.

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La Legge di Bilancio 2021 prevede un ampio ventaglio di interventi in materia di lavoro, fiscale, sostegno alla liquidità e sviluppo delle imprese, con i suoi ben 1.150 commi, rappresenta una delle norme principali della manovra finanziaria.

L’art. 1, comma 279[1], della legge 30 dicembre 2020, n. 178, in particolare, ha esteso fino al 31 marzo 2021 la possibilità di prorogare o rinnovare i contratti a tempo determinato derogando all’obbligo delle tanto severe quanto discusse causali introdotte nella disciplina generale dei contratti a termine dal D.Lgs. 81/2015 c.d. Jobs Act[2], così come modificato dal Decreto Dignità (D.L. 87/18 come convertito dalla L. 96/18).

Questa importante deroga, fonte di ritrovata flessibilità nell’utilizzo dei contratti a termine, era stata dapprima introdotta dal c.d. Decreto Rilancio fino al 31 agosto 2020, per poi essere prorogata fino al 31 dicembre 2020 e da ultimo, dunque, ulteriormente estesa con la Legge di Bilancio fino alla prossima primavera. Questa possibilità di proroga o rinnovo “agevolata” è consentita per una sola volta e per durata massima di 12 mesi, nel rispetto in ogni caso del limite di durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato pari a 24 mesi.

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