L’Ufficio stampa della Corte Costituzionale lo scorso 25 giugno ha diramato un comunicato per informare che la Consulta ha esaminato, il precedente 24 giugno, le questioni di illegittimità costituzionali sollevate dai Tribunale di Roma e di Bari con riguardo ai criteri di determinazione dell’indennità da corrispondere in presenza di un licenziamento viziato solo da un punto di vista formale e procedurale ex art. 4 del D.Lgs. 23/2015. Nello specifico l’Ufficio ha fatto sapere che è stato dichiarato incostituzionale l’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. Ciò in quanto, a parere della Corte Costituzionale, lo stesso fissa un criterio rigido ed automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio. La Consulta torna così a bocciare il Jobs Act. Si era, infatti, già espressa sul punto nel 2018 allorquando aveva dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015 limitatamente al criterio di determinazione dell’indennità, da riconoscere in caso di licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo, automaticamente e unicamente ancorato all’anzianità di servizio. Si attendono ora le motivazioni della sentenza che saranno depositate nelle prossime settimane.
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L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) il 3 giugno 2020 ha emanato la nota n. 160, con cui fornisce chiarimenti in merito alle modifiche e integrazioni apportate al D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 (“Decreto Cura Italia”), convertito in L. n. 27 del 24 aprile 2020, dal D.L. n. 34 del 20 maggio 2020 (“Decreto Rilancio”).
In questa sede, si presterà attenzione alle indicazioni fornite dall’INL in merito ai licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo e alla proroga o rinnovi del contratto a termine.
L’INL precisa che, in sede di conversione in legge del Decreto Cura Italia, è stata introdotta una nuova esclusione del divieto di licenziamento nel caso in cui “il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto”.
Pertanto, solo nel caso in cui il nuovo appaltatore proceda con l’assunzione del dipendente, il recesso ad opera del datore di lavoro dal precedente rapporto si ritiene legittimo. Viceversa non potrà procedersi con il licenziamento di quel lavoratore che non è riassunto dal nuovo appaltatore.
Riguardo alla proroga del divieto, viene ribadito che non potranno essere avviate le procedure di licenziamento collettivo a decorrere dal 17 marzo 2020 e fino al 17 agosto 2020, mentre quelle pendenti, avviate dopo il 23 febbraio, sono sospese per il medesimo periodo.
Coerentemente, il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 7, L. n. 604/1966 è prorogato per il medesimo periodo e viene prevista la sospensione delle relative procedure in corso, cioè quelle non ancora definite alla data di entrata in vigore del Decreto Rilancio.
La nota riprende poi il contenuto del co. 1 bis secondo cui, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia esercitato il recesso nel periodo compreso fra il 23 febbraio e il 17 marzo, lo stesso può revocarlo purché “contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale in deroga, di cui all’articolo 22, dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento” ed “in tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro”.
L’INL non chiarisce, tuttavia, come gestire:
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Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.