Con la sentenza n. 553 del 2021, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice che aveva proferito frasi offensive e minacciose nei confronti dell’amministratore giudiziario della società. 

Nella sentenza della Cassazione in esame si sostiene che la decisione della Corte di Appello di Bari che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento era basata non tanto sul valore probatorio della relazione rilasciata dall’amministratore giudiziario quanto sulle risultanze istruttorie orali da cui erano emersi i profili di gravità della condotta posta in essere dalla lavoratrice, tali dall’essere incompatibili con la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro.

Non solo, la Corte di Cassazione precisa che anche sotto i profili della proporzionalità e della ragionevolezza, la massima sanzione espulsiva si deve ritenere pienamente congrua rispetto alla condotta imputata alla lavoratrice.

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La Corte di Cassazione, con sentenza 7703 del 6 aprile 2020, si è espressa circa la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato per anomalie riscontrate tra le voci dei rimborsi spese dichiarate da un lavoratore e contestate dal datore di lavoro a distanza di un anno. Chiamata ad esprimersi sui principi di immediatezza e di tutela dell’affidamento incolpevole del lavoratore circa l’irrilevanza disciplinare di fatti contestati tardivamente, la Suprema Corte ha ritenuto non sussistere una loro lesione qualora alcuni elementi di fatto, posti alla base del licenziamento, siano giunti a conoscenza del datore di lavoro solo successivamente e il dipendente abbia tenuto una condotta fraudolenta circa gli stessi.

I fatti

Nel caso di specie le anomalie dei rimborsi spese erano emerse a seguito di un controllo da parte del datore di lavoro riguardante un periodo di circa 13 mesi, che aveva implicato, peraltro, l’assunzione di informazioni presso gli stessi esercizi ove erano state effettuate le spese. Ai fini della contestazione il datore di lavoro aveva dato particolare rilevanza alla fattura di un hotel pervenutagli un anno dopo l’autodichiarazione resagli dal lavoratore circa le spese ivi sostenute. Dalla fattura emergeva, infatti, una discordanza tra le somme imputate e le varie voci dichiarate dal lavoratore ovvero che il soggiorno aveva riguardato anche un altro accompagnatore.

Nella fase di merito, La Corte d’Appello di Ancona, confermando la decisione del Tribunale di Pesaro, rigettava la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli.

In particolare, la Corte aveva ritenuto sussistere “la lesione del vincolo fiduciario idonea a fondare la giusta causa di licenziamento” e non aveva ravvisato “in relazione al meccanismo di controllo delle spese di trasferta adottato dalla Società, né la tardività della contestazione, né la lesione dell’affidamento del dipendente circa l’irrilevanza disciplinare delle condotte”.

Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva in Cassazione adducendo con il primo motivo di impugnazione la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300/1970 in relazione al principio di immediatezza della contestazione disciplinare e con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione degli articoli 1175 e 1375 cod. civ., circa l’omessa considerazione dell’esigenza di tutela dell’affidamento incolpevole sull’irrilevanza disciplinare della condotta non tempestivamente contestata.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso e nel confermare la legittimità del licenziamento per giusta causa, ha ritenuto, nel caso di specie, “correttamente applicato il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. Ciòin quanto il lavoratore avrebbe avuto piena consapevolezza della rilevanza disciplinare delle condotte addebitategliper essere state le stesse poste a base di altro provvedimento disciplinare assunto dalla Società” a suo carico relativamente ad un periodo antecedente a quello oggetto di nuova indagine. Tale circostanza, a giudizio della Corte, avrebbe reso inoltre quanto mai plausibile un successivo accertamento non solo più vasto ma anche più accurato.

Dai suddetti elementi la Corte di Cassazione ha infine ritenuto corretta l’interpretazione della Corte d’Appello circa “la legittimità, del controllo successivo involgente ben tredici mesi e l’irrilevanza, ai fini del giudizio di tempestività della contestazione, del tempo decorso per lo svolgimento del peculiare tipo di indagine“. A sostegno della tempestività della contestazione, altresì, la Corte ha dato rilievo al fatto che l’ultimo elemento acquisito all’indagine (ossia la copia della fattura emessa da un hotel di Londra in relazione alle spese di soggiorno del ricorrente) era pervenuto alla Società in data 3 marzo 2015, e la contestazione disciplinare era stata inviata il 7 aprile successivo.

Come se non bastasse, a giudizio della Corte, la ricorrenza nel caso di specie della giusta causa di recesso risultava ampiamente fondata poiché la fattura ricevuta dalla Società “dava conto del carattere fraudolento della condotta del ricorrente, il quale, nell’autodichiarazione relativa a quel soggiorno, […] dissimulava, nell’alterazione delle somme imputate alle varie voci dichiarate, la presenza di altro accompagnatore e l’indebito accollo alla Società delle spese a quello relative”.

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Dalla sentenza in commento emerge come, nell’ambito di una procedura disciplinare, il principio di tempestività della contestazione debba essere considerato in un’ottica relativa e quindi compatibile con l’intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la verifica dei fatti. Pertanto, la contestazione disciplinare non può considerarsi tardiva o lesiva dell’affidamento del dipendente se alcuni elementi di fatto (nel caso di specie la fattura dell’hotel) siano giunti a conoscenza del datore di lavoro dopo un certo lasso di tempo e rispetto agli stessi il dipendente abbia tenuto una condotta fraudolenta (nel caso di specie la falsa autodichiarazione).

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7567 del 27 marzo 2020, ha osservato che in tema di giusta causa il giudice è tenuto a verificare la condotta addebitata al lavoratore, in tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi che la compongono, al d là della tipizzazione contenuta nel contratto collettivo.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine da un diverbio litigioso sorto tra un lavoratore con mansioni di operaio e il proprio capoturno all’interno dei locali aziendali; nel corso della menzionata lite, il primo colpiva il secondo con un calcio al ginocchio.

Il lavoratore veniva così licenziato per giusta causa sulla scorta della previsione del CCNL per gli addetti all’industria chimica e chimico-farmaceutica che riconduce tale fattispecie nelle ipotesi di “grave perturbamento della vita aziendale” le quali giustificano, per l’appunto, il licenziamento in tronco.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento e, in particolare, a conclusione della fase sommaria del rito “Fornero”, il lavoratore otteneva l’annullamento dello stesso con annessa tutela reintegratoria e risarcitoria ai sensi dell’art. 18, co. IV, L. n. 300 del 1970.

La società ex datrice di lavoro, a questo punto, proponeva ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale, il quale, accertata la sussistenza del fatto, respingeva il ricorso ritenendo l’episodio, in ogni caso, non idoneo a recare un “grave perturbamento della vita aziendale”.

Anche in appello veniva confermata la decisione di primo grado: in particolare, i giudici distrettuali del capoluogo meneghino, sottolineavano come la società pur avendo contestato l’alterco litigioso e le vie di fatto verificatisi all’interno del perimetro dello stabilimento, non aveva tuttavia enunciato l’essenziale parametro del “grave perturbamento della vita aziendale”, né aveva precisato, come invece avrebbe dovuto, l’effettiva connotazione di quest’ultimo nel quadro dell’intero episodio, segnalando quali fossero state in termini di effetti le gravi alterazioni della vita aziendale che si erano verificate. Conseguentemente, i giudici del gravame ritenevano la contestazione non idonea a contenere alcun riferimento all’evento e alla sua gravità, elementi essenziali sia ad integrare la stessa contestazione sia a porre l’incolpato in condizione di articolare una difesa possibilmente volta a negare l’evento e i suoi connotati.

Avverso la sentenza di secondo grado la società proponeva ricorso in cassazione a tre motivi, a cui resisteva il lavoratore.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione investita della causa ha sottolineato preliminarmente come la nozione legale di giusta causa prescinde dalle previsioni del contratto collettivo. Pertanto, “l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha” una “valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento o comportamento del lavoratore” tale da “far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”. I Giudici di legittimità hanno dunque osservato che nella verifica circa l’esistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, il giudice di merito incontra il solo limite che “non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore”. Oltre a ciò, nella sentenza de qua, si legge che “il giudice chiamato a verificare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento” è comunque sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo. Lo stesso deve “verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista”. Pertanto, la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di licenziamento non può considerarsi vincolante.

I Giudici di legittimità, così, ritenendo che la corte territoriale avesse omesso di valutare la gravità della condotta contestata e di conseguenza la proporzionalità della sanzione espulsiva – in contrasto con quanto richiesto dall’art. 2119 cod. civ – hanno cassato la sentenza e rinviato la causa alla Corte d’appello in diversa composizione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 24 febbraio 2020, n. 4879, ha affermato che la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, della L. 300/1970 in caso di “insussistenza del fatto contestato” è applicabile altresì in caso di inesistenza della contestazione ovvero qualora la stessa contenga fatti diversi da quelli posti alla base del licenziamento.

I fatti di causa

La vicenda processuale da cui trae origine la decisione della Suprema Corte ha visto il susseguirsi di due decisioni allineate da parte dei giudici territoriali di merito.

Infatti, la Corte d’Appello, confermando la sentenza del giudice di prime cure, aveva ritenuto:

  • illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, per insussistenza del fatto materiale contestato. Ciò in quanto non era stato ravvisato alcun intento minatorio nella frase “io non ho nulla da perdere, se mi faccio male io non mi faccio male da solo” pronunziata dal dipendente come reazione al comportamento del datore di lavoro che gli aveva negato la possibilità di godere delle ferie ad agosto; e
  • violato il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, evincibile dalla valutazione comparativa tra le circostanze di fatto enunciate nella contestazione dell’addebito e le differenti ed ulteriori circostanze enunciate nella lettera di licenziamento. In quest’ultima, infatti, si faceva riferimento per la prima volta ad azioni di “ricatto, minaccia e lesione dell’immagine aziendale” asseritamente poste in essere dal lavoratore.

Infine, alla stregua di tali rilievi veniva confermata la correttezza della tutela reintegratoria applicata, senza che rilevasse la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

Avverso la decisione di secondo grado, il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione, deducendo che i vizi procedurali, anche gravi, possono dare luogo solo ad una tutela indennitaria ridotta, mentre le altre tutele possono applicarsi allorquando vi sia sul piano sostanziale un difetto di giustificazione del licenziamento.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha osservato che in presenza di un licenziamento formalmente viziato, e quindi inefficace, per violazione dell’obbligo di motivazione, trova applicazione una sanzione indennitaria (sempre sostitutiva del posto di lavoro) ridotta, perché variabile da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità, tenuto conto della gravità della violazione formale commessa (art. 18, comma 6, dello Statuto dei Lavoratori).

In ogni caso, secondo la Corte di Cassazione, resta ferma l’applicazione delle diverse tutele previste dall’art. 18, commi 4°, 5° o 7° – in sostituzione della tutela indennitaria ridotta e non in aggiunta ad essa – qualora emerga, su domanda del lavoratore, l’ingiustificatezza del licenziamento. Per ingiustificatezza del licenziamento si intende l’inesistenza di un giustificato motivo soggettivo, oggettivo o di una giusta causa il cui onere della prova, una volta che il lavoratore ha spiegato la sua domanda, resta comunque in capo al datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della legge 604/1966.

La Corte di Cassazione – di fronte alla dibattuta questione dell’individuazione del regime di tutela applicabile in ipotesi di omessa iniziale contestazione di taluni comportamenti – ha, quindi, statuito che “ove il licenziamento venga intimato senza contestazione disciplinare, lo stesso continua, come in passato, ad essere considerato ingiustificato ed è sanzionato con la reintegrazione ad effetti risarcitori limitati”.

La giustificazione della tutela reintegratoria sempre a parere della Corte, si rinviene nel fatto che, ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. Lav., tale tutela è prevista in caso di “insussistenza del fatto contestato”, che implicitamente non può che ricomprendere anche l’ipotesi di inesistenza della contestazione.

A fronte di tutte le ragioni menzionate, il ricorso della società datrice di lavoro è stato respinto, perché considerato privo di ogni fondamento.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1394 depositata il 22 gennaio 2020, ha nuovamente posto l’attenzione sull’uso e potenziale abuso dei permessi per l’assistenza a familiari disabili di cui all’art. 33, co.3, della legge n. 104 del 1992. In particolare, la Suprema Corte, nell’affermare il principio secondo cui tali permessi sono riconosciuti «in ragione dell’assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa», ha escluso che questi possano essere fruiti «in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza».

I fatti

La Corte d’Appello di Aquila confermava la decisione del Tribunale di Pescara laddove quest’ultimo aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per avere abusato dei permessi ex art. 33, co. 3, della legge n. 104 del 1992. La Corte distrettuale aveva ritenuto raggiunta la prova dell’abuso di quattro permessi da parte del lavoratore, alla luce della relazione di un’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro). In particolare, era stato dimostrato come su quattro giornate di permesso, il dipendente si fosse recato presso l’abitazione del padre, disabile, solo per 15 minuti in una sola delle quattro giornate. Avverso la decisione della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore adducendo, nell’unico motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992. Nello specifico, il lavoratore evidenziava come la norma richiamata non imponga una necessaria coincidenza temporale tra tempo del permesso e tempo dell’assistenza diretta al familiare disabile.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso e confermare la legittimità del licenziamento per giusta causa, ha richiamato un consolidato orientamento secondo cui “in base alla ratio della legge n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, che attribuisce al lavoratore dipendente (…) che assiste persona con handicap in situazione di gravità (…) il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è necessario che l’assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile”. (Cfr. Cass. n. 1529/2019; Cass. n. 8310/2019; Cass. n. 17968/2016; Cass. n. 9217/2016; Cass. n. 8784/2015)

La Suprema Corte sottolinea come il concetto di assistenza – seppure sia da intendersi in senso ampio (potendo consistere anche nello svolgimento di incombenze di carattere amministrativo, pratico o di qualsiasi genere) – non potrà in ogni caso prescindere dalla sussistenza di una relazione causale diretta con l’interesse del familiare assistito (Cfr. Cass. Ord. n. 23891/2018).

Pertanto, prosegue la Suprema Corte, “il prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dal citato art. 33, in coerenza con la funzione dello stesso, integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale” (Cfr. Cass. N. 17968/2016).

La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, conferma anche il proprio orientamento in merito alla legittimità per il datore di lavoro di avvalersi di agenzie di investigazione per controllare i propri dipendenti. Ciò, soprattutto durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro, prendendo conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (Cfr. Cass. n. 18411/2019).

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In considerazione di quanto sopra esposto, ai permessi ex art. 33, co. 3, della Legge 104 del 1992, per assistere il familiare disabile non può essere attribuita una funzione diversa da quella dell’assistenza a quest’ultimo o che sia comunque in relazione causale diretta con essa.

Pertanto, stando al tenere della sentenza in commento, il dipendente, che dovesse utilizzare tali permessi per una finalità meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate per l’assistenza prestata, potrebbe essere legittimamente licenziamento per giusta causa.