Il Tribunale di Padova, sezione Lavoro, con l’ordinanza del 4 ottobre 2019 ha stabilito che è consentito – e dunque legittimo – il licenziamento per giusta causa del dipendente che attesta falsamente la propria presenza in ufficio, anche se la condotta è accertata dalle agenzie investigative. Il caso sul quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale di merito si riferisce ad un dipendente assunto con mansioni di tecnico sviluppatore nell’ambito del processo di apertura dei nuovi punti vendita. Il dipendente fruiva di un ufficio con ingresso autonomo sito a Bologna, adiacente ad uno dei punti vendita della società ma del tutto indipendente da quest’ultimo in quanto separato da un muro. Il dipendente era tenuto a registrare il proprio orario di ingresso e di uscita tramite il sistema di timbratura badge o in caso di sua dimenticanza, tramite inserimento manuale degli orari in un apposito tabulato fornito dalla società (metodo ritenuto suppletivo e non alternativo rispetto al primo). Ciò precisato, un addetto all’Ufficio di sicurezza della società si recava per effettuare delle verifiche sull’impianto di allarme presso il punto vendita di Bologna e nell’occasione faceva visita presso l’ufficio adiacente del lavoratore che, in quella giornata, non era in sede. L’addetto all’Ufficio sicurezza avvertiva la società, che avviava una serie di controlli sulle registrazioni presenze del lavoratore, notando che quest’ultimo era solito registrare le proprie presenze tramite inserimento manuale del tabulato. A fronte di ciò, la società riteneva opportuno avviare una serie di controlli tramite un’agenzia investigativa sulle attività svolte dal ricorrente. Dall’indagine emergeva che durante l’orario di lavoro, pur diversamente attestando sui tabulati presenze, il dipendente era solito portare a termine questioni personali anziché svolgere la propria attività in favore della società, ciò anche per lungo tempo, che ovviamente veniva regolarmente retributivo. Tale condotte erano oggetto di un procedimento disciplinare che si concludeva con il licenziamento per giusta causa del dipendente. Quest’ultimo, dunque, a seguito dell’impugnazione del licenziamento, depositava ricorso presso il Tribunale di Padova con cui chiedeva all’ill.mo Giudice di accertare e dichiarare la nullità e/o annullabilità e/o l’inefficacia e/o l’illegittimità del licenziamento intimato dalla società perché privo di giusta causa e in ogni caso inerente ad una condotta punibile con una sanzione conservativa. Si costitutiva regolarmente in giudizio la società contestando ogni addebito e richiedendo altresì la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese legali.

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Il Tribunale di Bari, con la sentenza 2636 del 10 giugno 2019, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per aver inviato tramite il suo profilo Facebook – installato indebitamente sul dispositivo aziendale – messaggi che rivelavano segreti aziendali ad imprese concorrenti.

I fatti di causa

Una lavoratrice, con mansioni di segretaria commerciale ed inquadrata nel VI livello impiegatizio ai sensi del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Terziario, veniva licenziata dalla società, sua datrice di lavoro, per giustificato motivo oggettivo. A seguito dell’impugnazione giudiziale del recesso da parte della lavoratrice, la società revocava il provvedimento espulsivo.

Dopodiché, la società azionava nei confronti della lavoratrice un procedimento disciplinare per:

  • aver la stessa indebitamente installato un suo profilo Facebook sul telefono aziendale e per averlo utilizzato per intrattenere frequenti e numerose conversazioni private durante le ore di lavoro;
  • aver, tra le altre, fornito, anche in epoca successiva alla riconsegna del dispositivo nel periodo di congedo per malattia, notizie riservate afferenti all’impresa ad aziende concorrenti.

 

Di tali informazioni la società ne era venuta a conoscenza proprio perché il telefono, durante il periodo di assenza della lavoratrice per malattia, era rimasto in azienda ed i messaggi in arrivo erano stati controllati dal legale rappresentante.

 

La lavoratrice, nel rendere le sue giustificazioni, contestava la genericità degli addebiti, dichiarandosi ad essi del tutto estranei. La società concludeva il procedimento intimandole un licenziamento per giusta causa.

 

La lavoratrice nell’impugnare il recesso eccepiva la sua nullità, poiché intimato in seguito al recesso per giustificato motivo oggettivo, ossia quando si era già verificata la causa estintiva del rapporto di lavoro.

Sul presupposto dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, della mancanza di giusta causa e della violazione dei principi di specificità e tempestività delle contestazioni, la lavoratrice chiedeva che venisse accertata e dichiarata la sua illegittimità con condanna della società alla sua reintegrazione, al pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma pari a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Costituendosi in giudizio, la società:

  • eccepiva la non interferenza tra i due recessi e la mancanza dei presupposti per l’applicazione della tutela richiesta per difetto del requisito dimensionale;
  • confermava la legittimità del secondo recesso data la gravità dei fatti contestati;
  • chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della lavoratrice al pagamento in suo favore di 15.000 Euro a titolo di risarcimento per i danni patiti a causa delle sue condotte.

La decisione del Tribunale

Ad avviso del Tribunale nella fattispecie in esame la condotta posta in essere dalla lavoratrice è idonea a integrare la giusta causa di licenziamento.

Innanzitutto il Tribunale, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sul punto, ha osservato che ai fini dell’accertamento della giusta causa incombe sul datore di lavoro l’onere di provare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (cfr Cassazione civile, n.35/2011).

Ciò detto, a parere del Tribunale, dal punto di vista oggettivo il comportamento della dipendente costituisce un grave illecito disciplinare. In particolare, la lavoratrice, oltre ad aver installato indebitamente un suo profilo Facebook sul telefono aziendale, ha utilizzato tale dispositivo per intrattenere frequenti e numerose conversazioni private durante l’orario di lavoro svelando, tra l’altro, notizie aziendali riservate.

Tali circostanze, provate in giudizio tramite gli schreenshot delle diverse conversazioni, sono state ritenute di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. In particolare, secondo il giudice, la condotta osservata ha integrato una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nonché degli obblighi contrattualmente assunti di diligenza e di fedeltà.

In considerazione di quanto sopra esposto, il Tribunale ha rigettato l’impugnativa della lavoratrice dichiarando legittimo il licenziamento.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21621 depositata il 4 settembre 2018, ha statuito che il licenziamento disciplinare intimato su circostanze accertate da un investigatore privato non è legittimo qualora lo stesso si fondi su fatti avvenuti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa e riconducibili alla stessa. Il caso di specie vedeva un lavoratore rendersi responsabile di atti di manomissione del registro delle presenze, al fine di occultare le proprie assenze. Scoperta il gioco del dipendente all’esito dei controlli effettuati per il tramite di una agenzia investigativa, la società procedeva ad avviare a suo carico un procedimento disciplinare che si concludeva con un licenziamento per giusta causa. Avverso il provvedimento espulsivo il lavoratore ricorreva in giudizio ed i giudici di merito statuivano la legittimità della condotta aziendale. Investita della questione, la Corte di Cassazione ha ribaltato gli esiti della controversia. La Corte di Cassazione, analizzati gli atti di causa, ha, infatti, stabilito che ogni circostanza relativa alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa deve essere accertata dal datore di lavoro o da soggetti interni all’organizzazione aziendale. Questo, ad ogni modo, non preclude la possibilità che gli investigatori possano essere effettivamente utilizzati per l’accertamento di condotte legittimanti l’irrogazione di sanzioni disciplinari. Ma, secondo la Corte di Cassazione, “il controllo (…) di un’agenzia investigativa non possa (ndr non può) riguardare in nessun caso né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di prestare la propria opera”. In altri termine l’indagine della società investigativa deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore che non siano riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29613 dell’11 dicembre 2017, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva svolto altra attività lavorativa durante la sua assenza da lavoro, oltre che per infortunio, per assistere un familiare disabile ai sensi dell’art. 33 della L. 104/1992. La Suprema Corte, in particolare, ha ritenuto esente da vizi la decisione con cui la Corte d’Appello territorialmente competente aveva confermato la sentenza del giudice di prime cure di rigetto del ricorso presentato dal lavoratore avverso il provvedimento espulsivo comminato nei suoi confronti. Secondo la Suprema Corte, invero, il fatto materiale addebitato al dipendente era stato adeguatamente circostanziato e idoneo a consentire un’adeguata difesa, essendo state indicate le giornate in cui sarebbe stata svolta l’attività lavorativa. Quanto poi alla gravità dell’addebito che ha portato al licenziamento in questione, la Corte ha evidenziato che la condotta fraudolenta posta in essere dal dipendente era stata tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario posto a fondamento del rapporto di lavoro soprattutto in considerazione della “…causale del permesso per disabilità disonorata dall’evidente disinteresse manifestato nei riguardi del familiare meritevole di negata assistenza”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25147 del 24 ottobre 2017, ha considerato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva scaricato su una pen driver personale dati aziendali (non protetti da password) senza divulgarli a terzi. Secondo la Corte, invero, il fatto che il dipendente non avesse divulgato i dati illegittimamente trafugati dai server aziendali, ma solo salvato questi su una pen drive, non era sufficiente a determinare l’illegittimità del provvedimento espulsivo irrogato in tronco sulla base del CCNL di settore. Ciò in quanto tale condotta comunque rappresentava una violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. La Corte di Cassazione, nel corso del ragionamento posto a fondamento della decisione, ha, inoltre, sottolineato che neanche la mancata protezione dei dati aziendali con password avrebbe potuto incidere sulla legittimità del recesso datoriale. Ciò in quanto la natura dei dati, evidentemente riservata, non viene meno per il fatto che sia libero il loro accesso al dipendente; né tantomeno questo può in alcun modo legittimare la condotta dello stesso. In sostanza il dipendente non deve compiere attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, intendendosi per tali quelle che, seppur non produttive attualmente di danno, siano dotate di potenziale lesività.