La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16253 del 29 luglio 2020, si è espressa circa l’applicabilità della tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (con ricostituzione del rapporto e risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità) nei casi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

I fatti

Il caso di specie trae origine dall’impugnazione giudiziale di un lavoratore avverso il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo in relazione alla intervenuta cessazione dell’appalto ove lo stesso era impiegato.

La Corte d’Appello di Roma, adita in sede di reclamo dalla società datrice di lavoro, accoglieva la domanda del lavoratore confermando la decisione di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento sul presupposto che la società resistente non aveva dimostrato la relazione sussistente fra la perdita dell’appalto e il venir meno della utilità del lavoratore in esubero.

In particolare, il Collegio d’appello ha escluso che la cessazione dell’appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento in assenza della prova del necessario nesso causale tra la ragione organizzativo produttiva posta a base del recesso e la soppressione del posto di lavoro atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.

Avverso la decisione di merito ricorreva in cassazione la società soccombente, lamentando la erronea applicazione dei commi 4 e 7 dell’art. 18, della L. 300/1970 nella loro attuale formulazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso presentato dalla società, si è soffermata ad analizzare il discrimine tra l’applicazione della tutela indennitaria prevista dall’art. 18, co. 5 (indennità omnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità) e la tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’art. 18, co.4 nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla luce di quanto disposto dall’art. 18, co. 7 della L. 300/1970.

Quest’ultima previsione, giova ricordarlo, concede al giudice il potere di applicare la disciplina della tutela reintegratoria “attenuata” nei casi in cui accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per g.m.o”.

Secondo la Suprema Corte le intenzioni del legislatore sarebbero da interpretare nel senso di attribuire natura residuale alla tutela reintegratoria fungendo la stessa da eccezione alla regola della tutela indennitaria nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Tuttavia, continua la Suprema Corte, richiamando una recente pronuncia (Cass. n. 29101 del 11 novembre 2019), in tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, “la ritenuta mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento è sussumibile nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, co. 7, L. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012, la tutela reintegratoria attenuata”.

Pertanto, nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha osservato chel’assoluto difetto di collegamento tra la cessazione dell’appalto e l’attività lavorativa svolta dal lavoratore, hanno indotto la Corte ad escludere ictu oculi la sussistenza del nesso di causalità e quindi del fatto costituente giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. Tale insussistenza ictu oculi, continua la Corte, si tradurrebbe nella “manifesta insussistenza del fatto proprio in quanto lo stesso appare difettare tout court in modo così evidente da aver correttamente indotto il giudice di secondo grado ad optare per la tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 nel suo combinato disposto con il settimo comma

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La sentenza in commento giunge ad una conclusione che desta non poche perplessità circa l’annosa incertezza applicativa della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo giudicati illegittimi. La conclusione a cui giunge la Corte sembrerebbe in un certo senso controversa in quanto dapprima sostiene la natura residuale della tutela reintegratoria rispetto a quella indennitaria per poi invece ricollegare il concetto di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento (che consente al giudice di applicare la tutela reintegratoria attenuata) a tutti i casi in cui il giudice non ritenga sussistere un nesso causale tra essi.

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Il D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio), recentemente convertito con modificazioni nella Legge 77/2020, ha esteso per cinque mesi, decorrenti dal 17 marzo 2020 e fino al 17 agosto 2020, i termini del divieto di licenziamento: durante tale arco temporale non potranno essere avviate procedure di licenziamento collettivo e quelle pendenti, avviate dopo il 23 febbraio, saranno sospese per il medesimo periodo.

Allo stesso modo, per il medesimo periodo è stato prorogato il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della Legge 604/1966 e sono state sospese le procedure di licenziamento ex articolo 7, L. 604/1966 in corso .

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Il Decreto Rilancio ha così modificato quanto disposto dal Decreto Cura Italia, recante misure urgenti per contrastare l’emergenza COVID 19, che all’art. 46 prevede che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, della legge 15 luglio 1966, n 604”.Pertanto, dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020, vi è il divieto di avviare procedure di riduzione collettiva del personale e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020. Inoltre, sino al 16 maggio 2020 i datori di lavoro, indipendentemente dal numero di dipendenti in forza, non possono intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. I datori di lavoro potranno, invece, procedere con il licenziamento per giusta causa, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il recesso da un contratto di apprendistato al termine del periodo di formazione, il recesso in prova, il licenziamento per fruizione del pensionamento per la quota 100 nonché per la fruizione della pensione di vecchiaia, il licenziamento per superamento del periodo di comporto e per inidoneità alle mansioni affidate ed i licenziamenti dei dirigenti.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1499 del 21 gennaio 2019, ha confermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.

I fatti

Una lavoratrice, assunta presso una società operante nel settore dei servizi assicurativi e turistici e addetta presso l’area banco e biglietteria, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della dismissione dell’area presso cui era impiegata. In alternativa al licenziamento la Società le aveva proposto la trasformazione del rapporto di lavoro da full time in part time, che tuttavia la stessa aveva rifiutato.

La lavoratrice adiva, dunque, il Tribunale del lavoro territorialmente competente affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento intimatole con tutte le conseguenze di legge che ne sarebbero derivate. A fondamento della propria presta la lavoratrice adduceva il fatto che l’offerta di modificare l’orario di lavoro non poteva costituire un valido tentativo di repêchage, avendo peraltro la società assunto una nuova risorsa a tempo pieno a distanza di un anno dal licenziamento, affidandole anche mansioni da lei stessa dapprima espletate.

Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice ma la sua pronuncia veniva riformata dalla Corte di Appello di Ancona adita dalla società.

La Corte di Appello, in particolare, dichiarava legittimo il licenziamento sull’assunto che:

  • la società aveva compiutamente provato l’effettiva dismissione delle attività dell’area banco e biglietteria alle quali era addetta la dipendente;
  • la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro, formulata alla lavoratrice poco prima della intimazione del licenziamento e dalla stessa rifiutata, costituiva prova del tentativo di “repêchage”;
  • nessuna assunzione era avvenuta in sostituzione della lavoratrice, ma la neoassunta in questione aveva sostituito un’altra dipendente.

 

La lavoratrice ricorreva così in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello.

 

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione della Corte distrettuale ritenendo la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time sufficiente a comprovare l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha, altresì, sottolineato come non potesse neppure attribuirsi valore all’assunzione di nuova risorsa, poiché detta assunzione era avvenuta in conseguenza della cessazione di un altro rapporto di lavoro, risolto in un momento successivo alla risoluzione del rapporto della lavoratrice ricorrente.

Conclusioni

Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.

 

 

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3186 del 4 febbraio 2019, ha affermato che il licenziamento basato su un futuro trasferimento d’azienda (tramite fusione) con conseguente accorpamento di funzioni, non può considerarsi legittimo, con soggezione del lavoratore coinvolto al regime di tutela di cui all’art. 18, comma 4, della Legge 300/1970 (cd reintegra attenuata). Ciò in quanto la fattispecie in questione deve considerarsi assimilata all’ipotesi della “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento.

I fatti

Una lavoratrice, con ricorso ex Legge 92/2012, agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro al fine ottenere la declaratoria di nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento intimatole. Nello specifico la stessa eccepiva di aver ricevuto rispettivamente: (i) in data 16 ottobre 2014 una comunicazione meramente informativa circa la soppressione del suo posto di lavoro a seguito del trasferimento dei propri compiti presso la sede di un’altra società, in vista della fusione per incorporazione tra quest’ultima e la società sua datrice di lavoro; (ii) il successivo 6 novembre la lettera di licenziamento per soppressione della posizione lavorativa. Ciononostante, evidenziava la lavoratrice, l’effettiva fusione per incorporazione si era concretizzata solo il 24 novembre 2014, quindi successivamente al licenziamento.

 

La lavoratrice invocava, altresì, l’applicazione dell’art. 2112, comma 4, cod. civ. secondo il quale il trasferimento d’azienda (cui doveva equipararsi la fusione) non può costituire di per sé motivo di licenziamento.

 

Il Tribunale, con propria ordinanza, annullava il licenziamento, disponendo la reintegra della lavoratrice ed il pagamento in suo favore dell’indennità risarcitoria. A parere del Tribunale il licenziamento era, infatti, in contrasto con l’art. 2112, comma 4, cod. civ., dovendosi ricondurre esclusivamente alla fusione societaria e comunque intimato in violazione della procedura di cui alla Legge 223/1991.

 

In fase di reclamo, il Tribunale accoglieva il ricorso dalla società, ritenendo provata la crisi aziendale che aveva determinato la soppressione del posto di lavoro in questione, indipendentemente dalla fusione e, dunque, esclusa la violazione dell’art. 2112 c.c. e l’applicabilità della L. 223/1911.

 

La lavoratrice ricorreva in appello avverso la sentenza di primo grado. La Corte distrettuale adita, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava illegittimo il licenziamento, con ordine di reintegro e condanna della società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 18, comma 1, della Legge 300/1970, oltre accessori.

 

Avverso la sentenza di secondo grado, la società ricorreva in cassazione.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione adita ha confermato l’illegittimità del licenziamento, non avendo ravvisato alcuna soppressione del posto di lavoro al momento della sua comunicazione, ma tutt’al più un prossimo trasferimento di mansioni ad altra società.

A suffragio del suo teorema la Corte di Cassazione ha richiamato un precedente orientamento secondo il quale “in caso di cessione d’azienda, l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento, sebbene non possa essere l’unica ragione giustificativa, non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo” (Cass. Civ. n. 11410/18 e Cass. Civ. n. 15495/18).

La Corte di Cassazione ha, però, accolto l’eccezione della società secondo cui il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda di per sé non costituisce una ipotesi di nullità con conseguente inapplicabilità delle tutele di cui all’art. 18 della Legge 300/1970.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, “l’art. 2112 cod. civ. stabilisce solo che il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, non facendone in generale divieto, tanto meno a pena di nullità”. Pertanto, a suo parere, il licenziamento non può essere tutelato dal regime di cui al comma 1 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Comma questo che prevede la reintegra in caso di licenziamento discriminatorio o determinato da motivo illecito ovvero “negli altri casi di nullità previsti dalla legge”. Ciò, proprio perché l’art. 2112 cod. civ. de quo prevede una ipotesi di annullabilità per difetto di giustificato motivo.

Pertanto, a suo parere, la fattispecie in esame deve ricondursi all’ipotesi della “manifesta insussistenza del fatto” posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui al secondo periodo dell’art. 18, comma 7, della Legge 300/1970. Ciò in quanto è stato accertato che al momento del recesso le ragioni a fondamento del licenziamento non sussistevano, essendo state semplicemente correlate ad un futuro accorpamento di mansioni che sarebbe, peraltro, conseguito da una futura fusione societaria. Fusione questa che, a sua volta, non costituisce ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112, comma 4, cod. civ. un giustificato motivo di licenziamento.

Orbene, secondo la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata avrebbe dovuto applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 della Legge 300/1970 con annullamento del licenziamento, condanna alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento in suo favore di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, detratto l’eventuale aliunde perceptum o percipiendum, in ogni caso non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali come stabilito dal detto comma 4.

Conclusioni

Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che la società cedente può procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una sua risorsa solo se il trasferimento d’azienda si concretizza in un momento temporale antecedente a quello del licenziamento stesso. In difetto, rischia di incorrere nelle conseguenze di cui all’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori (cd. reintegra attenuata).

 

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Legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche se il datore di lavoro ricorre a risorse esterne e a lavoro straordinario

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 25 giugno 2018 n. 16702, torna a pronunciarsi sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo e sulle relative conseguenze sanzionatorie. In particolare la Suprema Corte ha osservato che l’andamento economico negativo di una azienda costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare ed il giudice accertare. Ciò in quanto è sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo ridimensionamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa. Qualora, invece, il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso risulta ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore. In tal caso tuttavia, detta situazione non comporterebbe automaticamente quale conseguenza sanzionatoria l’applicazione della tutela reale del posto di lavoro. In sostanza la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, di cui al comma 7 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Orbene, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una chiara, evidente e facilmente verificabile (sul piano probatorio) assenza dei suddetti presupposti.