Prima di procedere al licenziamento il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”

Con sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, precisando che nelle valutazioni circa la possibilità  di  ricollocare  il  dipendente  prima  di  procedere  al  licenziamento  (cd.  obbligo  di repêchage), il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso“.

L’obbligo di repêchage nelle pronunce della giurisprudenza

La  fonte  dell’obbligo  di  repêchage  è  rintracciabile  nella  giurisprudenza  che  –  mossa  da un’interpretazione sistematica-adeguatrice dell’art. 3 L. 604/1966 conforme alla Costituzione – ritiene necessario gravare dell’onere di ripescaggio il datore di lavoro e ciò per realizzare “un certo contemperamento tra l’interesse dell’impresa e quello del lavoratore ugualmente protetti dalla normativa costituzionale” (Cass. n. 5777/2003 e Cass. n. 9656/2012).

L’obbligo di repêchage consiste in quell’obbligo posto a carico del datore di lavoro di verificare la sussistenza  di  possibilità  di  ricollocazione,  all’interno  della  stessa  azienda,  del  lavoratore  in esubero o divenuto inidoneo alla prestazione lavorativa che gli era stata assegnata. L’obbligo è direttamente legato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per tale intendendosi quel licenziamento intimato per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare  funzionamento  di  essa,  ovvero  determinato  dalla  “necessità  di  procedere  alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore” (Cass. n. 6026/2012), disciplinato dall’art. 3 L. 604/1966.

In applicazione di tale dovere, dunque, il datore di lavoro che decide di sopprimere una posizione lavorativa, per ragioni di carattere economico o di riorganizzazione aziendale, dovrà dare prova dell’insussistenza di altre posizioni cui adibire il dipendente.

Secondo l’interpretazione della giurisprudenza, infatti, affinché un licenziamento possa ritenersi giustificato da un motivo oggettivo, devono sussistere da un lato le ragioni giustificatrici della decisione  datoriale  (per  esempio  riorganizzazione,  ristrutturazione  aziendale  etc.)  e  dell’altro l’impossibilità  del  repêchage,  ovverosia  la  controprova  che  la  situazione  tecnico-produttiva dell’impresa non permetta al lavoratore di essere diversamente utilizzato.

Per  queste  ragioni,  il  licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo  è  considerando  come estrema ratio.

Sebbene vi sia la necessità (i.e. obbligo) di verificare la sussistenza di altre possibili mansioni cui adibire il lavoratore, l’obbligo di repêchage non è esente da limiti applicativi. Infatti, non può chiedersi  all’imprenditore  uno  sforzo  economico  irragionevole  né  che  lo  stesso  apporti  delle modifiche organizzative o innovazioni strutturali non volute (Cass n. 31521/2019; sul tema, si vedano  anche  le  pronunce  riferibili  al  licenziamento  del  lavoratore  divenuto  inabile  alla prestazione lavorativa Cass. n. 6497/2021).

E’ però richiesto che la verifica venga fatta anche in relazione a mansioni inferiori che “siano compatibili  con  il  bagaglio  professionale  del  prestatore  (cioè  che  non  siano  disomogenee  e incoerenti  con  la  sua  competenza)  ovvero  quelle  che  siano  state  effettivamente  già  svolte, contestualmente o in precedenza” (Cass. n. 31521/2019).

Strettamente collegato all’obbligo di repêchage è il divieto di procedere a nuove assunzioni per un “congruo periodo“.

L’assenza di nuove assunzioni nel periodo successivo al licenziamento comprova infatti, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, la mancanza di posizioni vacanti ove poter utilmente ricollocare il lavoratore.

Il concetto di “congruo periodo” è stato variamente inteso, come dimostrano le diverse pronunce sul punto. Nella specie, delle volte è stato ritenuto idoneo un arco temporale di tre mesi, altre volte quello di 6 mesi, fino anche ad arrivare a 8 mesi oppure un anno (Trib. Bari n. 11249/2013). Questo aspetto – ma anche ed in ogni caso sul concetto di “congruo periodo” richiamato dalla sentenza in commento – rappresenta il profilo di maggiore incertezza applicativa. Ciò poiché, come ricordato dalla dottrina, la sussistenza del giustificato motivo richiede la contemporanea presenza di tutti gli elementi della fattispecie.

Sulla distribuzione tra il datore di lavoro e il lavoratore degli oneri probatori, i doveri di allegazione e prova in merito al rispetto dell’obbligo di repêchage, la giurisprudenza ha fornito importanti indicazioni.

L’orientamento giurisprudenziale consolidatosi per primo riteneva che gravasse sul lavoratore che impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo l’onere di indicare le posizioni  alle  quali  lo  stesso  avrebbe  potuto  essere  utilmente  adibito  (tra  le  tante,  Cass.  n. 19923/2015; Cass. n. 3040/2011).

Solo successivamente, la Corte di Cassazione, mutando il proprio orientamento, ha affermato che  “spetta  al  datore  di  lavoro  l’allegazione  e  la  prova  dell’impossibilità  di  repêchage  del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di  un  onere  di  allegazione  al  riguardo  del  secondo,  essendo  contraria  agli  ordinari  principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente” (Cass. n. 5592/2016).

Il datore di lavoro, inoltre, deve fornire prova che per un “congruo periodo” non ha proceduto a nuove assunzioni (ex multis, Cass. n. 6/2013; Cass. n. 6559/2010).

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Non c’è violazione dell’obbligo di repêchage se il lavoratore non vuole trasferirsi in altra sede

Nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica da parte del Giudice del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso, dal quale discende la possibilità di reintegra del dipendente, deve riguardare tanto l’esistenza delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative indicate dall’azienda, quanto la possibilità di ricollocare altrove il lavoratore all’interno della struttura aziendale.  

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 4 maggio 2021, ha raggiunto questa conclusione sul presupposto che, anche se il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, compete allo stesso Giudice il controllo in ordine alla effettività e non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.   

La vicenda sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale è relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente di un’azienda specializzata in servizi fisioterapeutici, motivato da ragioni economiche stante la contrazione del fatturato registrato dalla società datrice di lavoro nei tre anni precedenti. La Società, dunque, riportava nella lettera di licenziamento, la necessità di attuare ”una riduzione dei costi mediante un riassetto organizzativo aziendale per il quale le mansioni espletate [dalla lavoratrice], saranno svolte personalmente dall’amministratore e assorbite dai nuovi sistemi informativi e telematici”. La Società, pertanto, non esistendo, come dalla stessa dichiarato, la possibilità di adibire la dipendente a posizioni equivalenti, la licenziava.

La dipendente impugnava il recesso facendo leva sul fatto che alla base del licenziamento non vi era stato un effettivo riassetto aziendale nonché che l’azienda non aveva compiutamente assolto al c.d. obbligo di repêchage. Chiedeva, dunque, l’accertamento della mancata sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento ex art. 18, commi 4 e 7, dello Statuto dei Lavoratori punito con la reintegrazione nel posto di lavoro oltre 12 mensilità a titolo di risarcimento del danno.

Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, richiamando, in primo luogo, l’orientamento giurisprudenziale per cui il motivo oggettivo di recesso può identificarsi anche soltanto in una diversa distribuzione delle mansioni tra i dipendenti in servizio per la gestione più economica ed efficiente dell’azienda, con la conseguenza che la posizione del dipendente che svolgeva la mansione in modo esclusivo risulti in esubero (Cass. n. 19185/2016 e n. Cass. n. 29238/2017). Al riguardo, prosegue il Tribunale, non basta che i compiti un tempo svolti dal dipendente licenziato siano assegnati ai colleghi ma è necessario che tale riorganizzazione sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un mero effetto.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza del 16 marzo 2021, n. 7360, ha stabilito che il datore di lavoro – laddove il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo si fosse reso disponibile al trasferimento solo in determinate zone – deve provare, per non incorrere nella violazione dell’obbligo del c.d. repêchage, unicamente l’impossibilità di ricollocarlo nelle sedi aziendali site in dette zone.

I fatti di causa

Una lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole a seguito della chiusura dell’unità locale ove era impiegata come store manager.

La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava il ricorso presentato dalla lavoratrice deducendo la mancata violazione dell’obbligo di repêchage, a fronte della disponibilità della stessa ad essere trasferita soltanto in una delle sedi della società datrice di lavoro, site in Campania o nel basso Lazio.

Avverso la decisione dei giudici di merito ricorreva in cassazione la lavoratrice.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte distrettuale e, riprendendo alcuni propri consolidati orientamenti, ha affermato preliminarmente che: “in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, non essendo configurabile sotto il profilo processuale, una divaricazione tra i suddetti oneri (cfr.  sentenza n. 5592/2016; sentenza  n. 12101/2016 e sentenza n. 160/2017).

E per la Corte di Cassazione, tale onere risulta assolto dal datore allorquando riesce a dimostrare di non esserci alcuna possibilità di ricollocare il lavoratore licenziato in una sede ricompresa all’interno del territorio in cui lo stesso si è detto disposto a trasferirsi. Infatti, seppur non incomba sul lavoratore alcun onere di allegazione, una volta che lo stesso circoscrive – nella domanda giudiziale – l’ambito spaziale di interesse, consente al datore di non addure alcunché circa il possibile ricollocamento in sedi site in territori diversi.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ritenendo assolto da parte della società resistente l’onere di dimostrare di non avere alcun posto disponibile in Campania e nel basso Lazio.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1499 del 21 gennaio 2019, ha confermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.

I fatti

Una lavoratrice, assunta presso una società operante nel settore dei servizi assicurativi e turistici e addetta presso l’area banco e biglietteria, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della dismissione dell’area presso cui era impiegata. In alternativa al licenziamento la Società le aveva proposto la trasformazione del rapporto di lavoro da full time in part time, che tuttavia la stessa aveva rifiutato.

La lavoratrice adiva, dunque, il Tribunale del lavoro territorialmente competente affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento intimatole con tutte le conseguenze di legge che ne sarebbero derivate. A fondamento della propria presta la lavoratrice adduceva il fatto che l’offerta di modificare l’orario di lavoro non poteva costituire un valido tentativo di repêchage, avendo peraltro la società assunto una nuova risorsa a tempo pieno a distanza di un anno dal licenziamento, affidandole anche mansioni da lei stessa dapprima espletate.

Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice ma la sua pronuncia veniva riformata dalla Corte di Appello di Ancona adita dalla società.

La Corte di Appello, in particolare, dichiarava legittimo il licenziamento sull’assunto che:

  • la società aveva compiutamente provato l’effettiva dismissione delle attività dell’area banco e biglietteria alle quali era addetta la dipendente;
  • la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro, formulata alla lavoratrice poco prima della intimazione del licenziamento e dalla stessa rifiutata, costituiva prova del tentativo di “repêchage”;
  • nessuna assunzione era avvenuta in sostituzione della lavoratrice, ma la neoassunta in questione aveva sostituito un’altra dipendente.

 

La lavoratrice ricorreva così in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello.

 

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione della Corte distrettuale ritenendo la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time sufficiente a comprovare l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha, altresì, sottolineato come non potesse neppure attribuirsi valore all’assunzione di nuova risorsa, poiché detta assunzione era avvenuta in conseguenza della cessazione di un altro rapporto di lavoro, risolto in un momento successivo alla risoluzione del rapporto della lavoratrice ricorrente.

Conclusioni

Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.