La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 20239 del 14 luglio 2023, si è pronunciata in materia di recesso datoriale ad nutum intimato sulla base di un patto di prova, dichiarato nullo, affermando che, laddove il licenziamento non sia riconducibile ad alcuna delle ipotesi di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015, la tutela applicabile al lavoratore è unicamente indennitaria.

Il caso di specie

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento intimato ad una dipendente per mancato superamento del periodo di prova. Il relativo contratto di lavoro era stato stipulato il 3 agosto 2015 con decorrenza dal settembre successivo e con conseguente applicazione della normativa sui licenziamenti di cui al D.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act).

Nell’ambito dei giudizi di merito veniva accertato che il patto di prova apposto al contratto era da ritenersi nullo per la mancata specificazione delle concrete mansioni alle quale sarebbe stata adibita la lavoratrice e per la mancata indicazione del profilo professionale attribuitole.

Con riferimento alle conseguenze sanzionatorie, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello avevano statuito che le conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale intimato sulla base di un patto di prova nullo non fossero riconducibili alla fattispecie regolata dal comma 2 dell’art. 3 d. lgs. n. 23 del 2015, implicante l’applicazione della tutela reale, ma regolate dal comma 1 dell’art. 3 citato decreto, con applicazione, quindi, della sola tutela cd. indennitaria, in concreto determinata in quattro mensilità della retribuzione globale di fatto.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello, la dipendente proponeva ricorso in Cassazione, articolando diversi motivi di censura della sentenza resa in sede di gravame.

La dipendente ha infatti, in primo luogo, sostenuto che in carenza di un valido ed efficace patto di prova il licenziamento intimato per mancato superamento della stessa avrebbe dovuto essere dichiarato nullo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015.

In via subordinata, la lavoratrice ha censurato la sentenza per avere la Corte d’Appello ritenuto applicabile la tutela di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015 in luogo della tutela reintegratoria attenuata, ai sensi del secondo comma dell’art. 3 della norma sopra citata.

La Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dalla dipendente sulla base di plurimi rilievi.

La Corte ha innanzitutto osservato che la nullità della clausola del patto di prova, essendo parziale, non estende i suoi effetti all’intero contratto, ma determina la definitiva assunzione sin dall’inizio, in conformità con quanto previsto dall’art. 1419, comma 2, cod.civ..

Da ciò consegue, da un lato, il venir meno il regime della libera recedibilità e, dall’altro, che il recesso datoriale dovrà equipararsi ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

Ebbene, prosegue la Corte, nel sistema introdotto dal D.Lgs. 23/2015, la concreta fattispecie non potrà essere ricondotta nell’ambito delle nullità di recesso disciplinate dall’art. 2 del citato decreto, essendo tale norma applicabile esclusivamente “all’ipotesi di licenziamento discriminatorio e agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.

Esclusa l’applicazione dell’art. 2, la Corte ha conseguentemente esaminato l’art. 3 del c.d. Jobs Act, al fine di verificare la tutela applicabile al caso di specie.

La Cassazione ha rilevato come, nell’impianto normativo del legislatore del Jobs Act, la tutela reintegratoria assuma un carattere meramente residuale, essendo applicabile solo alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015).

Ne consegue – prosegue la Suprema Corte – che il recesso ad nutum intimato senza un valido patto di prova, non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al secondo comma sopra citato, è da ritenersi assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria di cui all’art. 2, comma 1, D.Lgs. 23/2015.

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Con la recente sentenza del 21 marzo 2023, il Tribunale di Forlì ha confermato la legittimità della clausola penale apposta alla lettera di assunzione per il caso in cui il lavoratore non prenda servizio alla data di inizio dell’attività lavorativa concordata dalle parti, anche quando l’assunzione sia soggetta ad un periodo di prova.

I fatti di causa

Una società stipulava con un dirigente una lettera di impegno all’assunzione soggetta a un periodo di prova di sei mesi. La lettera di impegno conteneva la seguente clausola: “Qualora Lei non prendesse effettivo servizio alla prevista data del 15 ottobre 2020, per Sua iniziativa e/o per qualsiasi motivo a Lei imputabile, Lei sarà tenuto a versare alla nostra Società, a titolo di penale, una somma corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso prevista in caso di licenziamento dal Contratto Collettivo applicato. Il pagamento alla nostra società dovrà avvenire entro e non oltre 10 giorni dal verificarsi dell’atto di violazione della clausola di rispetto della data concordata di presa servizio. Verificandosi tale fattispecie, il presente contratto dovrà ritenersi definitivamente risolto di diritto”.

Circa un mese prima della data prevista per l’inizio dell’attività lavorativa, il dirigente informava la Società della propria intenzione di non procedere all’assunzione.

La Società ricorreva per ingiunzione avanti al Tribunale di Forlì che, nell’accogliere la domanda, emetteva decreto ingiuntivo per l’importo dalla penale pattuita dalle parti.

Avverso il decreto ingiuntivo, il dirigente proponeva opposizione sulla scorta dei seguenti motivi:

  1. la comunicazione del dirigente di non voler procedere con l’assunzione doveva qualificarsi come atto di recesso dal contratto di lavoro e il relativo recesso doveva considerarsi svincolato da qualsiasi conseguenza, in quanto il contratto prevedeva un periodo di prova, durante il quale vige il regime di libera recedibilità ai sensi dell’art. 2096 c.c;
  2. il dirigente aveva comunicato la propria decisione con congruo preavviso tale da evitare un effettivo pregiudizio alla società. L’assenza di danno in capo alla società avrebbe dovuto comportare, secondo la difesa del dirigente, l’assenza del diritto alla corresponsione della penale o, in via subordinata, la riduzione equitativa della stessa ai sensi dell’art. 1384 c.c.

La sentenza resa dal Tribunale di Forlì

Il Giudice del Lavoro di Forlì, nel rigettare l’opposizione del dirigente, ha confermato il decreto ingiuntivo emesso.

Il Tribunale ha fondato il proprio convincimento sulla differenza intercorrente tra la stipulazione del contratto e l’inizio del rapporto, individuando tale secondo momento come rilevante per poter invocare il regime speciale di libera recedibilità previsto per il periodo di prova.

La disciplina dell’art. 2096 c.c. inizia infatti ad operare solo con l’effettiva presa di servizio e a condizione che le parti abbiano consentito l’esperimento che forma oggetto della prova, elementi che, nel caso di specie, non si erano verificati per via del rifiuto del dirigente. Tale rifiuto non poteva dunque qualificarsi come recesso in prova bensì come inadempimento dell’obbligo di prendere servizio alla data prestabilita.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Giudice ha quindi ritenuto infondata l’eccezione di incompatibilità della penale con la previsione del patto di prova. Le due previsioni, infatti, “hanno oggetto e finalità differenti e, nel caso di specie, sono volte a tutelare due momenti differenti del rapporto di lavoro”.

Il Giudice ha poi ritenuto irrilevante la tempestività della comunicazione del ripensamento da parte del dirigente in quanto “invocata da una parte contrattuale che è in ogni caso inadempiente e che è tenuta come tale a risarcire il danno ad essa imputabile”.

Da ultimo, con riferimento alla quantificazione della penale, il Tribunale ha disatteso altresì la domanda di riduzione equitativa ex art. 1384 c.c., articolata in via subordinata dal dirigente, sottolineando come questa non risultasse eccessiva né al momento della pattuizione né alla data dell’inadempimento, avendo la società dimostrato di aver sostenuto costi rilevanti per far fronte all’impatto organizzativo determinato dalla scopertura in un ruolo strategico (Direttore Amministrativo).

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Il recesso dal patto di prova: profili di legittimità

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022, ha affermato che la specificazione delle mansioni oggetto del patto di prova può avvenire anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo, sempreché il rimando sia sufficientemente specifico.

I fatti di causa

La pronuncia della Suprema Corte trae origine da una sentenza della Corte di Appello di Trento che aveva confermato la sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso presentato da una lavoratrice affinché venisse accertata la nullità del patto di prova apposto al suo contratto di lavoro e la conseguente nullità del recesso intimatole per mancato superamento della prova. Nel caso di specie la lavoratrice era stata assunta come “addetto ai lavori non rientranti nel ciclo produttivo» e inquadrata nel “livello I 3” del CCNL di settore, ovvero il CCNL Gomma e Plastica.

Secondo la Corte d’Appello, il rimando al CCNL non conferiva specificità alle mansioni assegnate alla lavoratrice poiché la previsione collettiva menzionava fra i compiti riconducibili a detto livello i “lavori analoghi a lavori di pulizia», senza ulteriore specificazione o esemplificazione.

A parere della Corte territoriale, ulteriore elemento di incertezza – in relazione ai compiti richiesti e sui quali doveva essere verificato l’esito della prova – era rappresentato dalla clausola acclusa al contratto individuale secondo cui “mansioni e obiettivi verranno in seguito specificati e faranno parte integrativa del contratto”. Questa clausola, secondo la Corte d’Appello, non era riconducibile, come sostenuto dalla società, all’ambito del potere conformativo del datore di lavoro estrinsecantesi attraverso ordini di servizio.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, in primo luogo, ribadito che la causa del patto di prova deve essere individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, “in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.

Questa esigenza di specificità delle mansioni oggetto del patto di prova, “è funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito che deve essere effettuata in relazione alla prestazione e mansioni di assegnazione quali individuate nel contratto individuale”.

Inoltre, ad avviso della Corte, sebbene sia in astratto possibile integrare la clausola del patto di prova mediante il rinvio ai contenuti della qualifica e del livello di inquadramento del CCNL, è necessario che “il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”. Ma, nel caso di specie, il rinvio al CCNL non era idoneo a conferire specificità al contenuto delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova della lavoratrice. Ciò in quanto la declaratoria collettiva relativa alla posizione professionale di inquadramento evocava fra i compiti di possibile adibizione, accanto a quelli di pulizia, lavori agli stessi “analoghi”.  Espressione questa che, ad avviso della Corte, “ampliava in maniera indefinita l’ambito delle mansioni in concreto riconducibili al livello considerato”.

In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società, condannandola alle spese di lite.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9789 del 26 maggio 2020, ha affermato che la clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore. Pertanto, essa deve essere sostituita di diritto ai sensi dell’art. 2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro.

I fatti di causa

La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso depositato da un lavoratore per l’accertamento della nullità del patto di prova della durata di 6 mesi apposto al contratto di lavoro prima della partenza dello stesso per la Colombia, in quanto di durata maggiore rispetto a quella del CCNL di riferimento.

Il giudice di prime cure e la Corte di Appello rigettavano la domanda del lavoratore asserendo che la maggiore durata del periodo di prova appariva giustificabile considerate le maggiori difficoltà di inserimento del dipendente in un contesto lavorativo di un Paese diverso e distante dall’Italia.

Quindi, nella fase di merito veniva considerata legittima, in quanto sostenuta da ragioni plausibili, la clausola derogatoria e peggiorativa della durata del patto di prova prevista dal contratto individuale di lavoro rispetto a quella del CCNL di riferimento.

Il lavoratore soccombente ricorreva così in cassazione per la riforma della sentenza.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte adita, con riferimento alla doglianza relativa alla durata del patto di prova, ha innanzitutto precisato di aver già avuto modo di affermare “con la sentenza n. 8295 del 2000, che la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui all’art. 10 della legge n. 604 del 1966 – può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova”.

A ciò, la Suprema Corte ha aggiunto che per la validità e la legittimità del patto di prova, l’ordinamento nazionale richiede la forma scritta ad substantiam. Onere questo a tutela del contraente più debole – il lavoratore – e a garanzia di quest’ultimo che al più può essere vincolato ad un patto di prova di durata minima o in ogni caso tale da non superare il periodo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale. (Cass. 5 marzo 1982 n. 1354; Cass.25 ottobre 1993 n. 10587). Ne deriva, quindi, a dire dei giudici di legittimità, “in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali”.

La Corte ha così concluso che, nel caso di specie, la clausola acclusa al contratto recante un periodo di prova maggiore rispetto a quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore è sfavorevole per il lavoratore e, come tale deve essere sostituita di diritto ai sensi dell’art. 2077, secondo comma, cod. civ. Ciò in quanto il datore di lavoro non ha dimostrato le ragioni a sostegno della maggiore durata del patto di prova rispetto a quella prevista dal CCNL di riferimento.

A fronte di tutto quanto sopra, l’impugnata sentenza della Corte d’Appello è stata cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione, per il riesame del merito alla luce dei principi sopra esposti.

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