La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, ha statuito che per la validità del licenziamento per superamento del periodo di comporto “per sommatoria” occorre la specifica indicazione delle giornate di assenza per malattia, alle quali non sono computabili le assenze ingiustificate.

I fatti di causa

Una dipendente della Prefettura di Udine aveva impugnato il licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, eccependo che nell’atto espulsivo non vi era l’indicazione corretta dei giorni conteggiati e sommati.

Il Tribunale adito, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, aveva dichiarato il licenziamento illegittimo e condannato il Ministero alla sua reintegra.

Il Ministero aveva così impugnato la sentenza dinanzi la Corte di Appello di Trieste, la quale confermava la pronuncia di primo grado, avvallando il principio per cui se il datore di lavoro indica nel provvedimento di recesso le giornate di assenza del lavoratore, non può successivamente modificarle o aggiungerne altre.

Nel caso di specie, il periodo indicato dal Ministero per assenza per malattia era di 472 giorni complessivi (considerando il c.d. comporto per sommatoria) e, dunque, era inferiore al periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva e fissato in 484 giorni. Ciò in quanto, nel periodo indicato dal Ministero erano stati ricompresi anche 12 giorni di assenza ingiustificata della lavoratrice e, dunque, non rientranti nel calcolo del superamento del periodo di comporto.

Inoltre, per la Corte di Appello a nulla valeva la dimostrazione in giudizio da parte del Ministero per cui anche i giorni di assenza ingiustificata erano di fatto riconducibili alla malattia della dipendente. Al riguardo, secondo la Corte di Appello, ciò che rilevava era la “incontrovertibilità” dei periodi indicati nella comunicazione di licenziamento, sulla base del principio di immodificabilità dei motivi posti alla base del recesso.

Il Ministero soccombente impugnava così la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito. In particolare, la Corte di Cassazione conferma l’accertamento della Corte territoriale per cui i 12 giorni di assenza ingiustificata contestati non erano computabili ai fini del superamento del periodo di comporto essendo riferiti ad una diversa fattispecie.

A tal proposito, la Corte di Cassazione osserva che, diversamente da quanto preteso dal Ministero, la Corte d’Appello non ha inteso affermare che in caso di superamento del periodo di comporto il datore di lavoro debba indicare già nella lettera di licenziamento i singoli giorni di malattia considerati per il calcolo del comporto e, dunque, con la preclusione di una successiva precisazione da parte del datore medesimo.

Sul punto, la Cassazione afferma che il datore di lavoro, se specifica le assenze prese in considerazione, non può ex post aggiungere ovvero modificare le giornate considerate per il superamento del periodo di malattia consentito della contrattazione collettiva.

Secondo la Corte, infatti, in tema di licenziamento per superamento del comporto, “il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato articolo 2 della legge 604/1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l’onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tuttavia, ciò vale per il comporto cosiddetto “secco” (ovvero un unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore; invece, nel comporto c.d per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorre una indicazione specifica delle assenza computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore”. In definitiva, a parere della Corte di Cassazione, anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per sommatoria vale la regola dell’immodificabilità delle ragioni poste alla base del recesso. Regola questa che costituisce una garanzia del lavoratore il quale, altrimenti, non avrebbe la possibilità di contestare il provvedimento espulsivo intimato nei suoi confronti.

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Il Tribunale di Asti, con ordinanza del 5 gennaio 2022, ha statuito che il periodo di quarantena (ex art. 26, co.1., D.L. 18/2020 ratione temporis applicabile) o di isolamento fiduciario non rileva ai fini del calcolo del periodo di comporto, non solo nei confronti dei soggetti che hanno avuto un contatto stretto con casi di contagio confermati, ma anche nei riguardi dei soggetti risultati positivi al Covid-19. Ciò in quanto impossibilitati per legge a rendere la prestazione lavorativa a prescindere dalla presenza o meno di sintomi legati alla patologia.

I fatti di causa

Nel caso di specie, la lavoratrice, a seguito di contatto con una propria collega risultata positiva al Covid-19, veniva posta dapprima in quarantena e, successivamente, a seguito di esito positivo del tampone effettuato, in isolamento fiduciario. Il datore di lavoro procedeva al suo licenziamento per superamento del periodo di comporto ai sensi del CCNL di settore.

La lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, deducendo che:

  • dai giorni di malattia maturati nell’anno solare andavano dedotti quelli compresi tra il 25 novembre 2020 ed il 4 dicembre 2020, dovendosi tale periodo essere considerato come infortunio sul lavoro, per aver contratto il Covid-19 nel luogo di lavoro da una collega; e, in secondo luogo
  • lo stesso era qualificabile come “quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva” ex art. 26, comma 1, del D.L. 18/2020 che ne prevedeva l’esclusione dal periodo di comporto.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla lavoratrice, il datore di lavoro sosteneva che la tutela prevista dall’art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020 si riferisse soltanto ai periodi di quarantena con sorveglianza attiva o di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva disposta dall’autorità e non anche alle ipotesi in cui il lavoratore avesse contratto l’infezione da Covid-19.

La decisione del Tribunale di Asti

Secondo il Giudice assegnatario della causa, nel periodo di comporto non avrebbero dovuto essere computate le giornate di assenza dovute a quarantena o isolamento fiduciario previsti dal legislatore per contrastare la diffusione del virus.

Il Giudice – nel richiamare l’art. 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020 così come modificato dai successivi interventi legislativi che ne hanno esteso la portata temporale – ha sottolineato come tale disposizione sia stata introdotta con il fine di tutelare quei lavoratori costretti a rimanere assenti dal lavoro poiché sottoposti alle misure di quarantena e di isolamento fiduciario equiparando detta assenza alla malattia ed escludendone la computabilità ai fini del periodo di comporto.

Alla luce di quanto sopra, secondo il Tribunale, nel caso di specie, non avrebbero dovuto essere computati, ai fini del superamento del periodo di comporto, sia i giorni di assenza disposti per quarantena che quelli disposti per isolamento dovuto all’accertamento della positività della lavoratrice al virus.

Si legge, infatti, nella sentenza che “la ratio della norma è quella di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’assenza dal lavoro che sia riconducibile causalmente alle misure di prevenzione e di contenimento previste dal legislatore e assunte con provvedimento dalle autorità al fine di limitare la diffusione del virus Covid-19, in tutte le ipotesi di possibile o acclarato contagio dal virus e a prescindere dallo stato di malattia, che – come ormai noto – può coesistere o meno con il contagio (caso dei positivi asintomatici)” Si continua poi a leggere nella sentenza che ”anche in caso di contagio con malattia, ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre malattie è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione lavorativa e per il datore di lavoro di riceverla per i tempi normativamente e amministrativamente previsti, tempi che – ancora una volta – prescindono dall’evoluzione della malattia ma dipendono dalla mera positività o meno al virus”.

Su tali considerazioni il Tribunale ha accolto il ricorso della lavoratrice, annullando il licenziamento e disponendo (i) la sua reintegrazione nel posto di lavoro nonché (ii) il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione come per legge e oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

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La Corte di cassazione, con ordinanza n. 30478 del 28 ottobre 2021, ha stabilito che il datore di lavoro non è obbligato ad allertare il dipendente inabile al lavoro circa l’imminente raggiungimento del periodo massimo di conservazione del rapporto, né a suggerirgli strumenti alternativi all’assenza per malattia (ferie, aspettativa).

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine dall’impugnazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore secondo il quale la società datrice di lavoro avrebbe dovuto avvisarlo in merito all’imminente scadenza del comporto.

Il Tribunale adito dal lavoratore dichiarava illegittimo il licenziamento mentre la Corte d’Appello riformava la pronuncia di primo grado. Il lavoratore soccombente adiva così la Corte di Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel confermare definitivamente la legittimità del licenziamento, ha osservato che in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, l’impresa non ha l’onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa.

Secondo la Corte di Cassazione, il licenziamento in esame è motivato dall’oggettiva prolungata assenza per malattia, superiore alla durata massima di cui al CCNL di settore e, quindi, dall’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa. Detto licenziamento non ha natura disciplinare e, pertanto, non è necessaria la preventiva contestazione delle assenze. Il datore di lavoro non è, dunque, tenuto a fornire al dipendente l’elenco delle assenze all’atto del licenziamento ma solo se richiesto dopo il licenziamento.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18960 del giorno 11 settembre 2020, ha affermato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non può dirsi tardivo quando il datore di lavoro, prima di intimarlo, attenda un periodo di tempo congruo per svolgere una “prognosi di sostenibilità” delle assenze rispetto al permanere dell’interesse aziendale. Il requisito della tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto, secondo la Corte di Cassazione, non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, dovendo essere oggetto di una valutazione di congruità da operare nel concreto con riferimento all’intero contesto fattuale. Pertanto, anche un lasso di tempo notevole tra il superamento del periodo di comporto e il momento in cui il datore di lavoro decide di intimare il licenziamento deve ritenersi in linea con le previsioni dell’ordinamento. Ciò a condizione che il datore utilizzi questo intervallo intermedio per effettuare una verifica sulla compatibilità della malattia rispetto alla prestazione richiesta al dipendente. E’, sempre a parere della Corte di Cassazione, il lavoratore a dover provare, invece, che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione del recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza sì da far ritenere sussistente la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto di lavoro in essere.

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