Lo scorso 18 maggio 2023, la Corte di Cassazione, sez. pen., n. 21153, ha stabilito che “la valutazione del rischio è funzione tipica del datore di lavoro, non delegabile neppure attraverso il conferimento di una delega di funzioni ad altro soggetto e le eventuali carenze nell’attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva di quest’ultimo”.

Il caso affrontato

La vicenda trae origine da un incidente sul lavoro accorso al dipendente di una società che, mentre era intento a sistemare una catasta di bancali che non era stata ben impilata, veniva colpito – al capo ed alla spalla – dalla catasta rovinata al suolo riportando lesioni da cui era derivata una malattia della durata superiore a 40 giorni.

Sulla vicenda sia il Tribunale di Vercelli sia la Corte di Appello di Torino condannavano l’amministratore unico e datore di lavoro per la sicurezza della società in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p. (“Lesioni personali colpose”) individuando nei suoi confronti degli addebiti di colpa, imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e per non aver valutato il rischio inerente alla realizzazione della catasta di bancali.

Avverso la sentenza d’Appello veniva proposto ricorso per Cassazione, lamentando una violazione della legge in relazione all’affermazione della responsabilità penale. Nello specifico, il ricorrente – ossia il datore di lavoro per la sicurezza – sosteneva che la nomina di un Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (“RSPP”) lo esonerava da eventuali responsabilità. Il RSPP avrebbe dovuto, tra le altre, (i) valutare i rischi collegati alla specifica attività lavorativa in funzione alla delega ricevuta; (ii) formare i dipendenti; (ii) valutare i rischi collegati alla specifica attività e (iii) redigere il Documento di Valutazione dei Rischi (“DVR”).

La Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha affermato che la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito di una struttura aziendale rientra fra gli obblighi specifici che gravano sul datore di lavoro. Tale obbligo, previsto dall’art. 17 del D.Lgs. 81/2008, costituisce infatti un adempimento non delegabile. “Le eventuali carenze nell’attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva, di quest’ultimo”. Chiarendo, sul punto, che una responsabilità in capo al RSPP sorge nelle ipotesi in cui sia possibile ricondurre un evento lesivo ad una circostanza di pericolo che il RSPP avrebbe dovuto conoscere e segnalare e che, invece, ha omesso di fare.

Per tutti questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in quanto manifestamente infondato il motivo.

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In conclusione, sembra possibile poter affermare che un datore di lavoro per la sicurezza è penalmente responsabile se accertato che un episodio lesivo sul lavoro è causato da una mancata e preventiva valutazione del rischio nonché da una mancata e preventiva adozione delle relative misure necessarie a ridurlo o neutralizzarlo.

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Il Decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146​ recante “Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili” (c.d. “Decreto Fisco Lavoro”), convertito con modificazioni dalla Legge 17 dicembre 2021, n. 215, ha apportato, con le prescrizioni contenute nell’articolo 13, alcune novità al D.Lgs. 81/2008 (il c.d. Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”). Una delle principali novità riguarda proprio la figura del preposto. È stato, innanzitutto, precisato all’articolo 18 del D.Lgs. 81/2008 che il datore di lavoro ed i dirigenti “devono individuare il preposto o i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza di cui all’articolo 19”, proseguendo “i contratti e gli accordi collettivi possono stabilire l’emolumento spettante al preposto per lo svolgimento delle attività di cui al precedente periodo”. E all’articolo 19 del D.Lgs. 81/2008, tra gli obblighi in capo al preposto è stato inserito anche quello di “sovrintendere e vigilare sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge nonché delle disposizioni aziendali (…) e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione”. In caso di rilevazione di comportamenti non conformi alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dai dirigenti, il preposto deve, altresì,intervenire per modificare il comportamento non conforme fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza. In caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza dell’inosservanza, interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti”. Peraltro, in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e di ogni altra condizione di pericolo rilevata durante la vigilanza, “se necessario”, il preposto deve interrompere temporaneamente l’attività e, comunque, informare tempestivamente il datore di lavoro e il dirigente delle non conformità rilevate.

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22819/2021, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice che si era rifiutata di recarsi in azienda, su invito del datore di lavoro, poiché non era stata effettuata la visita medica di idoneità preventiva di cui all’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (“Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro”).

I fatti di causa

Una lavoratrice di un operatore ferroviario, al termine di un periodo di aspettativa di dodici mesi per malattia – a sua volta successivo a un protratto periodo di malattia – era stata sollecitata a presentarsi presso gli uffici aziendali, per essere poi sottoposta, nei giorni successivi, a visita medica.

La lavoratrice aveva rifiutato di adempiere all’invito datoriale di recarsi in azienda e, pertanto, il datore di lavoro, dopo averle contestato l’assenza ingiustificata dal servizio, all’esito del procedimento disciplinare le aveva intimato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La Corte d’Appello di Roma aveva rigettato il reclamo proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che a sua volta aveva respinto l’opposizione proposta dalla stessa avverso l’ordinanza di rigetto, ex art. 1, comma 51, Legge 92/2012, della domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità o di illegittimità del licenziamento con preavviso.

Avverso la decisione della Corte di Appello, la lavoratrice aveva proposto pertanto ricorso per Cassazione.

Articolo 41, comma 2, lettera e-ter), del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro

L’articolo 41, comma 2, lettera e-ter) del Testo Unico prevede che la sorveglianza sanitaria comprende la “visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

La Corte d’Appello aveva rilevato che la visita medica preventiva in questione integrava un controllo che la legge non considerava come conditio iuris della ripresa dell’attività lavorativa.

Pertanto, posto che la visita medica preventiva di cui all’art. 41 del Testo Unico non costituiva una condizione per la ripresa al lavoro, secondo la Corte d’Appello il rifiuto a riprendere l’attività lavorativa configurava un’assenza ingiustificata, in rapporto alla quale il licenziamento intimato risultava legittimo.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione adita ha rilevato che la visita medica preventiva di cui all’art. 41 del Testo Unico è volta a verificare l’idoneità alle mansioni e dunque, in primis, il ripristino dell’attività lavorativa in generale e non alla mansione specifica.

La Suprema Corte, richiamando propri precedenti conformi con riferimento ad ipotesi di recesso per giusta causa in presenza di analoghe mancanze, ha affermato che “la norma va letta – secondo un’interpretazione conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità – nel senso che la “ripresa del lavoro” rispetto alla quale la visita medica deve essere “precedente”, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di “idoneità” e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psico-fisica”. Pertanto, “il lavoratore, ove nuovamente destinato alle medesime mansioni assegnategli prima dell’inizio del periodo di assenza, può astenersi ex art. 1460 cod. civ. dall’eseguire la prestazione dovuta, posto che l’effettuazione della visita medica prevista dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro” (Cass. 7566/2020). Di conseguenza, “la loro omissione può anche costituire un grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore ex art. 1460 cod. civ.” (Cass. SS.UU. 22 maggio 2018, n. 12568).

Ciò posto, la Cassazione ha rimarcato che da tale ipotesi va tenuto separato il caso in cui il lavoratore rifiuti preventivamente di presentarsi in azienda.

La Corte di Cassazione ha osservato che, venendo meno il titolo che giustificava l’assenza (come nel caso di specie in cui la lavoratrice aveva superato il periodo di aspettativa richiesto), non può ritenersi consentito al dipendente di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro.

La Suprema Corte ha sottolineato che tale richiesta di presentazione è da considerarsi momento distinto dall’assegnazione alle mansioni, in quanto diretta a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa” (cfr. Cass. 7566/2020).

Sulla base di quanto precede, la Corte di Cassazione ha ritenuto ingiustificato il rifiuto della lavoratrice di presentarsi in azienda ed ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare con preavviso.

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La Corte di Cassazione, IV sezione penale, con la sentenza n. 22256 del 3 marzo 2021 (depositata lo scorso 8 giugno), si è pronunciata sulla sussistenza dei requisiti di interesse e vantaggio dell’ente, nell’ipotesi di reati colposi per violazione della normativa antinfortunistica così come previsto dal D.Lgs. 231/01 in materia di responsabilità amministrativa degli enti.

I fatti di causa

La vicenda riguardava un infortunio sul lavoro subito da un dipendente avente mansioni di autista in un impianto di selezione di rifiuti, il quale sceso dal proprio mezzo – mentre era impegnato e rimuovere il telo di un cassone al fine di consentire lo scarico del materiale proveniente dalla raccolta differenziata – veniva urtato dal muletto di un altro lavoratore, riportando gravi lesioni.

Il Tribunale di primo grado e la Corte d’Appello dichiaravano il datore di lavoro, imputato nel processo, colpevole del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni.  Ciò in quanto le stesse erano state ritenute conseguenti alla violazione del combinato disposto degli artt. 63 e 64, comma 1, D.Lgs. 81/2008 (rubricati rispettivamente “Requisiti di salute e sicurezza” e “Obblighi del datore di lavoro”) per non aver il datore di lavoro organizzato una viabilità sicura regolamentando, con cartellonistica e segnaletica orizzontale, la circolazione nel piazzale esterno dell’impianto di selezione rifiuti, separando le corsie di marcia, indicando i luoghi di stoccaggio e le corsie destinate ai carrelli elevatori e ai pedoni, nonché le aree di manovra dei mezzi.

Inoltre, i giudici di merito dichiaravano sussistente in capo alla società la responsabilità da illecito amministrativo (ex artt. 5, comma 1, lett. a) e 25-septies, comma 3, D.lgs. 231/2001), seppur con riconoscimento di una circostanza attenuante, condannandola al pagamento di una sanzione amministrativa (di euro 12.900,00).

Secondo i giudici di merito, la società era colpevole della mancata valutazione del rischio di infortunio derivante dalle possibili interferenze tra i conducenti dei carrelli elevatori e gli addetti allo scarico del materiale. Responsabilità questa che scaturiva dalla riduzione dei costi per l’attività del consulente per la revisione del DUVRI e dall’aumento della velocità della produzione come conseguenza della mancata adozione delle necessarie misure.

Nei confronti della sentenza d’Appello, viene proposto ricorso per cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha chiarito che (i) i concetti di interesse e vantaggio devono essere riferiti necessariamente alla condotta e non all’evento e, (ii) gli stessi, sono alternativi e concorrenti tra loro. Il requisito dell’interesse deve essere valutato al momento della commissione del fatto mentre quello del vantaggio in un momento successivo, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.

La Corte di Cassazione ha specificato, inoltre, che:

  • il requisito dell’interesse ricorre qualora l’autore del reato abbia consapevolmente violato la norma cautelare allo scopo di conseguire una utilità per l’ente, mentre
  • sussiste il requisito del vantaggio quando la persona fisica viola sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente vantaggio nel profitto.

Alla luce di tali chiarimenti, secondo la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata non ha chiarito le prove da cui abbia desunto il vantaggio conseguito dall’ente, in termini di risparmio di spesa e di accelerazione del processo produttivo. In particolare, a suo parere, il risparmio dei costi risulterebbe esiguo e la società avrebbe assunto un comportamento di generale osservanza delle norme antinfortunistiche.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro persona fisica mentre ha annullato la sentenza nella parte in cui aveva individuato la responsabilità amministrativa dell’ente rinviando alla Corte d’Appello competente in diversa composizione.

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L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali (il “Garante) lo scorso 14 maggio ha pubblicato un documento sul ruolo del medico competente anche con riferimento alla realizzazione dei piani vaccinali per l’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti Covid-19, prevista dal Protocollo nazionale sottoscritto il 6 aprile 2021.

Con tale documento, il Garante chiarisce, innanzitutto, che i compiti assegnati al medico competente assumono la funzione di “misure di prevenzione di carattere generale da attuare, tra le altre, nel rispetto della disciplina di settore in materia di sicurezza sul lavoro, dei principi di protezione dei dati personali, dei protocolli di sicurezza e delle indicazioni di volta in volta fornite dal Ministero della Salute.

Il medico competente deve collaborare costantemente con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione sanitario:

  • nella valutazione dei rischi;
  • nell’individuazione, nell’attuazione e nel perfezionamento delle misure nonché nell’osservanza dei protocolli anti-contagio;
  • nell’informazione e formazione dei lavoratori sul rischio di contagio da SARS-CoV-2;
  • nell’esame dei rischi riguardanti gruppi di lavoratori maggiormente esposti al contagio o in particolari situazioni di “fragilità”.

Considerata la situazione emergenziale ancora in corso, è opportuno che il medico competente prosegua e intensifichi l’attività di sorveglianza sanitaria anche prevedendo ulteriori visite mediche, ad esempio, in occasione del rientro al lavoro dei dipendenti dopo la sospensione delle attività produttive, o in caso di progressivo ritorno delle risorse “in presenza”.

Richiamando quanto già espressamente chiarito con le FAQ (“Frequently Asked Questions”) dello scorso 17 febbraio, il Garante ribadisce che il datore di lavoro deve assicurare che i dipendenti “non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneitàtenendo conto, “delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza” (art. 18, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 81/2008). Nell’ambito delle proprie attività di sorveglianza sanitaria il medico competente è l’unico soggetto legittimato a trattare i dati sanitari dei lavoratori e a verificare l’idoneità alla “mansione specifica” (artt. 25, 39, comma 5, e 41, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008).

Il rispetto del necessario riparto di ruoli e competenze tra datore di lavoro e medico competente, si legge nel documento condiviso, dovrà essere assicurato anche con riguardo alla vaccinazione nell’ambiente di lavoro che – pur avendo origine dalla duplice esigenza di concorrere alla rapida attuazione della campagna vaccinale a livello nazionale e di accrescere i livelli di sicurezza nelle realtà lavorative – resta una iniziativa di sanità pubblica”, in relazione alla quale “la responsabilità generale e la supervisione dell’intero processo rimane in capo al servizio sanitario regionale, per il tramite dell’azienda sanitaria di riferimento”.