Con la sentenza n. 315 del 5 giugno 2025, il Tribunale di Vicenza ha affermato che, ai fini della competenza territoriale, la residenza del lavoratore in remote working può essere rilevante solo se risulta che presso l’abitazione venga svolta in modo stabile e organizzato una parte essenziale dell’attività lavorativa, tale da radicare lì l’esecuzione della prestazione.
Nell’impugnare giudizialmente il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro, il lavoratore – con mansioni di “commerciale esterno” – incardinava il procedimento giudiziale avanti al giudice del luogo in cui risiedeva e dove lo stesso utilizzava il computer portatile e il telefono cellulare consegnatigli dall’azienda.
Nel costituirsi in giudizio, la società datrice eccepiva, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del giudice adito.
A fronte dell’eccezione svolta dalla società resistente, il Tribunale richiamava, in primo luogo, la disposizione di cui all’art. 413 co. 2 c.p.c. che, come noto, collega la competenza territoriale a tre distinti criteri alternativi, ovverosia la circoscrizione in cui (i) è sorto il rapporto, (ii) si trova l’azienda o (iii) una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.
Richiamando la giurisprudenza di legittimità, il Tribunale evidenziava altresì la necessità di interpretare in senso estensivo il concetto di dipendenza aziendale, per consentire “di rendere più funzionale e celere il processo, radicandolo nei luoghi normalmente più vicini alla residenza del dipendente, nei quali sono più agevolmente reperibili gli elementi probatori necessari al giudizio (Cass. n. 506/2019; Cass. n. 6458/2018)“.
Fermo quanto sopra, il Tribunale precisava che, in ogni caso, “occorre pur sempre la sussistenza di un collegamento oggettivo o soggettivo del luogo ove il lavoratore presta la sua opera con la organizzazione aziendale”.
Occorre infatti considerare che quando l’attività lavorativa in remote working possa essere fungibilmente espletata in un luogo qualunque, senza che emerga l’esistenza presso l’abitazione del lavoratore di “alcun altro elemento (o collegamento oggettivo o soggettivo, come sopra evidenziato) che caratterizzasse in qualche modo la abitazione quale dipendenza aziendale, nel senso delineato, allora tale criterio non può essere preso in considerazione ai fini della individuazione della competenza territoriale, residuando unicamente i criteri del luogo di conclusione del contratto (…) oppure della sede ove il lavoratore era addetto (…)”.
Su tali presupposti, il Tribunale di Vicenza – non ritenendo ravvisabili elementi da cui evincere che presso l’abitazione del ricorrente fosse stabilmente organizzata e svolta una porzione fondamentale della sua prestazione, tali da ancorare l’attività a quel luogo in modo sufficientemente solido – ha accolto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla società.
“Il datore di lavoro non può geolocalizzare i dipendenti in smart working”. Lo ha affermato l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali nel comminare una sanzione di 50mila euro ad un’azienda che rilevava la posizione geografica dei suoi dipendenti, selezionati in via casuale, durante le giornate in cui l’attività lavorativa veniva svolta in modalità agile.
Dall’istruttoria effettuata dall’Autorità emergeva che l’azienda era solita effettuare dei controlli volti a verificare l’esatta posizione geografica dei dipendenti connessi da remoto.
Il lavoratore scelto veniva contattato telefonicamente dal collega adibito ai controlli, nel rispetto della fascia oraria di reperibilità, e veniva invitato ad effettuare una doppia timbratura mediante l’applicativo aziendale (oggetto di negoziazione con le rappresentanze sindacali). Subito dopo la telefonata, il dipendente veniva invitato a dichiarare il luogo esatto in cui si trovata tramite e-mail indirizzata al “controllore”. Quest’ultimo procedeva poi alla verifica della rispondenza tra il luogo o i luoghi di lavoro indicati dal lavoratore nel contratto individuale di lavoro agile rispetto a quanto dichiarato tramite e-mail e a quanto risultante dall’applicativo aziendale.
L’Autorità ha, tra le altre, osservato che:
L’eventuale presenza di un accordo con le rappresentanze sindacali costituisce, infatti, condizione necessaria, ma non sempre sufficiente, per assicurare la complessiva liceità del trattamento e il rispetto dei principi di protezione dei dati personali.
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Negli ultimi anni, termini come smart working, lavoro agile o workation sono entrati stabilmente nel lessico lavorativo. Queste nuove modalità di lavoro portano con sé opportunità e competitività, ma anche nuove responsabilità e rischi, soprattutto in termini di salute e sicurezza.
Il concetto di “luogo di lavoro” non è più legato solo ad uno spazio fisico aziendale. Può trattarsi della propria abitazione, una seconda casa, una biblioteca o uno spazio di coworking. La smaterializzazione dello spazio lavorativo pone però degli interrogativi: come deve essere gestita la sicurezza?
Il lavoro agile, regolato dalla Legge n. 81/2017, prevede che il lavoratore sia tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore. Il legislatore, infatti, non ha previsto un trasferimento sul lavoratore dell’onere di prevenzione e protezione di sé stesso.
Il fenomeno del workation – dall’unione di “work” e “vacation” – è forse la rappresentazione più significativa. Sempre più persone scelgono di lavorare da località di vacanza e sempre più aziende lo concedono. L’obiettivo? Unire produttività e benessere. Ma in questi casi i rischi possono essere ancora più complessi: strutture non adeguate, connessioni instabili, postazioni ergonomicamente scorrette, isolamento sociale, confusione tra il tempo lavorativo ed il tempo libero.
In assenza di previsioni normative puntuali, il datore di lavoro deve comunque adottare misure preventive, fornendo indicazioni chiare sull’organizzazione del lavoro, sulla gestione del tempo e sull’allestimento delle postazioni. Mantenere un dialogo costante tra lavoratore e azienda attraverso gli strumenti digitali a disposizione è fondamentale.
Un altro aspetto centrale è la salute psicologica. La mancanza di confini tra vita privata e lavoro, il sovraccarico digitale e la reperibilità costante possono avere effetti negativi sulla salute mentale. In molti casi si adottano misure come: implementazione di attività di formazione sulla gestione del tempo e dello stress, programmi di supporto psicologico, monitoraggio del benessere attraverso survey periodiche.
Il datore di lavoro rimane sempre al centro quale principale responsabile della salute e sicurezza del personale aziendale. I Servizi di Prevenzione e Protezione e i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza devono adattare la loro attività a una popolazione lavorativa (fisicamente) distribuita, utilizzando strumenti digitali per monitorare i rischi e coinvolgere i lavoratori.
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Lo smart working, oltre ad essere uno degli antidoti per contrastare la pandemia, è un valido strumento per incrementare la produttività e migliorare il work life balance. Penso che non assisteremo a un tramonto della modalità lavorativa agile, già divenuta in molte aziende una scelta strutturale, grazie ai suoi vantaggi e resa possibile anche dalla rivoluzione digitale in corso». È l’opinione dell’avvocato Vittorio De Luca, managing partner di De Luca & Partners. «Sin dall’inizio dell’emergenza ho ritenuto che il lavoro agile, sia pure semplificato, dovesse essere accompagnato da una apposita regolamentazione aziendale, poiché coinvolge in modo trasversale diversi istituti normativi, non solo giuslavoristici, quali l’orario di lavoro, il trattamento dei dati, la disconnessione, ma anche profili di cyber security e di sicurezza delle informazioni aziendali».
Quindi le aziende dovrebbero introdurre un’apposita regolamentazione prima della fine dello stato di emergenza? «Certo, per non farsi trovare impreparate all’indomani della fine dello smart working semplificato, è necessario che il datore di lavoro, nell’accordo individuale o in un apposito regolamento aziendale, individui le regole di condotta cui i lavoratori agili devono uniformarsi, così da garantire continuità al ricorso al lavoro agile e limitare il rischio di essere esposti alle pesanti sanzioni».
È necessario introdurre policy che regolamentino il trattamento dei dati personali? «È indubbio che il lavoro agile comporta implicazioni dal punto di vista privacy: lo smart worker può svolgere la prestazione non solo al di fuori dei locali aziendali ma anche al di fuori dell’ambiente domestico. È opportuno che il datore di lavoro una volta individuati i rischi esistenti e potenziali connessi alla tutela dei dati, adotti procedure che regolamentino lo svolgimento dell’attività da remoto anche introducendo strumenti per misurare i risultati, preservando, al contempo, le forme di esercizio del potere datoriale e la sicurezza informatica».
Lo scorso 7 dicembre, le Parti Sociali e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno sottoscritto il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” (il “Protocollo”).
Il Protocollo, come si legge nelle premesse, “fissa il quadro di riferimento per la definizione dello svolgimento del lavoro in modalità agile esprimendo linee di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e/o territoriale nel rispetto della disciplina legale di cui alla legge 22 maggio 2017, n. 81 e degli accordi collettivi in essere, tutto ciò affidando alla contrattazione collettiva quanto necessario all’attuazione nei diversi e specifici contesti produttivi”.
Le principali linee di indirizzo
In primo luogo, il Protocollo chiarisce che l’adesione al lavoro agile deve avvenire su base volontaria e deve essere, in ogni caso, subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale, fermo restando il diritto di recesso. L’eventuale rifiuto del lavoratore di aderire o svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità agile non integra gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, né rileva sul piano disciplinare.
L’accordo individuale deve regolamentare aspetti quali:
Come noto, l’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile non presuppone un preciso orario di lavoro ma, al contrario, una autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati nonché del rispetto dell’organizzazione, delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali. Autonomia che si ritrova anche nella scelta del luogo di lavoro dal quale eseguire la prestazione. Tuttavia, chiarisce il Protocollo: “la prestazione di lavoro […] può essere articolata in fasce orarie, individuando […] la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa”. Non solo, vanno, anche “adottate specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire la fascia di disconnessione”.
Il Protocollo, inoltre, ricorda che, di norma, è il datore di lavoro a fornire la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile. In ogni caso, qualora si concordi l’utilizzo di strumenti propri, è necessario stabilire criteri e requisiti adeguati di sicurezza.
Il Protocollo ribadisce che il lavoratore è tenuto a trattare i dati personali cui accede per fini professionali in conformità alle istruzioni fornite dal datore. Pertanto, al fine di garantire la compliance alla normativa in materia di protezione dei dati personali nonché il rispetto della riservatezza, il datore di lavoro è tenuto a:
Anche in caso di esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile, il datore di lavoro è tenuto a garantire la salute e la sicurezza del lavoratore fornendo, tempestivamente, a quest’ultimo e al RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) una informativa scritta che descriva i rischi generali e specifici connessi alla modalità agile di esecuzione del rapporto di lavoro. Anche da remoto, ribadisce il Protocollo, il lavoratore continua ad avere diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali.
È necessario, infine, che il datore di lavoro (i) preveda percorsi formativi finalizzati a incrementare specifiche competenze tecniche, organizzative, digitali, anche per un efficace e sicuro utilizzo degli strumenti di lavoro forniti in dotazione e (ii) garantisca la formazione obbligatoria in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e di protezione dei dati personali.
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Il Protocollo fornisce delle linee di indirizzo che rappresentano un quadro di riferimento per la futura contrattazione collettiva, nazionale e aziendale e/o territoriale, fermi restando gli accordi in essere anche individuali.
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