Anche spazi esterni, dove occasionalmente o saltuariamente si svolge l’attività lavorativa, vanno considerati “luoghi di lavoro””. Lo ha chiarito il TAR della Toscana accogliendo il ricorso proposto da una società con la quale chiedeva l’annullamento del provvedimento di diniego emesso dall’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente in riscontro all’istanza della ricorrente per l’istallazione di impianti audiovisivi presso lo stabilimento aziendale. 

La vicenda

La vicenda trae origine dalla richiesta presentata da una società all’ITL competente che – come previsto dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/70) – si rivolgeva alla Pubblica Amministrazione a seguito del mancato raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. Nello specifico, la richiesta dell’azienda esponeva che, nonostante la presenza di un impianto di videosorveglianza da tempo installato lungo il perimetro del compendio aziendale, ancora si palesava l’esigenza di installare ulteriori 9 telecamere, da posizionare in una zona periferica dell’impianto industriale, per monitorare il corretto smaltimento dei rifiuti presso le apposite aree di scarico – che vedevano anche la presenza di soggetti esterni all’organigramma aziendale – così da prevenire rischi per la sicurezza dei lavoratori, di incendi e di danni ambientali, oltre che per la tutela del patrimonio aziendale.

Il rigetto dell’Ispettorato si fondava sull’inquadramento delle aree coinvolte come luoghi di lavoro e sulla sproporzione della misura, ritenuta non idonea rispetto ai rischi rappresentati.

La posizione del Tribunale

Il Collegio ha ritenuto fondato il ricorso presentato dall’azienda per le seguenti ragioni:

  • dagli atti emerge che le zone in cui l’azienda vorrebbe installare le 9 videocamere e per le quali chiedeva l’autorizzazione all’Ispettorato sono prevalentemente frequentate da ditte esterne e solo occasionalmente possono essere presenti i dipendenti (al momento del disimpegno di alcune mansioni);
  • anche spazi esterni, dove occasionalmente o saltuariamente si svolge l’attività lavorativa, vanno considerati “luoghi di lavoro”;
  • ma tale circostanza non è da sola sufficiente a sostenere il diniego, valendo in proposito il citato orientamento secondo cui il lavoratore non viene controllato direttamente, ma solo investito dal raggio d’azione della telecamera (Cass. Civ. n. 3045/2025 cit.), non essendo stato accertato dall’Ispettorato, per quanto emerge dagli atti di causa, che i luoghi interessati siano abitualmente frequentati dai dipendenti; ma anzi, per quanto emerge dai documenti allegati dalla ricorrente, tali spazi sono prevalentemente utilizzati da ditte esterne e solo occasionalmente da pochi dipendenti;
  • non risulta che l’Ispettorato abbia ponderato le rappresentate esigenze aziendali, che vanno dal fine di assicurare maggiore sicurezza, anche ambientale, a quello di preservare l’integrità e il decoro del patrimonio aziendale;
  • non è stato considerato che la riservatezza del dipendente è minore negli spazi di lavoro dove vi sono sovrapposizioni con soggetti esterni all’organigramma aziendale (v. Cass. Civ. n. 3045/2025 cit.) e ha altresì obliterato il più ridotto arco temporale (di 72 ore) di archiviazione dei dati registrabili dalle 9 nuove telecamere, a fronte del più lungo tempo (di 96 ore) di archiviazione delle registrazioni dell’impianto già esistente e autorizzato.

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Con sentenza n. 46188 del 26 settembre 2023, la Corte di Cassazione, Sezione 3, si è pronunciata sulla configurabilità del reato di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970 (lo “Statuto dei Lavoratori) affermando che l’installazione di un impianto di videosorveglianza senza l’autorizzazione richiesta dalla legge non configura reato se all’interno dei locali aziendali non vi sono dipendenti e se l’impianto non implica un effettivo controllo sull’attività lavorativa.

I fatti di causa

Il Tribunale di Messina dichiarava penalmente responsabile la titolare di un esercizio commerciale per il reato di cui all’art. 4 della legge 300 del 1970, condannandola al pagamento di 3.000 euro di ammenda per aver installato un impianto di videosorveglianza all’interno del proprio esercizio commerciale in mancanza, nel caso di specie, dell’autorizzazione dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro (“ITL”).

Avverso tale decisione, la titolare presentava ricorso per Cassazione, lamentando, tra le altre, la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori deducendo che il Tribunale adito in primo grado non avesse fornito indicazioni su due elementi centrali della fattispecie di reato, ossia (i) se l’impianto fosse preposto alla registrazione di immagini e (ii) se, presso l’azienda della titolare, fossero impiegati dei dipendenti.

Al riguardo, la ricorrente segnalava che l’impianto installato era a circuito chiuso, non implicando alcuna registrazione di immagini, e che la sua azienda non aveva dipendenti ad organico.

La decisione della Corte di Cassazione

Nel pronunciarsi sul caso di specie, la Suprema Corte ha colto l’occasione per riassumere brevemente le regole e i principi vigenti in materia di videosorveglianza e di controllo a distanza dei lavoratori.

In primo luogo, ha evidenziato che la presenza di dipendenti nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è “requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione”, dal momento che la disposizione di cui all’articolo 4, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori è diretta appunto a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi – e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza – “dell’attività dei lavoratori”.

In secondo luogo, la Cassazione ricorda che non è configurabile alcuna violazione della normativa se un impianto, sebbene installato in difetto di un accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di una autorizzazione dell’ITL, “sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale”, a condizione che (i) “il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti” oppure (ii) “resti necessariamente “riservato” al fine di poter consentire l’accertamento di gravi condotte illecite”.

La pronuncia del giudice di prime cure, però, non ha chiarito se nel caso di specie sussistessero gli elementi di cui ai precedenti punti (i) e (ii), pertanto, la fondatezza di tali presupposti, ha imposto alla Corte l’annullamento della pronuncia con rinvio della sentenza impugnata al medesimo Tribunale in diversa composizione.

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La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza n. 476 del 28 giugno 2021, si è pronunciata sul tema dei controlli a distanza, ritenendo pienamente utilizzabili le videoregistrazioni delle telecamere presenti all’interno dei locali aziendali.

I fatti di causa

Una società (una casa da gioco) aveva utilizzato le immagini raccolte attraverso un sistema di videosorveglianza installato nei locali aziendali, per avviare nei confronti di una dipendente due distinti procedimenti disciplinari.

In particolare, alla lavoratrice, addetta alle casse, veniva contestata una appropriazione di denaro dalla cassa aziendale attraverso vari artifizi, per colmare degli ammanchi, comunque a lei imputabili, nelle attività di pagamento delle vincite della clientela e per realizzare delle plusvalenze a proprio vantaggio.

Il Giudice della fase sommaria aveva ritenuto le videoregistrazioni pienamente utilizzabili in quanto coperte dall’accordo sindacale ai sensi della normativa in materia di controlli a distanza, individuando unicamente un vizio di mera forma nella parte in cui il datore di lavoro aveva mancato di esibire i filmati raccolti nel corso del procedimento disciplinare.

A fronte dell’opposizione proposta dalla lavoratrice, il Giudice adito riformava l’ordinanza della fase sommaria, ritenendo non utilizzabili le videoregistrazioni e quindi non provati gli illeciti, con conseguente condanna della società alla reintegra della lavoratrice nel proprio posto di lavoro (ex art. 18, comma 4 dello Statuto dei Lavoratori).

La società soccombente ricorreva così in appello.

La decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello adita, accogliendo il ricorso della società, ha osservato che:

  • la lavoratrice era stata correttamente informata dell’installazione delle telecamere nei locali aziendali anche in quanto rappresentante sindacale;
  • la stessa spesso aveva assunto un comportamento irregolare ed eclatante attraverso “posture tipiche di chi ha furtivamente sottratto qualcosa e cerca di dissimulare la sottrazione” (comportamento, tra le altre, confermato dai colleghi);
  • i fatti addotti in entrambi i procedimenti disciplinari avviati nei suoi confronti erano stati provati in giudizio sia dai filmati che dalle relazioni scritte e dalle relative allegazioni.

Inoltre, interpretando l’accordo sindacale sottoscritto, la Corte d’Appello ha osservato che le immagini raccolte attraverso il sistema di videosorveglianza installato potevano essere utilizzabili anche a fini disciplinari qualora fossero stati tenuti comportamenti “di particolare rilevanza o gravità”.

Per questi motivi, la Corte di Appello ritenendo il comportamento della lavoratrice “senz’altro grave e idoneo a ledere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro sulla correttezza dei futuri adempimenti”, ha riconosciuto la sussistenza di tutti i presupposti per l’intimazione di un licenziamento per giusta causa.

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Lo scorso 5 dicembre, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali (l’“Autorità”) ha messo a punto delle FAQ (“Frequently Asked Questions”) riguardanti i trattamenti di dati personali effettuati da soggetti pubblici e privati mediante l’uso di impianti di videosorveglianza.

I chiarimenti dell’Autorità tengono conto di quanto introdotto dal Regolamento (UE) 2016/679 in materia di protezione dei dati personali (c.d. “GDPR”) e dalle Linee Guida adottate dal Comitato Europeo per la protezione dei dati (“EDPB”) sul punto.

Le FAQ chiariscono, innanzitutto, che (i) i trattamenti svolti mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza devono essere effettuati nel rispetto del principio di minimizzazione, ciò in relazione alla scelta delle modalità di ripresa e alla dislocazione dell’impianto, e (ii) i dati trattati devono essere pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità perseguite.

Sulla base del principio di accountability (c.d. “principio di responsabilizzazione”), è compito di ciascun Titolare del trattamento effettuare delle valutazioni circa la liceità e la proporzionalità del trattamento, tenendo conto del contesto e delle relative finalità, nonché del rischio per i diritti e le libertà degli interessati.

A parere dell’Autorità, ciascun Titolare del trattamento deve valutare se sussistono i presupposti per effettuare una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (“DPIA”) prima di iniziare il trattamento.

In merito all’informativa da fornire agli interessati, le FAQ precisano che può essere adottato il modello semplificato (c.d. cartello) messo a punto dall’EDPB e diffuso con le sue Linee Guida. Il cartello deve contenere (i) i dati di contatto del Titolare del Trattamento e, qualora presente, del Responsabile della protezione dei dati (DPO); (ii) il periodo di conservazione delle informazioni raccolte nonché (iii) le finalità dei trattamenti effettuati. Il cartello deve essere collocato prima dell’area sorvegliata, in modo che gli interessati possano capire quale zona sia coperta da una telecamera, e deve rinviare ad una informativa completa recante tutte le informazioni di cui all’articolo 13 del GDPR, comprese le indicazioni circa le modalità di presa visione.

L’Autorità ribadisce, altresì, che le immagini registrate dovrebbero essere cancellate dopo pochi giorni (24/48 ore) e che quanto più prolungato è il periodo di conservazione previsto, maggiormente argomentata dovrà essere l’analisi sulla legittimità dello scopo e sulla effettiva necessità di una conservazione più lunga.

Infine, viene ribadito che nei luoghi di lavoro è possibile installare sistemi di videosorveglianza esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, nel rispetto delle garanzie previste dall’ articolo 4 della legge n. 300/1970.

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In conclusione, le FAQ, disponibili sul sito dell’Autorità (www.garanteprivacy.it), contengono indicazioni sui requisiti necessari affinché il trattamento di dati personali effettuato attraverso l’utilizzo di sistemi di videosorveglianza sia lecito.

Le FAQ superano, seppur parzialmente, il precedente “Provvedimento in materia di videosorveglianza dell’8 aprile 2010”, adeguando le previsioni ivi contenute a quanto introdotto dal GDPR e dalle Linee Guida dell’EDPB.

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EDPB: versione preliminare delle linee guida n. 3/2019 sulla videosorveglianza

Il 6 settembre 2019, l’European Data Protection Board (“EDPB”) ha terminato i lavori di consultazione pubblica ai quali è stato sottoposto il documento contenente il draft delle prossime Linee Guida n. 3/2019 riguardanti la videosorveglianza (“Guidelines 3/2019 on processing of personal data through video devices”).

Le immagini e le tracce audio che vengono trattate attraverso l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza, rientrano nella definizione di “dati personali” in quanto permettono l’identificazione, diretta o indiretta, di una persona fisica. I trattamenti effettuati riguardo a tali informazioni, pertanto, devono essere pienamente conformi al Regolamento EU 2016/679 – GDPR – in materia di protezione dei dati personali e (nel rispetto della normativa italiana) e al D.lgs. 196/2003 così come modificato dal D.lgs. 101/2018 recante norme di adeguamento dell’ordinamento nazionale al Regolamento stesso.

Lo scopo che il Comitato Europeo vuole raggiungere con l’emanazione di queste nuove Linee Guida, è quello di garantire un’applicazione uniforme della normativa in materia di videosorveglianza all’interno di tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea.

Ciò premesso, occorre innanzitutto precisare come siano di fondamentale importanza le precisazioni riportate nel draft riguardanti la base giuridica sulla quale si fonda l’installazione dell’impianto.
In linea teorica, è possibile che ricorrano tutte le condizioni di liceità previste dall’articolo 6, par. 1), del GDPR anche se, quelle più applicate nella prassi, sono il legittimo interesse che il Titolare del trattamento necessita di perseguire (art. 6, par. 1), lett. f), GDPR) ovvero l’esecuzione di un compito di interesse pubblico (art. 6, par. 1), lett. e), GDPR).

Il Comitato Europeo chiarisce come il Titolare del trattamento, dovrà specificare dettagliatamente sia la base giuridica sulla quale si fondano i trattamenti posti in essere, sia il dettaglio delle finalità perseguite. Un sistema basato sulla “sicurezza” nella sua nozione più semplice e generica, infatti, non rappresenta più una finalità sufficientemente dettagliata.

Un’altra importante precisazione riguarda le riprese basate sul legittimo interesse. Il trattamento è considerato lecito solamente se tale base giuridica rimane sempre reale, attuale e dimostrabile.

L’Autorità Garante italiana, in diverse occasioni, ha raccomandato ai Titolari del trattamento di utilizzare lo strumento della videosorveglianza in maniera proporzionata e non eccedente e tale approccio è possibile ritrovarlo nel draft delle prossime Linee Guida. Prima di procedere con l’installazione di tali impianti, infatti, il Titolare del trattamento dovrà utilizzare altri strumenti (quali, ad esempio, il supporto da parte di apposito personale addetto alla sicurezza, la dotazione di cancelli telecomandati o di adeguata illuminazione) e dimostrare l’effettiva necessità dell’adozione di un sistema di videosorveglianza. Ciò, prestando particolare attenzione a limitare e definire, sia temporalmente sia geograficamente, le riprese in modo da rispettare costantemente il principio di minimizzazione dei dati personali di cui all’art. 5, punto 1, lettera c) del GDPR.

Ad ogni Titolare del trattamento, viene richiesto di effettuare un bilanciamento tra gli interessi coinvolti analizzando, caso per caso, il legittimo interesse del Titolare da un lato e i diritti e le libertà fondamentali degli interessati dall’altro.

In considerazione di quando sopra, si attende la pubblicazione del testo definitivo delle Linee Guida da parte dell’EDPB le quali rappresentano non solo il primo documento che applica i principi del GDPR ai trattamenti effettuati tramite video riprese ma anche, per l’ordinamento nazionale, il primo nuovo documento in materia dopo il “Provvedimento in materia di videosorveglianza” emanato dal Garante l’08 aprile 2010.