Nella Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2019 n. 304, è stata pubblicata la Legge n. 160 del 27 dicembre 2019, c.d.Legge di Bilancio 2020”, in vigore dal 1° gennaio 2020.

Numerose sono le novità in materia di lavoro, occupazione e previdenza sociale.

Novità in materia di lavoro e occupazione

Una delle principali novità che caratterizzano la Manovra 2020, concerne la riduzione del c.d. “cuneo fiscale” a carico dei lavoratori dipendenti. Viene inaugurata una complessiva riforma del regime Irpef attraverso un progressivo piano di riduzione della tassazione in busta paga che produrrà i suoi primi effetti, in termini economici, a partire dal mese di luglio 2020. Parallelamente e a supporto di tale riforma, è stata prescritta l’istituzione di un Fondo per la riduzione del carico fiscale sui lavoratori dipendenti con una dotazione di 3 miliardi di euro per il 2020 e 5 miliardi di euro a partire dal 2121.

Ciò premesso, si attende di conoscere con certezza i dettagli dei bonus riconosciuti ai lavoratori dipendenti e la possibilità, per le imprese, di rivedere l’ammontare della tassazione sul lavoro. Il testo della Legge di Bilancio 2020, infatti, rimanda all’adozione di un successivo decreto attuativo per disciplinare gli aspetti operativi della Manovra.

Tra le novità apportate, si prevedono nuove soglie di esenzione fiscale sui “buoni pasto” che apportano un limite giornaliero non tassabile di 8 euro per i buoni pasto elettronici e di 4 euro per quelli in formato cartaceo. Per poter usufruire della detassazione introdotta, i buoni pasto devono essere destinati ai lavoratori dipendenti e ai collaboratori la cui remunerazione rientra tra i redditi di lavoro dipendente o, in ogni caso, assimilato.

Con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento, inoltre, si confermano i finanziamenti per l’”Industria 4.0” con la condizione sospensiva che le attività attuate debbano garantire la sostenibilità ambientale. Tra le novità contenute all’interno del pacchetto di misure si segnalano gli interventi a sostegno delle start up e delle piccole e medie imprese purché innovative.

Si riconferma il “Bonus Assunzioni 2020” a supporto del rilancio dell’occupazione dei giovani fino a 35 anni di età. I datori di lavoro che, a partire dal 1° gennaio 2020, assumeranno, con un contratto a tempo indeterminato, dei giovani under 35, potranno beneficiare di un’agevolazione fiscale. Detta agevolazione prevede il versamento del 50% dei contributi INPS obbligatori per i primi 3 anni di durata del contratto e, in ogni caso, fino ad un importo massimo di 3.000 euro all’anno di sgravio fiscale. Della novità in esame, potranno usufruire tutti i datori di lavoro a prescindere dalla Regione in cui hanno la propria sede.

Per i datori di lavoro del Sud Italia, invece, il bonus sale al 100% di sgravio sui contributi obbligatori per i primi 3 anni di durata del contratto (c.d. “Bonus Assunzioni Sud 2020”).

In entrambe le ipotesi, resta ferma la condizione per cui per i primi 6 mesi di attività, il giovane assunto non potrà essere licenziato.

Novità in materia previdenziale In tema previdenziale, invece, (i) si conferma la Riforma “Quota 100” per tutto il 2020 e fino al 31 dicembre 2021; (ii) si rinnova il sussidio economico che conduce alla pensione quelle categorie di lavoratori i quali necessitano di una maggiore tutela, la c.d. “APE Social” e (iii) si proroga la c.d. “Opzione Donna” che prevede, per le lavoratrici pubbliche e private, la possibilità di anticipare la pensione anche per il 2020.

È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 301 del 24 dicembre 2019 la Legge 157/2019 di conversione, con modificazioni, del D.L. 124/2019 (cd. “Decreto Fiscale”). Pertanto, dal 1° gennaio 2020, le aziende che affidano una o più opere o uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a 200.00 Euro ad una impresa – tramite “un contratto di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma” – devono richiedere alla stessa copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute fiscali per i dipendenti direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera/del servizio. Il versamento delle ritenute è effettuato, con distinte deleghe per ciascun committente, senza possibilità di compensazione. Al fine di consentire al committente il riscontro dell’ammontare complessivo degli importi versati, le imprese, entro i 5 giorni lavorativi successivi alla scadenza del  versamento delle ritenute, sono tenute a trasmettergli: (a) le deleghe di pagamento e (b) un elenco nominativo dei dipendenti direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera/servizio nel mese precedente, identificati tramite Codice Fiscale, con il dettaglio delle ore di lavoro prestate da ciascun lavoratore coinvolto, l’ammontare della retribuzione allo stesso corrisposta e il dettaglio delle ritenute fiscali effettuate nel mese precedente, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente. In caso di mancata trasmissione da parte delle imprese o accertato l’omesso o insufficiente versamento delle ritenute, il committente deve sospendere, finché perdura l’inadempimento, il pagamento dei corrispettivi maturati. Ciò sino a concorrenza del 20% del valore complessivo dell’opera/servizio ovvero per un importo pari alle ritenute non versate ma risultanti dalla documentazione trasmessa. Il committente, altresì, è tenuto a darne comunicazione all’Agenzia delle Entrate territorialmente competente entro 90 giorni. Il committente, che non adempie agli obblighi in esame, incorre in una sanzione pari alla sanzione irrogata all’impresa appaltatrice/subappaltatrice. Detti obblighi non trovano applicazione se le imprese hanno comunicato al committente, allegando la relativa certificazione, la sussistenza, nell’ultimo giorno del mese precedente a quello di scadenza, dei seguenti requisiti: (i) siano in attività da almeno 3 anni, in regola con gli obblighi dichiarativi ed abbiano eseguito nel corso dei periodi di imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi e dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; (ii) non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sul reddito, IRAP, ritenute e contributi previdenziali per importi superiori a Euro 50.000, per i quali i termini di pagamenti siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza 21357 del 20 agosto 2019, ha affermato che una azienda non può recedere unilateralmente dal contratto collettivo sottoscritto dall’associazione datoriale cui aderiva prima della sua scadenza. Ciò, quand’anche detto contratto sia divenuto nel tempo troppo oneroso.

 

I fatti

 

La Corte d’Appello di Torino confermava la decisione di primo grado laddove aveva respinto l’opposizione della Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture FILCTEM – CGIL Provinciale di Torino e la riconvenzionale della società datrice di lavoro avverso il suddetto decreto che aveva dichiarato il carattere antisindacale della sua condotta. Condotta questa che era consistita nel non avere informato ed interpellato il sindacato FILCTEM in merito alle trattative sfociate nell’accordo del 13 dicembre 2011, comportante l’estensione a tutti i dipendenti del contratto collettivo del 29 dicembre 2011 nella sua stesura definitiva, concluso con FIM CISL, UILM, FISMIC, UGL ed Associazione Quadri e Capi Fiat.

 

La Corte distrettuale, negando la dedotta antisindacalità, confermava la legittimità della stipula di un nuovo contratto collettivo con le 00.SS. in tutto o in parte diverse (anche per settore – metalmeccanico) da quelle che avevano stipulato il precedente. Nel decidere in tal senso la Corte d’Appello aveva richiamato una pronuncia della Suprema Corte, secondo la quale non esiste nell’ordinamento un obbligo a carico del datore di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le 00.SS., rientrando nell’autonomia negoziale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con 00.SS. anche diverse da quelle che avevano trattato e sottoscritto il precedente.

 

L’addotta ragione della stipulazione del diverso contratto risiedeva nella circostanza che in otto stabilimenti su tredici era applicato il CCNL settore metalmeccanico anche prima del 1° gennaio 2012, cui si aggiungeva il dato che la maggioranza delle 27 RSU dei 5 stabilimenti nei quali veniva applicato il CCNL settore gomma – plastica non era riconducibile alla FILCTEM – CGIL, così come la maggioranza delle 58 RSU di tutti gli stabilimenti.

 

Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione la FILCETEM, affidando l’impugnazione ad un unico motivo cui ha resistito la società con controricorso.

 

La decisione della Corte di Cassazione

 

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della FILCETEM, ha richiamato un consolidato orientamento secondo cui “nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ai sensi dell’art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica, salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori” (cfr. Cass. 8994/2011, Cass. 3296/2002, e Cass. 15863/2002 richiamate da Cass. 25062/2013). Pertanto “non è legittima la disdetta unilaterale da parte del datore di lavoro del contratto applicato seppure accompagnata da un congruo termine di preavviso. Solo al momento della scadenza contrattuale sarà possibile recedere dal contratto ed applicarne uno diverso a condizione che ne ricorrano i presupposti di cui all’art. 2069 c.c. (cfr Cass. 25062/2013).

 

Va riconosciuta al datore di lavoro la facoltà di recedere da un contratto collettivo di diritto comune stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza, atteso che il contratto stesso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti. In caso contrario verrebbe vanificata la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione. Resta inteso che il recesso deve essere esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e non devono essere lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio (cfr Cass. 25 febbraio 1997, n. 1694; Cass. 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass. 20 settembre 2005, n. 18508; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27198; Cass. 20 agosto 2009, n. 18548; Cass. 28 ottobre 2013, n. 24268). Non esiste, invece, una analoga facoltà di recesso anticipato per gli accordi collettivi aventi una durata predeterminata.

 

In considerazione di quanto sopra esposto, ad avviso della Suprema Corte, non può essere ammessa l’applicazione di nuovo CCNL prima della prevista scadenza di quello in corso di applicazione, che le parti si sono impegnate a rispettare.

 

In questo contesto, secondo la Corte di Cassazione, non può essere neanche accolta la tesi della società che un eventuale contratto di secondo livello può dare al datore di lavoro il potere di recedere anticipatamente da un contratto collettivo di livello superiore.

 

Orbene, la Cassazione ha cassato la sentenza e rinviato la causa al tribunale di Torino, in diversa composizione, che provvederà al nuovo esame sulla base di quanto dalla stessa evidenziato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 21628 del 22 agosto 2019, ha affermato che prolungare la pausa pranzo oltre il tempo consentito e non aver completato il lavoro è un comportamento più grave dell’assenza dal lavoro.

 

I fatti

 

Un postino veniva licenziato per essersi “intrattenuto in due occasioni assieme ad altri ben oltre l’orario di pranzo previsto, lasciando al contempo incustodita la posta assegnatagli ed il mezzo in dotazione. Il tutto senza aver completato il suo lavoro per non avere consegnato due plichi”.

 

La Corte d’Appello territorialmente competente aveva confermato la decisione di primo grado, affermando tra le altre che “la condotta risulta posta in essere con chiara consapevolezza nella violazione delle regole aziendali desumibile dalle modalità stesse di svolgimento”.

 

Avverso la decisione di merito il lavoratore ricorreva con due motivi in cassazione, a cui resisteva la società con controricorso.

 

La decisione della Corte di Cassazione

 

Il lavoratore, tra l’altro, eccepiva che l’addebito mosso nei suoi confronti rientrava tra le ipotesi per le quali il CCNL di settore prevedeva una sanzione conservativa. Di conseguenza, il giudice non poteva applicare una sanzione più grave rispetto a quella indicata dalle parti sociali.

 

Questo motivo è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione alla luce dei principi espressi recentemente dalla stessa (v. Cass. n. 12365 del 2019, conf. Cass. n. 14064, 14247, 14248, 14500 del 2019). In particolare, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento può essere dichiarato illegittimo e, quindi, anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dell’art. 18 novellato, comma 4.

 

Secondo la Cassazione, nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dal lavoratore, la Corte d’Appello ha ritenuto il comportamento addebitatogli connotato da una maggiore gravità poiché: “è stato posto in essere assieme ad altri dipendenti ed è stato notato dalla collettività al punto che risulta anche presentato un esposto contro il malfunzionamento del servizio dagli abitanti della zona interessata da cui poi erano scaturite le indagini; nel corso del tempo speso a pranzo oltre la pausa concessa il dipendente avrebbe ben potuto completare le ricerche utili a consegnare i plichi rimasti inevasi; il P., solito a intrattenersi presso il ristorante, aveva lasciato in quelle occasioni del tutto incustodito il mezzo aziendale”.

 

Tali elementi di fatto, a parere della Corte di Cassazione, apprezzati dalla Corte territoriale ed insindacabili in sede di legittimità, “sono certamente idonei ad escludere la riconduzione degli addebiti così come accertati dal giudice di merito alla più generale previsione di abituale negligenza o di abituale inosservanza degli obblighi di servizio punibili con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva”.

 

Ad avviso della Cassazione, è, altresì, corretto l’assunto della Corte di Appello secondo il quale: “l’assenza ingiustificata dal servizio di un dipendente risulta infatti meno grave della condotta di colui che invece pur risultando regolarmente in servizio sceglie di intrattenersi con altri oltre l’orario consentito, senza aver svolto interamente i compiti affidatigli e connaturati alle proprie mansioni”.

 

Orbene, secondo la Cassazione, nella fattispecie in esame si è in presenza di un grave inadempimento degli obblighi contrattuali che gravano sul dipendente, il quale denota un elemento intenzionale particolarmente intenso.

 

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, confermata la legittimità del licenziamento intimatogli e liquidato le spese secondo il principio della soccombenza.