Il verbale di mancata conciliazione può contenere anche la comunicazione formale del licenziamento

Categorie: DLP Insights, Normativa, News, Pubblicazioni | Tag: Licenziamento, Giusta causa di licenziamento

29 Apr 2024

Con l’ordinanza n. 10734 del 22 aprile 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione – prescritto dall’art. 7 della L. n. 604/1966 per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratori assunti prima del marzo 2015 – il datore di lavoro non è tenuto ad inviare al dipendente alcuna lettera di licenziamento, essendo sufficiente l’indicazione della volontà interruttiva del rapporto contenuta nel verbale redatto innanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Il caso di specie

All’esito del tentativo di conciliazione svoltosi avanti l’ITL ai sensi dell’art. 7 L. 604/1966, veniva redatto il verbale di mancata conciliazione, all’interno del quale veniva formalizzata la volontà dal datore di lavoro di procedere al licenziamento della dipendente per giustificato motivo oggettivo.

Successivamente la lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, eccependo, in primo luogo, l’inefficacia dello stesso per mancanza della forma scritta.

Nell’ambito della fase sommaria del c.d. Rito Fornero nonché nella successiva fase di opposizione, il Giudice accertava l’assenza di forma scritta del licenziamento, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio della dipendente.

La Corte d’Appello – adita dal datore di lavoro – riformava la sentenza resa nell’ambito dell’opposizione.

La Corte territoriale statuiva, da un lato, che fosse provata la forma scritta del recesso – e ciò in quanto la volontà di recedere dal rapporto di lavoro era contenuta nel verbale sottoscritto da entrambe le parti a conclusione della procedura ex art. 7 L. n. 604/1966 – e, dall’altro, ritendendo violato il principio di correttezza e buona fede rispetto alla scelta della lavoratrice da licenziare, dichiarava l’illegittimità del licenziamento con condanna del datore di lavoro alle conseguente di cui all’art. 18, comma 7, Stat. Lav..

La lavoratrice impugnava la sentenza avanti la Suprema Corte e la società, nel resistere con controricorso, proponeva, a propria volta, ricorso in via incidentale.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

La Suprema Corte – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, preliminarmente, che la finalità dell’onere della forma scritta del licenziamento risiede nella necessità di mettere a conoscenza il lavoratore dell’atto interruttivo del rapporto.

Tale funzione – prosegue la Corte – viene assolta se la volontà di procedere al recesso sia stata formalizzata dal datore, in una sede istituzionale (come sicuramente è l’Ispettorato del lavoro ove si tiene il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966), all’interno di un verbale sottoscritto anche dal dipendente.

Il dettato normativo del terzo periodo del comma 6 dell’articolo 7 della legge n. 604/1966 (“Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore”) delinea una condizione legale (sospensiva) ed un termine (dilatorio); ragion per cui, una volta avveratasi la prima o scaduto il secondo, il datore di lavoro “può comunicare il licenziamento al lavoratore”.

Con riguardo al significato da attribuire alla condizione legale sospensiva (ossia, al fallimento del tentativo di conciliazione), per la Suprema Corte “già il dato letterale” depone nel senso che il legislatore “abbia attribuito rilievo al fatto obiettivo del fallimento del tentativo di conciliazione piuttosto che al dato cronologico e formale della chiusura del verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione”.

Inoltre, prosegue la Corte, “il tenore testuale della disposizione non impone che la comunicazione del licenziamento, consentita al datore di lavoro «Se fallisce il tentativo di conciliazione», debba intervenire in un contesto differente e successivo a quello del verbale suddetto”.

In questo senso, argomenta il Collegio, “alcuna esigenza di tutela degli interessi del lavoratore potrebbe plausibilmente giustificare l’assunto che la comunicazione del licenziamento al lavoratore debba necessariamente intervenire in un contesto distinto dal verbale redatto in sede d’incontro davanti alla commissione apposita, a patto beninteso che per la comunicazione del licenziamento già espressa in quella sede siano osservate le ulteriori prescrizioni in tema di licenziamento, a cominciare da quella della forma scritta ex art. 2, comma 1, l. n. 604/1966”.

Secondo i Giudici di legittimità, da ciò consegue che, ove il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966 fallisca ed il datore confermi la propria volontà di recedere dal rapporto, non vi è alcuna necessità di inviare successivamente al lavoratore una lettera di licenziamento.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, confermando la debenza esclusivamente di una tutela indennitaria.

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