Analisi e impatti della sentenza della Corte Costituzionale n. 111/2025 che introduce altresì una nuova variabile fattuale nel contenzioso sui licenziamenti, ovverosia lo stato di salute psico-fisica del lavoratore
Con la sentenza n. 111/2025, depositata in data 18 luglio 2025, la Corte Costituzionale ha pronunciato un intervento di notevole impatto sul diritto del lavoro, dichiarando l’illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 6, primo comma, della Legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui non prevede che, qualora il lavoratore si trovi in uno stato di incapacità di intendere e di volere al momento della ricezione della comunicazione di licenziamento o durante il decorso del termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, egli sia esonerato dall’onere della previa impugnazione stragiudiziale e possa impugnare il licenziamento direttamente con ricorso giudiziale (o con la richiesta di conciliazione o arbitrato) da proporsi nel termine di 240 giorni decorrente dalla comunicazione del recesso.
Il quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale consolidato
Per comprendere la portata della sentenza resa dalla Corte Costituzionale, è necessario delineare il contesto normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce.
Il fulcro della disciplina è dettato dall’art. 6 della Legge 15 luglio 1966, n. 604. Nella sua formulazione attuale, frutto delle modifiche introdotte prima dall’art. 32 della Legge n. 183/2010 e poi dall’art. 1, comma 38, della Legge n. 92/2012, la norma struttura l’impugnazione del licenziamento come una fattispecie a formazione progressiva, scandita da una duplice barriera temporale:
- Primo Termine (Impugnazione Stragiudiziale): Il lavoratore deve impugnare il licenziamento “a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta“. L’impugnazione può avvenire “con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore“.
- Secondo Termine (Azione Giudiziale): L’impugnazione stragiudiziale è dichiarata “inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato“.

Il mancato rispetto di anche uno solo di questi termini comporta la decadenza dal diritto di impugnare e, di conseguenza, la stabilizzazione degli effetti del licenziamento, precludendo al lavoratore sia la tutela specifica (reintegrazione) sia quella meramente risarcitoria prevista dalla normativa speciale.
La qualificazione del termine come “di decadenza” è di cruciale importanza. Ai sensi dell’art. 2964 del Codice Civile, la decadenza non è soggetta né a interruzione né a sospensione, salvo che sia disposto altrimenti. Tale principio generale rende il termine per l’impugnazione del licenziamento impermeabile a vicende soggettive che normalmente potrebbero sospendere il decorso del tempo, come la malattia. La ratio dell’istituto è quella di imporre l’esercizio di un diritto entro un tempo predeterminato e breve, al fine di cristallizzare una situazione giuridica incerta.
Il momento da cui decorre il termine di 60 giorni (dies a quo) è la “ricezione” della comunicazione di licenziamento. Essendo il licenziamento un atto unilaterale recettizio, la sua efficacia e la decorrenza dei termini ad esso collegati sono disciplinate dall’art. 1335 del Codice Civile. Tale norma stabilisce una presunzione di conoscenza: “La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”.
È proprio sull’interpretazione di questa norma che si fonda l’orientamento giurisprudenziale consolidato.
Ed infatti, la giurisprudenza di legittimità, a partire da pronunce risalenti (Cass. n. 5563 del 1982), ha interpretato le norme sopra descritte in modo rigoroso e formalistico, privilegiando l’esigenza di certezza.
L’orientamento dominante sposa la cosiddetta “teoria della ricezione” o “della conoscibilità“. Secondo tale interpretazione, ciò che rileva ai fini della produzione degli effetti dell’atto non è la conoscenza effettiva da parte del destinatario, ma la sua mera conoscibilità, la quale è presunta nel momento in cui l’atto giunge al suo indirizzo.
La conseguenza diretta di tale impostazione è che la prova contraria ammessa dall’art. 1335 c.c. (“impossibilità di averne notizia senza sua colpa“) non può vertere su condizioni soggettive del ricevente.
Come evidenziano le Sezioni Unite nell’ordinanza di rimessione alla Consulta, “la prova idonea a vincere la presunzione deve, quindi, riguardare circostanze che attengano non alle condizioni soggettive del ricevente, ma a fattori esterni e oggettivi che, concernendo il collegamento del soggetto con il luogo di consegna, siano idonei a escludere la conoscibilità dell’atto” (Cassazione, SS.UU., ordinanza del 5 settembre 2024, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2024).
Pertanto, lo stato di incapacità di intendere e di volere del lavoratore, essendo una condizione puramente soggettiva e interna alla sua sfera personale, è stato costantemente ritenuto irrilevante ai fini del decorso del termine di decadenza. Il termine inizia a decorrere inesorabilmente dal momento in cui la lettera di licenziamento viene recapitata, a prescindere dal fatto che il lavoratore sia in grado di comprenderne il contenuto e di reagire.
Le Sezioni Unite, nell’ordinanza di rimessione alla Consulta, hanno anche escluso la possibilità di tutelare il lavoratore incapace attraverso l’applicazione dell’art. 428 del Codice Civile, che prevede l’annullabilità degli atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere. La ragione di tale esclusione, ben argomentata nell’ordinanza di rimessione, risiede nel fatto che l’art. 428 c.c. si riferisce ad “atti compiuti“, ovverosia a comportamenti commissivi (es. la firma di un contratto). La mancata impugnazione del licenziamento, invece, è un comportamento omissivo, un “non agire” a tutela dei propri diritti, al quale la norma non è estensibile.
La giurisprudenza ha sempre giustificato tale rigore interpretativo con la necessità di bilanciare gli interessi in gioco. Se da un lato vi è il diritto del lavoratore alla stabilità del posto, dall’altro vi è l’interesse del datore di lavoro “alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa“. L’imposizione di un breve termine di decadenza risponde proprio a questa seconda esigenza, evitando che le decisioni organizzative dell’impresa restino in uno stato di incertezza per un lungo periodo. La decadenza, in quest’ottica, non è una sanzione per l’inerzia colpevole, ma la conseguenza oggettiva del mancato rispetto di un onere procedurale posto a presidio della stabilità dei rapporti economici.
In sintesi, il quadro che emerge è quello di un sistema normativo e giurisprudenziale “granitico”, costruito su tre pilastri:
- La natura decadenziale del termine, che lo rende insensibile a cause di sospensione.
- La presunzione di conoscibilità legata all’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario.
- L’irrilevanza delle condizioni soggettive del lavoratore, inclusa l’incapacità naturale, ai fini del decorso del termine.
È proprio contro la rigidità di questo sistema consolidato che si scaglia l’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite della Cassazione. Pur riconoscendone la coerenza interna e la finalità di certezza, il Collegio rimettente ne mette in dubbio la compatibilità con i principi costituzionali fondamentali (ragionevolezza, uguaglianza, diritto al lavoro, alla difesa e alla salute) quando esso si applica a situazioni estreme di “assoluta incolpevole incapacità di comprendere e di autodeterminarsi“, nelle quali il bilanciamento degli interessi appare manifestamente sproporzionato a sfavore del lavoratore.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione
La sentenza resa della Corte Costituzionale trae origine da una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione in un caso riguardante una lavoratrice licenziata che, a causa di una grave patologia, si trovava in uno stato di incapacità naturale al momento della ricezione dell’atto di recesso e durante la pendenza del termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale.
Il giudice rimettente aveva evidenziato come l’applicazione rigida del termine di decadenza, insensibile alla condizione soggettiva del lavoratore, potesse violare plurimi precetti costituzionali, tra cui:
- l’art. 3 Cost., per manifesta irragionevolezza, in quanto equipara situazioni diverse (quella del lavoratore capace e quella dell’incapace) e sacrifica in modo sproporzionato un diritto fondamentale;
- gli artt. 4 e 35 Cost., che tutelano il diritto al lavoro in tutte le sue forme, diritto che verrebbe vanificato dalla perdita incolpevole della possibilità di contestare un licenziamento illegittimo;
- l’art. 24 Cost., che garantisce il diritto di agire in giudizio, il quale risulterebbe compresso fino alla sua totale elisione da un onere impossibile da adempiere;
- gli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 27, paragrafo 1, lettera c), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e alla direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
La Cassazione aveva quindi chiesto alla Corte Costituzionale di intervenire con una pronuncia additiva che facesse decorrere il termine di decadenza non dalla ricezione dell’atto, ma dal momento del recupero della capacità di intendere e di volere da parte del lavoratore.
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