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Licenziamento per giusta causa: illegittimo il controllo della chat aziendale in assenza di adeguata informazione

Categorie: DLP Insights, Giurisprudenza | Tag: Licenziamento per giusta causa

03 Nov 2021

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25731 del 22 settembre 2021, ha affermato che, in mancanza della preventiva informazione ai sensi dell’articolo 4, co. 3, della Legge n. 300/1970 il datore non può utilizzare ai fini disciplinari i dati rinvenuti all’interno di una chat aziendale in cui un dipendente parla male dei suoi superiori e dei colleghi.

I fatti di causa

Una lavoratrice era stata licenziata per giusta causa in quanto – in occasione di un controllo effettuato dal personale IT al fine di verificare, in ragione della chiusura della chat, se vi fossero dati aziendali da conservare – sarebbe stata rinvenuta una conversazione nella quale la stessa, chattando con un’altra collega, aveva usato toni pesantemente offensivi nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega.

Il Tribunale, prima, e la Corte di Appello, poi, avevano ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa.

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L’articolo 4, Legge 300/1970

L’articolo 4, Legge 300/1970, prevede quanto segue:

1. “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. (…)”

2.  La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (…).

3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.

Per quanto di nostro interesse, quest’ultimo comma prescrive la necessità di informare i dipendenti sulle modalità d’uso e di controllo degli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, installati per le esigenze di cui al primo comma o assegnati per svolgere la prestazione lavorativa di cui al comma 2, affinché i dati raccolti siano utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, ivi inclusi quelli disciplinari.

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La Corte d’Appello di Milano aveva rilevato che l’accesso alla chat effettuato dalla società era illegittimo, in quanto effettuato in violazione del predetto comma 3 avendo la società datrice di lavoro omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti sui controlli e sulle modalità di esecuzione degli stessi.

La società soccombente ricorreva così in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, richiamando le argomentazioni esposte dalla Corte di Appello di Milano, ha affermato che l’accesso alla chat aziendale effettuato dalla società era illegittimo poiché posto in essere in violazione dell’art. 4, co. 3, Legge 300/1970. Invero, secondo la Corte, la chat aziendale è certamente da qualificare come uno strumento di lavoro ai sensi del comma 2 del citato articolo 4. Pertanto, il controllo della stessa sarebbe potuto avvenire solo fornendo ai lavoratori “adeguata informazione delle modalità d’uso” della stessa.

Nel caso di specie, sussisteva un regolamento aziendale che prevedeva la possibilità di effettuare controlli sulla chat in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi. Tuttavia, nessuna preventiva ed adeguata informazione era stata fornita ai dipendenti in merito al controllo in ragione della chiusura della chat ed al conseguente progressivo suo abbandono, né in merito alle modalità di controllo dello strumento. Anzi, nel caso in esame, la comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti.

In aggiunta a quanto sopra, la Suprema Corte, confermando quando affermato dalla Corte territoriale, ha ritenuto che il materiale raccolto non potesse essere utilizzato dal datore di lavoro. Ciò in quanto le conversazioni della dipendente costituivano una forma di “corrispondenza privata svolta in via riservata, rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 della Costituzione”.

Il contenuto riservato delle conversazioni si rinveniva anche dalla circostanza che alla chat era possibile accedere solo con l’uso di una password personale ed i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari, “con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione”.

Inoltre, la Corte ha “escluso un intento denigratorio” della dipendente, ritenendo che, “il contenuto delle e-mail e le espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata”.

Sulla base di quanto precede, la Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte di Appello di Milano, ha ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno in suo favore nella misura di sette mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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