Con la sentenza n. 25167 del 9 luglio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale – ha ribadito che, ai fini della configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs. 74/2000), è necessario accertare non solo la consapevolezza della falsità dell’operazione (dolo generico), ma anche la finalità specifica di evadere le imposte (dolo specifico).
Nel caso in esame, l’amministratore di una società era stato condannato per aver utilizzato, in dichiarazione, fatture relative a un contratto di appalto ritenuto solo formalmente tale, ma in realtà funzionale a mascherare una somministrazione illecita di manodopera.

Tuttavia, la Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata era del tutto carente di motivazione in merito all’elemento psicologico, limitandosi ad affermare l’elusione degli obblighi contributivi e contrattuali, senza alcuna indagine sul fine evasivo.
Richiamando un orientamento consolidato (Cass. n. 37131/2024), la Corte ha sottolineato che l’accertamento del dolo specifico è imprescindibile, costituendo l’elemento soggettivo qualificante del reato. La mera utilizzazione di fatture relative a un contratto apparente – che dissimula una diversa operazione economica – non è sufficiente, in assenza della prova che il contribuente abbia perseguito consapevolmente un indebito risparmio d’imposta. In sostanza, affinché sussista il reato di dichiarazione fraudolenta, occorre provare che il soggetto mirava ad un risparmio (illegittimo) delle imposte dirette e dell’Iva attraverso la diversa tipologia contrattuale.
In conclusione, l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia conferma la necessità, in materia penal-tributaria, di un rigoroso accertamento dell’intenzionalità fraudolenta, che non può essere desunta in via automatica dalla riqualificazione civilistica del rapporto contrattuale.
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