Retribuibile il ‘tempo tuta’ solo se obbligatorio (Modulo24 Contenzioso del Lavoro de Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2022 – Vittorio De Luca, Marco Giangrande)

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25 Mag 2022

La Corte di Appello di Bologna, affermando nella sentenza 12 aprile 2022, n. 315 che nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro soltanto se è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro, e che ciò può derivare o dalla esplicita disciplina di impresa o, implicitamente, dalla natura degli indumenti o dalla funzione che essi devono assolvere, tali da determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro, offre l’occasione per soffermarsi sulle peculiarità degli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni, con particolare riguardo agli indici di eterodirezione

Prima di esaminare nel dettaglio la sentenza della Corte di Appello di Bologna 12 aprile 2022, n. 315 in commento e vedere come la stessa si colloca nel panorama giurisprudenziale di riferimento, appare utile soffermarsi sulla normativa di riferimento.

Normativa di riferimento

Ai sensi del D.lgs. 66/2003 all’art. 1, comma 2, lett. a, per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni“. Pertanto, la nozione di orario di lavoro effettivo non comprende solo la prestazione del lavoratore intesa in senso stretto, bensì anche tutte quelle operazioni che risultano strettamente funzionali alla prestazione e che il dipendente deve necessariamente compiere secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro.

Ormai è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’eterodirezione può desumersi da indici diversi quali l’esplicita disciplina d’impresa o la natura degli indumenti e la specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nella quotidianità (Cass. civ. Sez. lavoro, Ordinanza, 20/06/2019, n. 16604; Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 26/01/2016, n. 1352).

Per quanto riguarda l’esplicita disciplina d’impresa, l’eterodirezione può emergere dall’obbligo aziendale di indossare la divisa nel luogo di lavoro e di lasciare la medesima nei locali aziendali.

In alcuni casi, inoltre, l’eterodirezione può desumersi anche dalla natura degli indumenti da indossare e dalla funzione che essi devono assolvere. Si pensi, ad esempio, al caso delle divise degli infermieri operanti all’interno delle strutture sanitarie: per esigenze di igiene e sicurezza sia dei dipendenti che del pubblico è necessario che le divise siano indossate e dismesse sul luogo di lavoro prima dell’inizio del turno e alla fine senza mai essere portate all’esterno. Si tratta, infatti, di modalità comportamentali imposte da imprescindibili esigenze datoriali (oltre che di tutela della salute pubblica) e che, come tali, sono da considerarsi tempo di lavoro da retribuire, non avendo il lavoratore la possibilità di scegliere di agire diversamente e indossare la divisa a casa (Cass. Ordinanza del 1° luglio 2019, n. 17635).

Analogamente, anche l’inserviente della mensa per ragioni sanitarie deve indossare la divisa in spogliatoi aziendali che siano in contiguità spaziale rispetto alla sede della mensa, a nulla rilevando che la normativa contrattuale non contempli la computabilità dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro

Dunque, è evidente che la particolare natura dell’indumento può costituire un mero indice sussidiario per l’accertamento dell’eterodirezione, fermo restando che il criterio determinante rimane quello della sottoposizione del dipendente a una disposizione pattizia (CCNL o contratto integrativo aziendale) o aziendale (come, ad esempio, un regolamento aziendale o un ordine di servizio) che stabilisca il tempo e il luogo dell’attività di vestizione e dismissione degli abiti.

I fatti di causa e il giudizio di primo grado

Alcuni dipendenti in forza presso un’azienda operante nel settore chimico avevano adito il Tribunale territorialmente competente affinché la stessa venisse condannata al pagamento in loro favore della remunerazione del tempo, pari a 20 minuti giornalieri, che impiegavano per indossare e dismettere la tuta di lavoro, nonché per fare la doccia.

Il Tribunale accoglieva il ricorso, sulla base delle seguenti argomentazioni, secondo cui “la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento“, citando una Ordinanza della Corte di Cassazione che si riferisce però all’attività peculiare degli infermieri (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 07/05/2020, n. 8627).

In forza di tale assunto, il Tribunale riteneva che “il dato dell’eterodirezione relativa alla fase di vestizione e di svestizione può derivare non solo da indicazioni specifiche ma anche implicitamente da un contesto nel quale questa attività deve necessariamente svolgersi in un contesto lavorativo date le caratteristiche dell’attività svolta, e questo indipendentemente dalla circostanza che gli indumenti possano essere considerati DPI o semplicemente indumenti utilizzati per motivi di igiene“.

Secondo il Giudice, quindi, “Tutte le testimonianze ricordate univocamente portano a concludere che nei reparti operativi ci si sporca, il tipo di lavorazione rende l’evento sostanzialmente inevitabile, conseguentemente ritenere che si possa arrivare da casa con i propri vestiti e con gli stessi tornare dopo la conclusione del turno appare una astrazione, indipendentemente dai DPI che, per altro, per le caratteristiche sono tali da escludere un utilizzo esterno all’ambiente lavorativo“.

Di conseguenza, secondo il primo giudice “si può parlare in questo caso di una situazione di fatto nella quale l’attività di vestizione e svestizione nell’ambiente di lavoro è una necessità determinata dall’attività stessa e questo determina che anche senza delle indicazioni univoche ed esplicite di etero-direzione per tali operazioni sia implicitamente necessitato operare questo impegno in ambito lavorativo“, come se la prova dell’eterodirezione fosse in re ipsa, a causa della tipologia di attività.

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