L’emergenza sanitaria in atto dovuta al diffondersi del nuovo Coronavirus, Covid-19, ha portato il legislatore italiano ad imporre ai datori di lavoro il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo. Inizialmente introdotto dal c.d. Decreto Cura Italia, nei mesi a seguire, il divieto in questione è stato prorogato e sottoposto a diverse condizioni dal legislatore. Da ultimo, con l’art. 12, comma 11, del Decreto Legge 137/2020 (c.d. “Decreto Ristori”) il divieto di licenziamento è stato prolungato al 31 gennaio 2021. Tuttavia, il legislatore ha previsto delle eccezioni a tale divieto, tra le quali si annovera la riduzione del personale regolata da accordi collettivi aziendali che prevedano una incentivazione alla risoluzione dei rapporti di lavoro per i dipendenti che vi aderiscono. Le controparti sindacali di tali accordi possono essere le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Si richiama così la nozione di contratto collettivo introdotta dall’art. 51 del D.Lgs. 81/2015 secondo la quale per contratti collettivi si intendono i “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Rispetto, però, a quanto disposto dall’art. 51, viene preclusa la possibilità di stipulare gli accordi in esame alle Rappresentanze Sindacali Unitarie e alle Rappresentanze Sindacali Aziendali per i settori non coperti dagli accordi interconfederali. Ai lavoratori interessati spetta il trattamento di disoccupazione (NASPI).

Alberto De Luca parteciperà in qualità di relatore al convegno “I nuovi strumenti di finanziamento nell’emergenza Covid-19” organizzato da Convenia il prossimo 7 luglio.

LOCATION E ORARI

Martedì 7 Luglio 2020
Evento in videoconferenza

(ore 9.30 – 13.00 / 14.00 – 16.00)

FOCUS

Durante il suo intervento, Alberto De Luca approfondirà i vincoli e gli impegni delle imprese beneficiarie dei finanziamenti nei rapporti di lavoro.

In particolare, l’intervento si focalizzerà sulle seguenti tematiche:

  • impegno a gestire i livelli occupazionali per accordo sindacale: tra condizione sospensiva e risolutiva dei finanziamenti garantiti da SACE
  • criteri di individuazione dei sindacati interessati: rappresentatività e legittimazione
  • adempimento dell’impegno: la tempistica per l’attivazione della contrattazione sindacale
  • violazione della norma: conseguenze logico-giuridiche

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Lo scorso 8 aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. 23/2020 recante misure di sostegno creditizio e fiscale a favore delle imprese aventi sede in Italia (cd. “Decreto Liquidità”). Tra dette misure si annovera la concessione alle imprese di garanzie statali sui prestiti ottenuti dagli Istituti di credito con cui le stesse hanno sottoscritto contratti di mutuo o di finanziamento. La garanzia del credito viene fornita da una società per azioni interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze (“SACE S.p.a.”). Ma tra le numerose condizioni dettate per l’accesso a questa tipologia di garanzia, vi è l’assunzione da parte delle imprese dell’impegno “a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Anche se la formulazione usata dal Governo non è delle più felici, la disposizione prevede un preciso obbligo per le aziende che intendano richiedere la garanzia del credito de quo a gestire eventuali esuberi necessariamente con accordo sindacale. Si tratta comunque di una previsione che pone numerosi problemi interpretativi. Infatti, la stessa (i) non fornisce alcuna indicazione riguardo i requisiti di rappresentatività che devono avere le OO.SS. ammesse a sottoscrivere tali accordi, (ii) non fornisce alcuna indicazione utile ad individuare l’ipotetico oggetto di tali accordi, (iii) non chiarisce cosa si debba intendere con l’espressione “gestione dei livelli occupazionali” e (iv) non chiarisce quali siano le conseguenze del mancato raggiungimento di un accordo sindacale. Si auspicano interventi chiarificatori in sede di conversione in legge del Decreto.         

Il frammentato e spesso criptico quadro normativo di riferimento sta creando lungaggini e difficoltà operative nell’accesso alla cassa integrazione in deroga, che mal si conciliano con la necessità di far fronte ad una situazione emergenziale. Facciamo il punto.

Disposizioni di legge, decreti ministeriali, circolari e accordi quadro si sono espressi in modo non sempre coerente in merito alle concrete modalità di accesso all’ammortizzatore in deroga nell’ambito dell’emergenza epidemiologica in corso e, in particolare, in relazione all’effettiva sussistenza di un obbligo di accordo sindacale aziendale per poter accedere all’integrazione salariale.

Il decreto Cura Italia e gli accordi sindacali

Prendendo le mosse dal Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. “Cura Italia”), si rammenta, a tal proposito, che l’art. 22 – nell’estendere a tutto il territorio nazionale il trattamento in deroga – ha disposto che “le Regioni e le Province autonome […] possono riconoscere, […] previo accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale […] trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga”.

Il successivo  6° comma  del medesimo articolo ha esplicitato, inoltre, che al trattamento in deroga non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, comma 2, disciplinanti – come noto – la procedura semplificata di consultazione sindacale (della durata di 3 giorni) prevista per l’accesso alla cassa ordinaria e all’assegno erogato dal FIS con causale “emergenza COVID-19”.

Dal tenore letterale delle norme sopra citate parrebbe, quindi, che siano le Regioni e le province autonome a dover sottoscrivere un accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale al fine di  definire i possibili beneficiari del trattamento in deroga nel territorio regionale di riferimento, senza ulteriori obblighi di consultazione e sottoscrizione di accordi sindacali in capo alle aziende.

Sennonché, le Regioni – nello stipulare gli accordi quadro ai sensi del citato art. 22 – hanno regolamentato l’accesso alla cassa in deroga con modalità tra loro differenti prevedendo, talvolta, l’obbligatorietà dell’accordo sindacale aziendale quale condizione imprescindibile per l’accesso al trattamento di integrazione salariale.

La posizione delle Regioni

Si richiamano, ad esempio, l’accordo quadro della Regione Piemonte che dispone espressamente che “il riconoscimento del trattamento di integrazione salariale per i datori di lavoro che occupano più di cinque dipendenti è subordinato alla sottoscrizione di un accordo sindacale, da allegare alla domanda di CIGD”, ovvero, ancora, l’accordo quadro dell’Emilia Romagna che prevede che “per accedere alla cassa integrazione in deroga […] i datori di lavoro devono sottoscrivere l’accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale”.

Un approccio diametralmente opposto si ravvisa in altre Regioni – tra le quali la Toscana e Veneto – ove la sottoscrizione dell’accordo sindacale non è prevista quale condizione necessaria per l’accesso alla cassa in deroga, essendo sufficienti una mera informativa e consultazione sindacale.

La circolare dell’Inps

In tale contesto l’Inps – con la circolare n. 47 del 28 marzo 2020 volta a fornire “i primi indirizzi applicativi delle misure straordinarie” introdotte dal D.L. Cura Italia – ha successivamente precisato che “si considera esperito l’accordo di cui all’art. 22, comma 1, con la finalizzazione della procedura di informazione, consultazione ed esame congiunto di cui all’art. 19, comma 1”.

La circolare dell’Inps sopra citata, se da un lato pare aver confermato l’indirizzo interpretativo secondo il quale, ai sensi dell’art. 22 del D.L. “Cura Italia”, l’accordo sindacale aziendale non è necessario per poter accedere alla cassa in deroga, dall’altro – nonostante la propria funzione interpretativa e non normativa – ha introdotto un onere in capo ai datori di lavoro non previsto – anzi esplicitamente escluso – dal D.L. Cura Italia: ed infatti, con un richiamo (verosimilmente non corretto) al 1° comma dell’art. 19, l’Inps ha introdotto, anche per la cassa in deroga, la fase di consultazione sindacale “semplificata” prevista dal Governo per la cassa ordinaria e l’assegno erogato dal FIS.

Le disposizioni del Ministero del Lavoro

Nell’”articolato quadro normativo di riferimento”, in data 8 aprile 2020 è intervenuto il Ministero del Lavoro con la circolare n. 8 finalizzata, come si legge in premessa, a fornire “le prime indicazioni interpretative in materia di concessione di trattamenti ordinari di integrazione salariale e di cassa integrazione in deroga”.

La Circolare prende in esame la Cassa integrazione ordinaria, la sospensione del trattamento di CIGS per Coronavirus e le disposizioni introdotte dal D.L. Cura Italia per la cassa integrazione in deroga.

Con tale disposizione il Ministero ha espressamente previsto – sembrerebbe per le sole aziende plurilocalizzate (ovverosia con unità produttive dislocate in 5 o più regioni e province autonome) – che “le domande (n.d.r. di CIGD) dovranno essere corredate dall’accordo sindacale, come previsto espressamente al comma 1 dell’articolo 1, del D.L. n. 18/2020”.

Pare, quindi, che, da ultimo, il Ministero abbia chiarito, quanto meno per le aziende plurilocalizzate, che sia necessario l’accordo sindacale aziendale per poter presentare la domanda di accesso all’ammortizzatore in deroga, sennonché, con buona pace del tanto atteso chiarimento ministeriale, l’art. 1 del D.L. Cura Italia richiamato dalla recente circolare n. 8/2020 si appalesa non conferente, essendo rubricato “Finanziamento aggiuntivo per incentivi in favore del personale dipendente del Servizio sanitario nazionale”.

Conclusioni

Nell’attuale contesto, sarebbe stato opportuno, se non necessario, prevedere un accesso agli ammortizzatori sociali semplificato, unitario e di immediata attuazione, al fine di garantire la continuità retributiva ai dipendenti ed efficaci strumenti di gestione della situazione di crisi alle imprese.

Inutile evidenziare come il frammentato e spesso criptico quadro normativo di riferimento ha creato e sta creando lungaggini e difficoltà operative che mal si conciliano con la necessità di far fronte ad una situazione emergenziale che necessita di risposte chiare ed immediate per non aggravare il già precario contesto economico di riferimento.

Fonte: Agendadigitale.eu

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 118 del 7 gennaio 2020, in tema id licenziamento collettivo ha affermato, richiamando un proprio consolidato orientamento, che la scelta dei lavoratori da estromettere non può ricadere esclusivamente sul personale addetto al reparto o al settore soppresso o ridotto. Devono, infatti, sussistere oggettive esigenze aziendali alla base della scelta dei destinatari del progetto di ristrutturazione. E l’onere della prova dell’esistenza di tali ragioni ricade in capo al datore di lavoro.

I fatti di causa

Sia il Giudice di prime cure che la Corte d’Appello avevano dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando la società sua ex datrice di lavoro alla corresponsione di venti mensilità a titolo di indennizzo, oltre alla refusione delle spese legali.

A fondamento della decisione la Corte di Appello aveva rilevato che l’accordo sindacale sottoscritto consentiva di ritenere sussistente le ragioni addotte dalla società a dimostrazione della soppressione del reparto cui era addetto il lavoratore in via esclusiva. Tuttavia, questo accordo non poteva considerarsi sufficiente per ovviare all’obbligo di non limitare l’ambito di scelta al reparto soppresso. Secondo la Corte distrettuale la società avrebbe dovuto effettuare la comparazione del lavoratore con i lavoratori addetti agli altri reparti. Ciò in quanto lo stesso aveva dimostrato di possedere molteplici professionalità analoghe ai lavoratori in questione (regola del repêchage) e di avere l’idoneità fisica per essere comparato ad essi. Infine, a parere della Corte, l’indennità risarcitoria ex art. 18 della L. 300/1970 disposta a seguito della risoluzione del rapporto non imponeva la detrazione né dell’aliunde perceptum né dell’aliunde percipiendum.

Avverso la decisione della Corte di Appello, la società soccombente, con un unico motivo, ricorre in cassazione. Il ricorrente resistite con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

Con il motivo di ricorso presentato, la società ha eccepito che (i) in una procedura di licenziamento collettivo non si applica l’obbligo di repêchage e (ii) in presenza di un accordo sindacale, non è necessario procedere alla comparazione con i reparti diversi da quello che si vuole sopprimere.

La Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente, ha, innanzitutto affermato che “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata; con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.

Nel caso di specie, a parere della Corte, era obbligo della società – avendo il lavoratore dimostrato di possedere molteplici professionalità acquisite peraltro nel corso del rapporto di lavoro – effettuare la comparazione dello stesso con gli addetti agli altri reparti rimasti in funzione.

Ciò detto, la Cassazione, sempre richiamando un suo precedente, ha osservato che in materia di licenziamenti collettivi, il datore di lavoro e i sindacati possono sottoscrivere un accordo per disciplinare la collocazione in mobilità dei lavoratori in esubero anche stabilendo delle condizioni difformi da quelli legali purché nel rispetto dei requisiti di obiettività e razionalità. Ciò in quanto l’accordo adempie ad una funzione regolarmente delegata dalla legge.

Tuttavia, nel caso in esame, secondo la Cassazione, l’accordo raggiunto tra le parti non ha rispettato tali requisiti perché esso, nel prevedere il licenziamento del lavoratore, non ha considerato le sue documentate professionalità e le posizioni lavorative che questi avrebbe potuto occupare.

In ragione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la Società al pagamento delle spese processuali.