La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17051 pubblicata il 16 giugno 2021, ha affermato che, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, l’aliunde perceptum frutto di un’attività lavorativa compatibile con quella prestata in favore del datore di lavoro condannato alla reintegra del lavoratore non va dedotto dalla relativa indennità risarcitoria.

I fatti di causa

I fatti di causa traggono origine dalla decisione del Tribunale territorialmente competente, confermata in grado d’appello, circa l’illegittimità di un licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore e al pagamento della relativa indennità risarcitoria.

La sentenza di secondo grado veniva cassata dalla Corte di Cassazione nella parte relativa all’eccezione datoriale di aliunde perceptum con conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello. 

Nel giudizio di rinvio, la Corte d’Appello considerava la documentazione prodotta da parte datoriale non sufficiente a dimostrare lo svolgimento da parte del lavoratore di attività lavorativa a carattere subordinato, in favore di un’altra società dopo il licenziamento.

A seguito dell’ordine di esibizione di idonea documentazione ex art. 210 c.p.c., risultava, invece, che il lavoratore avesse svolto un’ulteriore attività lavorativa a carattere autonomo già prima del licenziamento. 

Da tale assunto, la Corte d’Appello desumeva che l’attività extra-lavorativa e quella svolta nei confronti del datore di lavoro, fossero in realtà tra di loro compatibili, respingendo così l’eccezione formulata dal datore di lavoro in merito all’aliunde perceptum.

Il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione, lamentando che la decisione a cui era pervenuta la Corte d’Appello si fondasse su una circostanza nuova (ossia lo svolgimento di attività lavorativa ulteriore già prima del licenziamento), denunciando peraltro la violazione delle norme sul ragionamento presuntivo.

La decisione della Corte di Cassazione

Tralasciando, per quel che qui interessa, i profili prettamente processuali affrontati dalla Corte di Cassazione, da un punto di vista sostanziale, la stessa ha confermato la decisione della Corte di Appello circa la non deducibilità nel caso di specie dell’aliunde perceptum.

La Suprema Corte, nel richiamare precedenti orientamenti di legittimità, ha infatti ribadito che “In tema di licenziamento individuale, il compenso per lavoro subordinato o autonomo – che il lavoratore percepisca durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento (cosiddetto periodo intermedio) – non comporta la riduzione corrispondente del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se – e nei limiti in cui – quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito di licenziamento, come nel caso ricorrente nella specie in cui il lavoro medesimo sia svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che risulti sospesa”.

Inoltre, nel caso di specie, la Corte di Cassazione non ha individuato nessun vizio in merito al ragionamento presuntivo seguito dalla Corte d’Appello per giungere alla sua decisione. Ciò in quanto «nella prova per presunzioni, ai sensi degli articoli 2727 e 2729 del Codice civile, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che da quel fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit».

Nel caso in esame, prosegue la Corte di Cassazione, la Corte territoriale, con adeguata e logica argomentazione avrebbe sottolineato come la prestazione autonoma resa dal lavoratore, risalisse già all’epoca in cui quest’ultimo svolgeva la propria attività lavorativa alle dipendenze del datore di lavoro che lo aveva licenziato ed in concomitanza con la stessa.

Da ciò ne consegue, secondo la Corte di Cassazione, che, essendo le due attività espletate compatibili, il compenso della attività extra-lavorativa non avrebbe dovuto rilevare ai fini dell’eventuale aliunde perceptum rilevante, in ordine agli aspetti risarcitori, per il licenziamento dichiarato illegittimo.

Altri insight correlati:

L’eccezione di aliunde perceptum è sempre rilevabile d’ufficio, non trattandosi di un’eccezione in senso stretto, e dunque, formulabile anche in appello, purché le relative circostanze di fatto siano state ritualmente acquisite in causa.

Secondo la Cassazione n. 4056 del 16 febbraio 2021 secondo cui: ”il cd. aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è dunque rilevabile d’ufficio dal Giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo. Per tale ragione, l’eccezione di detrazione dell’aliunde perceptum non è subordinata alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino ex actis”.

Quindi l’eccezione di aliunde perceptum:

  • è sempre rilevabile d’ufficio, non trattandosi di un’eccezione in senso stretto,
  • e dunque, formulabile anche in appello, purché le relative circostanze di fatto siano state ritualmente acquisite in causa.

Infatti, il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe alterata nel caso in cui le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25355 del 9 ottobre 2019, ha affermato che il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipendium da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore, è tenuto ad allegare circostanze di fatto specifiche e a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative. L’antefatto che la Suprema Corte ha esaminato, è stato, in estrema sintesi, il seguente. Un liquidatore di sinistri veniva licenziamento dalla Compagnia Assicurativa presso cui prestava la propria attività lavorativa all’esito di un procedimento disciplinare azionato nei suoi confronti per aver tenuto una condotta gravemente colposa. In particolare, al lavoratore era stato contestato di non aver effettuato in 18 episodi, prima di disporre i pagamenti, tutta l’attività propedeutica ed istruttoria necessaria ad accertare il reale verificarsi nonché la dinamica degli accadimenti relativi ai sinistri e delle conseguenti lesioni denunciate. Il Tribunale di Cosenza aveva respinto l’opposizione ex art. 1, comma 51, della L. 92/2012, proposta dal lavoratore e dalla Compagnia assicurativa avverso l’ordinanza emessa nella fase sommaria. Con essa, in parziale accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, era stato dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannata la Compagnia Assicurativa al pagamento di una indennità pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Compagnia assicurativa proponeva reclamo in appello ed il lavoratore si costituiva proponendo reclamo incidentale. La Corte distrettuale riteneva insussistenti i 18 episodi contestati, osservando, peraltro, che “il ragguardevole carico di lavoro attribuito al lavoratore rendesse (comunque) inesigibile (ndr avesse comunque reso inesigibile) la conoscenza delle anomalie che, invero, erano state (asseritamente) rilevate, dalla parte datoriale, solo a seguito di una dispendiosa e merita attività di indagine”. La Corte di appello territorialmente competente accoglieva così il reclamo incidentale del lavoratore ed annullava il licenziamento ad esso intimato, ordinando: – da un lato, alla Compagnia assicurativa di reintegrare il lavoratore e condannandola al versamento, con decorrenza dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegra, dei contributi previdenziali e assistenziali, oltre interessi, – dall’altro, al lavoratore di restituire la somma pari a 8 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori dalla percezione al soddisfo. Non solo. La Corte d’Appello rigettava l’eccezione di compensazione dell’aliunde perceptum o percipendium sollevata da parte datoriale, sostenendo che non erano stati offerti “elementi specifici, idonei a dar conto di un minor danno da risarcire”. Avverso tale sentenza, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso, affidato a quattro motivi, e il lavoratore resisteva con controricorso. Di nostro interesse, si rivela soltanto il quarto motivo di impugnazione con cui l’Impresa di Assicurazione ha denunciato l'”omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la critica afferisce al rigetto dell’eccezione di aliunde perceptum et percipendium; la parte ricorrente imputa alla Corte di Appello di non aver effettuato i necessari approfondimenti al riguardo, come era invece, suo onere”. La Suprema Corte, nel rigettare il predetto motivo di impugnazione, ha, tra le altre, sottolineato come la Corte d’appello avesse fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui “il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum o percipiendum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (ex plurimis, Cass. Nr. 4999 del 2017)”.

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