La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17167/2020, ha considerato legittima la procedura di selezione del personale che richiede ai candidati coinvolti l’esibizione del certificato dei carichi pendenti.

I fatti di causa

I fatti esaminati riguardavano la mancata assunzione da parte di una azienda di un candidato che già in precedenza aveva lavorato presso la stessa in forza di un contratto a tempo determinato. Nello specifico, il lavoratore, allo scadere del primo contratto, aveva manifestato il proprio interesse per una differente posizione per la quale aveva intrapreso l’iter di selezione, sottoscrivendo un “format di dichiarazione di individuazione della posizione lavorativa di interesse”. In esso si dava atto, tra le altre, che l’assunzione sarebbe stata subordinata alla presentazione di tutta la documentazione prevista dal CCNL di settore. Tra la documentazione richiesta dall’azienda vi era il certificato dei carichi pendenti che il candidato si era rifiutato di presentare.

Il Tribunale e la Corte d’Appello aditi dal lavoratore avevano rilevato che il Ccnl di settore non elencava il certificato dei carichi pendenti tra i documenti da presentare durante la fase di selezione. Alla luce di ciò la società non avrebbe potuto considerare la presentazione dei carichi pendenti come condizione ostativa all’assunzione del candidato.

Avverso la decisione di merito la società soccombente ricorreva in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha assunto una posizione opposta rispetto ai giudici di merito, affermando che al datore di lavoro deve sempre essere consentito effettuare una valutazione libera circa l’idoneità del candidato a ricoprire le mansioni richieste per la posizione oggetto della selezione. La determinazione datoriale del requisito di presentazione dei carichi pendenti, secondo i giudici di legittimità, è coerente con i generali principi di correttezza e buona fede che governano lo svolgimento anche della fase precontrattuale nella materia del lavoro. Pertanto, il riconoscimento del diritto di verifica delle idoneità del candidato non può essere limitato dalla mancanza di una specifica previsione del contratto collettivo nazionale applicato al caso di specie.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto, quindi, come legittima la decisione della società di non procedere all’assunzione del candidato, a fronte della mancata consegna del certificato di carichi pendenti. Ciò in quanto quest’ultimo non sarebbe risultato in possesso dei requisiti di idoneità utili a soddisfare le esigenze di affidabilità necessarie a ricoprire la funzione oggetto di selezione.

Secondo i giudici della Corte Cassazione, quindi, il datore di lavoro può unilateralmente formulare la richiesta di presentazione di determinati documenti purché siano funzionali a valutare l’idoneità o meno del candidato rispetto alla posizione da ricoprire. Tale determinazione non è infatti contraria ai principi di correttezza e buona fede che devono governare anche la fase precontrattuale del processo di selezione.

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Emanate le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati

Il 15 settembre 2020 le associazioni sindacali ASSODELIVERY e UGL-RIDER hanno siglato il primo CCNL per la disciplina dei rapporti di lavoro dei ciclofattorini, noti anche come “Rider”.

Al di là di ogni considerazione sui temi di rappresentatività sindacale che stanno alimentando un nutrito dibattito, l’accordo, denominato “Contratto Collettivo Nazionale per la disciplina dell’attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi, c.d. Rider”, è stato raggiunto a quasi un anno di distanza dall’entrata in vigore della Legge n. 128/2019 che introduceva le prime misure per la tutela dei lavoratori della “gig economy”.

Quello dei rider è un rapporto che, secondo le parti firmatarie, deve essere ricondotto nell’alveo del lavoro autonomo. Difatti, l’art. 7 del CCNL definisce il rider come “lavoratore autonomo che, sulla base di un contratto con una o più piattaforme, decide se fornire la propria opera di consegna dei beni, ordinati tramite applicazione.

Tra le principali misure previste si annoverano il riconoscimento di un compenso minimo garantito, sistemi premianti, dotazioni di sicurezza, coperture assicurative, divieto di discriminazione e pari opportunità, tutela della privacy e diritti sindacali, escludendo al contempo la maturazione di istituti tipici del lavoro subordinato quali ad esempio compensi per lavoro straordinario, mensilità aggiuntive, ferie, indennità di fine rapporto.

Entriamo nel dettaglio degli istituti principali.

Trattamento economico

Per quanto concerne gli aspetti di natura economica, il CCNL prevede il riconoscimento in favore dei rider di un compenso minimo (10 euro l’ora) determinato sulla base del tempo “stimato” per l’effettuazione delle consegne che, se inferiore ad un’ora, sarà riparametrato di conseguenza in proporzione al tempo “stimato” per la consegna. Tale compenso non potrà comunque essere inferiore a 7 euro per i primi 4 mesi dall’avvio del servizio di consegna presso una nuova città.

Inoltre, il compenso sarà incrementato in misura variabile dal 10% al 20% a seconda che l’attività si svolga durante l’orario notturno (che decorre dalle ore 24:00 alle ore 7:00), i giorni festivi (nei quali non sono ricomprese le domeniche) o nelle giornate in cui le condizioni metereologiche sono “sfavorevoli”.

Per incentivare i ciclofattorini, invece, il CCNL introduce un sistema premiante in forza del quale le società dovranno riconoscere a ciascun Rider un premio una tantum pari a Euro 600 ogni 2000 consegne nell’anno solare (fino a un massimo di Euro 1.500 per anno solare).

Salute e sicurezza sul lavoro

L’accordo non regolamenta solamente aspetti economici, ma mira anche a preservare la salute e sicurezza dei ciclofattorini, garantendo loro l’applicazione delle disposizioni del Testo Unico Salute e Sicurezza di cui al D.Lgs. 81/2008 e la partecipazione a specifici programmi di formazione.

Ai sensi del CCNL, inoltre, le società di delivery dovranno fornire ai Rider dotazioni di sicurezza come indumenti ad alta visibilità e casco, da sostituirsi ogni con una periodicità prestabilita.

Infine, “normativizzando” una prassi già in parte diffusa, è richiesta a cura della committente l’attivazione di coperture assicurative contro infortuni sul lavoro e malattie professionali nonché contro eventuali danni a cose o persone cagionati in esecuzione dell’attività.

Recesso

Da ultimo, con riferimento alla risoluzione del rapporto è attribuita al Rider la facoltà di recedere unilateralmente dal contratto in qualsiasi momento con effetto immediato, mentre è richiesto al committente di osservare un preavviso di recesso di almeno 30 giorni (salvo il caso di violazione del contratto per dolo o colpa grave) o, in alternativa, e  di riconoscere un’indennità pari alla media dei compensi percepiti.  

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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9789 del 26 maggio 2020, ha affermato che la clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore. Pertanto, essa deve essere sostituita di diritto ai sensi dell’art. 2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro.

I fatti di causa

La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso depositato da un lavoratore per l’accertamento della nullità del patto di prova della durata di 6 mesi apposto al contratto di lavoro prima della partenza dello stesso per la Colombia, in quanto di durata maggiore rispetto a quella del CCNL di riferimento.

Il giudice di prime cure e la Corte di Appello rigettavano la domanda del lavoratore asserendo che la maggiore durata del periodo di prova appariva giustificabile considerate le maggiori difficoltà di inserimento del dipendente in un contesto lavorativo di un Paese diverso e distante dall’Italia.

Quindi, nella fase di merito veniva considerata legittima, in quanto sostenuta da ragioni plausibili, la clausola derogatoria e peggiorativa della durata del patto di prova prevista dal contratto individuale di lavoro rispetto a quella del CCNL di riferimento.

Il lavoratore soccombente ricorreva così in cassazione per la riforma della sentenza.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte adita, con riferimento alla doglianza relativa alla durata del patto di prova, ha innanzitutto precisato di aver già avuto modo di affermare “con la sentenza n. 8295 del 2000, che la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui all’art. 10 della legge n. 604 del 1966 – può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova”.

A ciò, la Suprema Corte ha aggiunto che per la validità e la legittimità del patto di prova, l’ordinamento nazionale richiede la forma scritta ad substantiam. Onere questo a tutela del contraente più debole – il lavoratore – e a garanzia di quest’ultimo che al più può essere vincolato ad un patto di prova di durata minima o in ogni caso tale da non superare il periodo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale. (Cass. 5 marzo 1982 n. 1354; Cass.25 ottobre 1993 n. 10587). Ne deriva, quindi, a dire dei giudici di legittimità, “in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali”.

La Corte ha così concluso che, nel caso di specie, la clausola acclusa al contratto recante un periodo di prova maggiore rispetto a quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore è sfavorevole per il lavoratore e, come tale deve essere sostituita di diritto ai sensi dell’art. 2077, secondo comma, cod. civ. Ciò in quanto il datore di lavoro non ha dimostrato le ragioni a sostegno della maggiore durata del patto di prova rispetto a quella prevista dal CCNL di riferimento.

A fronte di tutto quanto sopra, l’impugnata sentenza della Corte d’Appello è stata cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione, per il riesame del merito alla luce dei principi sopra esposti.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21537/2019, ha dichiarato illegittima la disdetta unilaterale del CCNL applicato, operata dal datore di lavoro prima della sua naturale scadenza, anche se accompagnata da un congruo preavviso. Tale potere spetta alle sole parti che hanno sottoscritto il CCNL, ossia alle associazioni sindacali e datoriali. Secondo la Corte di Cassazione, al singolo datore di lavoro non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo la sua eccessiva onerosità, derivante da una propria situazione di difficoltà economica. Pertanto il datore di lavoro è vincolato al CCNL quand’anche si dissoci dall’organizzazione sindacale di appartenenza. Il datore di lavoro ha, invece, la facoltà di recedere dal Ccnl stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Ciò in quanto il contratto non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti non si consentirebbe lo sviluppo delle relazioni industriali, andando a vanificare la causa nonché la funzione sociale della contrattazione collettiva. Resta inteso che il recesso deve essere esercitato nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede e senza ledere i diritti intangibili dei lavoratori. Ed in questo caso, a parere della Corte di Cassazione, non sussiste un obbligo a carico del datore di trattare e stipulare il Ccnl con tutte le organizzazioni sindacali. Rientra nell’autonomia negoziale di parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente.  

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 28285 del 4 novembre 2019 , (i) ha stabilito che, per ricorrere alla somministrazione di manodopera, è necessario che siano puntualmente indicati gli elementi di fatto in ossequio dei quali il giudice abbia la possibilità di verificare l’effettività della causale non essendo sufficiente il mero riferimento a “punte di intensa attività” e (ii) ha precisato che il contratto collettivo può ampliare ma non introdurre divieti ulteriori rispetto a quelli enunciati dal comma 5, art. 20, D.Lgs. n. 276/2003. La vicenda giudiziale trae origine da un ricorso depositato da un lavoratore presso il Tribunale di Pescara avverso la società somministratrice e quella utilizzatrice affinché venisse accertata l’illegittimità dei contratti di somministrazione e di conseguenza (i) l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la società utilizzatrice e (ii) la condanna quest’ultima al pagamento delle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto, o dall’intervenuta costituzione in mora, fino al ripristino. La Corte territoriale di primo grado accoglieva integralmente le domande del lavoratore riconoscendo la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società utilizzatrice, con il superiore inquadramento – livello B del CCNL applicato, quale assistente tecnico – e condannando la società utilizzatrice al pagamento sia delle differenze retributive sia di un’indennità risarcitoria commisurata a 6 mensilità della retribuzione, calcolata sulla base dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010. La Corte d’Appello dell’Aquila, invece, riformava la sentenza di primo grado, ritenendo tra l’altro che – la causale apposta al contratto di assunzione del lavoratore fosse sufficientemente specifica; – le risultanze istruttorie avevano confermato l’intensificazione dell’attività nel periodo di riferimento; – non vi era stata una violazione della disciplina collettiva posto che il D. Lgs. n. 276/2003 non demandava alla contrattazione collettiva l’individuazione dei divieti aggiuntivi rispetto a quelli enucleati dall’art. 20 del decreto stesso; – era sufficiente, così come previsto dall’art. 20, comma 4 D. Lgs. n. 276/2003, la sussistenza di ragioni tecnico produttive organizzative sostitutive ordinarie dell’utilizzatore per giustificare il ricorso alla somministrazione, non essendo necessariamente richiesta che l’attività dedotta in contratto fosse straordinaria ed eccezionale; – erano da considerarsi legittime proroghe fondate sulla causale originaria del contratto di somministrazione. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione sulla base di due motivi: il primo con il quale denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 20, c. 4, dell’art. 21, c. 1, lett. c) e c. 4 e dell’art. 27, c. 1, D.Lgs. n. 276/2003, il secondo con il quale denunciava la violazione e falsa applicazione del CCNL applicato come integrato dal Protocollo d’Intesa 26.7.2007. La Suprema Corte accoglieva solo il primo motivo di ricorso, precisando che le ragioni per cui si procede con la somministrazione di manodopera devono essere esplicitate nella loro fattualità, in modo da rendere indiscutibile e palese l’esigenza addotta dall’utilizzatore e il rapporto causale tra la stessa e l’assunzione del singolo lavoratore somministrato.

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