Con la recente ordinanza n. 1584 del 19 gennaio 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della fattispecie del licenziamento per “scarso rendimento”, stabilendo che a fondamento dello scarso rendimento non possono essere posti comportamenti già precedentemente oggetto di separati procedimenti disciplinari.
Lo scarso rendimento consiste in un inadempimento del lavoratore alla sua obbligazione principale, che è quella di svolgere la prestazione lavorativa, e si configura, quindi, come un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. È la giurisprudenza che, negli anni, ha identificato specifici e determinati limiti entro cui il licenziamento per scarso rendimento può dirsi legittimo.
Una dipendente di una compagnia ferroviaria impugna il licenziamento intimato nei suoi confronti motivato da “scarso rendimento ovvero da insufficienza imputabile a colpa del lavoratore nell’adempimento delle funzioni del proprio grado”.
Il Tribunale di Bologna, in accoglimento dell’opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, che il lavoratore aveva proposto contro l’ordinanza del medesimo Tribunale, dichiara illegittimo il licenziamento, applicando a favore del lavoratore la c.d. tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma quarto, L. n. 300/1970.
Analogamente, anche la Corte d’appello di Bologna dichiara illegittimo il licenziamento, confermando integralmente la sentenza del Tribunale e condannando la società al pagamento, in favore del lavoratore, delle ulteriori spese processuali.
I Giudici di merito giungono alla conclusione che l’atto espulsivo in questione era basato esclusivamente su precedenti contestazioni disciplinari, a carico del lavoratore, già sanzionate con misura non espulsiva, senza che la società datrice di lavoro avesse ulteriormente dedotto, sul piano oggettivo, un rendimento inferiore alla media del dipendente e, sul piano soggettivo, l’imputabilità colpa dell’agente, determinata da imperizia, incapacità e negligenza.
Rilevano, infine, che la violazione del principio ne bis in idem, con le precedenti consumazioni del potere disciplinare, si traduceva nella sostanziale insussistenza del fatto contestato posto alla base del licenziamento.
La Società, dunque, impugna la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.
Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito relativamente alla illegittimità del licenziamento.
In primo luogo, i Giudici di Cassazione ribadiscono un principio giurisprudenziale ormai consolidato in tema di scarso rendimento per cui la fattispecie di realizza, sul piano oggettivo, per un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, sul piano soggettivo, per l’imputabilità a colpa del lavoratore.
Per tale motivo, prosegue la Corte, lo scarso rendimento non può essere dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe un’indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite.
Per i Giudici di legittimità, dunque, non è consentito al datore di lavoro esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica, come invece fatto – a parere della Cassazione – dalla società ferroviaria. Il datore di lavoro, infatti, ha posto alla base nel provvedimento espulsivo esclusivamente precedenti addebiti disciplinari allo scopo di valutare complessivamente l’applicazione dell’esonero dal servizio previsto dall’art. 27, comma 1, lett. d), del regolamento attuativo, R.D. n. 148/1931 per i rapporti di lavoro degli autoferrotranvieri.
Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, è certamente possibile integrare la nozione di scarso rendimento anche sulla base di una pluralità di condotte, purché le stesse non consistano in plurimi precedenti disciplinari dei dipendenti già sanzionati – con provvedimento di natura conservativa – in passato.
Infine, la Corte di Cassazione ha altresì confermato la decisione della Corte di Appello circa il regime di tutela applicato una volta accertata l’illegittimità del licenziamento. In particolare, i Giudici hanno chiarito che se il fatto non è più sanzionabile, equivale a fatto privo di antigiuridicità e come tale riconducibile alla previsione della L. n. 300/1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92/2012 (cioè la tutela reintegratoria attenuata).
In conclusione, dunque, una volta che, di fronte ad una condotta disciplinarmente rilevante, il datore di lavoro abbia esercitato il proprio potere punitivo, non solo si verifica la consumazione del potere in capo al titolare, sicché lo stesso non può più esercitarlo per il medesimo comportamento, ma allo stesso tempo, il fatto costituente addebito disciplinare non più sanzionabile, perdendo il carattere di illiceità per l’esaurirsi del potere sanzionatorio.
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Con l’ordinanza n. 1965 del 23 gennaio 2023, la Cassazione afferma che, ai fini dell’applicazione della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991, il requisito dimensionale di almeno quindici dipendenti deve essere riferito all’azienda nel suo complesso e non alla singola unità produttiva.
I fatti di causa
Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, la lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo. Il Tribunale di Catania aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento poiché intimato senza l’osservanza della procedura prevista per i licenziamenti collettivi di cui alla L. 223/1991.
La Corte d’Appello di Catania confermava la decisione del giudice di primo grado e, quindi, la reintegra della dipendente.
L’ordinanza della Corte di Cassazione
Gli Ermellini, nel confermare l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice, rilevano che il requisito dimensionale nella procedura di licenziamento collettivo deve essere valutato con riferimento all’azienda nella sua globalità e non alle singole articolazioni territoriali.
Difatti, ad avviso della Corte di Cassazione, da un’interpretazione letterale dell’art. 24 della legge 223/1991, ai sensi dell’art. 12 delle preleggi, emerge la volontà del legislatore in forza del quale il termine “impresa” non è da confondere con in concetto di “unità produttiva” a cui fa riferimento l’art. 18 della Legge 300/70.
Quanto sopra, deriverebbe anche da una diversa ratio delle disposizioni in materia di licenziamento collettivo le quali hanno lo scopo sia di tutelare il lavoratore nella sua individualità ma anche di eliminare o ridurre l’impatto sociale del provvedimento intimato complesso dei lavoratori.
Pertanto, stante la diversità degli interessi tutelati, la L. 223/1991 non può in alcun modo essere sovrapposta all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che, ai fini dell’applicazione della tutela reale, richiede la valutazione del requisito dimensionale nell’unità produttiva di adibizione del dipendente licenziato.
Alla luce dei principi sopra esposti, la Corte ha rigetta il ricorso della società, confermando l’illegittimità del recesso e, il conseguente, diritto del dipendente alla reintegra.
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Con la recente ordinanza del 16 dicembre 2022, il Tribunale di Foggia, nell’ambito della prima fase del c.d. Rito Fornero, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva prestato attività lavorativa a favore di terzi durante la malattia.
Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, il lavoratore si assentava dal lavoro per malattia nei giorni 9 e 10 novembre, inviando poi un secondo certificato di prosecuzione della malattia a copertura dei giorni 11, 12 e 13 novembre.
Durante il periodo di malattia, la società conduceva alcune investigazioni, nel corso delle quali emergeva che il dipendente, nei giorni 10, 11 e 13 novembre, aveva svolto attività lavorativa in un pub gestito dalla moglie.
La società avviava il procedimento disciplinare, contestando al dipendente la simulazione dello stato di malattia, l‘inidoneità della stessa a determinare uno stato di incapacità lavorativa, nonché, ove sussistente la malattia, la ripetuta violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare i tempi di rientro al lavoro.
Nell’articolare le proprie giustificazioni, il dipendente dichiarava che la malattia era stata regolarmente certificata dal proprio medico e che, per mero spirito di collaborazione familiare e in via del tutto eccezionale, il lavoratore acconsentiva ad aiutare sua moglie, precisando che tale attività veniva prestata al di fuori dell’orario di lavoro e senza percepire alcun corrispettivo.
La società, ritenendo di non poter accogliere le giustificazioni rese dal dipendente, intimava allo stesso il licenziamento per giusta causa.
Attraverso una compiuta analisi dei documenti prodotti in giudizio dal datore di lavoro – tra cui la relazione investigativa che descriveva dettagliatamente le attività poste in essere dal lavoratore durante l’assenza per malattia – il Tribunale ha accertato che il comportamento tenuto dal dipendente avesse violato i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione contrattuale.
Ed infatti, analizzando i fatti risultanti dalla relazione investigativa, emergeva che il lavoratore aveva utilizzato – di sera, nel mese di novembre e, dunque, con temperature rigide – un monopattino elettrico per raggiungere il pub, aveva poi servito ai tavoli, preso le ordinazioni e si era trattenuto nel pub fino alle ore 23.
Trattasi di comportamenti che – secondo la valutazione del giudice – hanno dimostrato una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, con conseguente compromissione dell’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta.
Il Tribunale, pertanto, accertando la violazione da parte del dipendente del proprio dovere di osservare tutte le cautele volte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dalla malattia, ha rigettato il ricorso promosso dal dipendente, confermando la piena legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.
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La Suprema Corte ha precisato che le sommarie informazioni rese nell’ambito di un procedimento penale sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale civile manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27680 del 21 settembre 2022, ha statuito che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche sulla base di prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, fornendo adeguata motivazione del relativo utilizzo e senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova. In particolare, la Suprema Corte ha precisato che le sommarie informazioni rese nell’ambito di un procedimento penale sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale civile manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova
Le prove atipiche e i precedenti giurisprudenziali
Il richiamato principio di diritto coinvolge la problematica, dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, relativa all’ammissibilità nel processo del lavoro e, più in generale, nel processo civile ordinario, delle c.d. “prove atipiche”, ovverosia dei mezzi istruttori diversi da quelli previsti e disciplinati dal codice civile e dal codice di rito. ll principio secondo cui il nostro sistema processuale non contiene una norma sulla tassatività dei mezzi di prova è stato più volte affermato in giurisprudenza. In particolare, la Suprema Corte ha statuito che, dall’assenza di una norma di chiusura che indichi un numerus clausus di prove, e tenuto conto del diritto alla prova (quale espressione della garanzia costituzionale del diritto di difesa) nonché del relativo principio del libero convincimento del giudice, “consegue che il giudice può legittimamente porre alla base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo” (Cass. 26 settembre 2000, n. 12763. In termini: Cass. 25 marzo 2004, n. 5965). L’atipicità può riguardare, ad esempio, il fatto che una prova tipica sia stata raccolta in una sede diversa da quella ove viene utilizzata, ovvero che mezzi probatori tipici siano utilizzati con una finalità diversa da quella che tradizionalmente è loro riservata (come avviene nel caso di chiarimenti resi dalle parti al CTU) o ancora può riguardare la modalità con cui la prova viene acquisita al giudizio (come avviene quando vengono depositate in giudizio dichiarazioni scritte provenienti da persone che potrebbero essere assunte come testimoni). L’atipicità si ricollega, quindi, al fatto che la prova non sia predeterminata, vale a dire non sia una prova inclusa tra quelle tipiche previste nel codice o anche nel caso in cui essa sia acquisita in maniera differente rispetto a quanto previsto dal modello legale. Con riferimento alla valutazione di tali prove atipiche, la giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente – come pure avvenuto nel caso di specie – “le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni” (Cass. n. 22020/2007). E’ stato altresì precisato che nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, “il giudice del lavoro può fondare il proprio convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen., potendo la parte contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale” (Cass. n. 132/2008).
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L’Ufficio stampa della Corte Costituzionale lo scorso 25 giugno ha diramato un comunicato per informare che la Consulta ha esaminato, il precedente 24 giugno, le questioni di illegittimità costituzionali sollevate dai Tribunale di Roma e di Bari con riguardo ai criteri di determinazione dell’indennità da corrispondere in presenza di un licenziamento viziato solo da un punto di vista formale e procedurale ex art. 4 del D.Lgs. 23/2015. Nello specifico l’Ufficio ha fatto sapere che è stato dichiarato incostituzionale l’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. Ciò in quanto, a parere della Corte Costituzionale, lo stesso fissa un criterio rigido ed automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio. La Consulta torna così a bocciare il Jobs Act. Si era, infatti, già espressa sul punto nel 2018 allorquando aveva dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015 limitatamente al criterio di determinazione dell’indennità, da riconoscere in caso di licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo, automaticamente e unicamente ancorato all’anzianità di servizio. Si attendono ora le motivazioni della sentenza che saranno depositate nelle prossime settimane.
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