Obbligo di repêchage, occorre valutare anche le posizioni che si renderanno disponibili in un arco temporale prossimo al licenziamento (Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2023 – Stefania Raviele, Chiara Carminati)

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29 Mag 2023

Prima di procedere al licenziamento il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”

Con sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, precisando che nelle valutazioni circa la possibilità  di  ricollocare  il  dipendente  prima  di  procedere  al  licenziamento  (cd.  obbligo  di repêchage), il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso“.

L’obbligo di repêchage nelle pronunce della giurisprudenza

La  fonte  dell’obbligo  di  repêchage  è  rintracciabile  nella  giurisprudenza  che  –  mossa  da un’interpretazione sistematica-adeguatrice dell’art. 3 L. 604/1966 conforme alla Costituzione – ritiene necessario gravare dell’onere di ripescaggio il datore di lavoro e ciò per realizzare “un certo contemperamento tra l’interesse dell’impresa e quello del lavoratore ugualmente protetti dalla normativa costituzionale” (Cass. n. 5777/2003 e Cass. n. 9656/2012).

L’obbligo di repêchage consiste in quell’obbligo posto a carico del datore di lavoro di verificare la sussistenza  di  possibilità  di  ricollocazione,  all’interno  della  stessa  azienda,  del  lavoratore  in esubero o divenuto inidoneo alla prestazione lavorativa che gli era stata assegnata. L’obbligo è direttamente legato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per tale intendendosi quel licenziamento intimato per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare  funzionamento  di  essa,  ovvero  determinato  dalla  “necessità  di  procedere  alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore” (Cass. n. 6026/2012), disciplinato dall’art. 3 L. 604/1966.

In applicazione di tale dovere, dunque, il datore di lavoro che decide di sopprimere una posizione lavorativa, per ragioni di carattere economico o di riorganizzazione aziendale, dovrà dare prova dell’insussistenza di altre posizioni cui adibire il dipendente.

Secondo l’interpretazione della giurisprudenza, infatti, affinché un licenziamento possa ritenersi giustificato da un motivo oggettivo, devono sussistere da un lato le ragioni giustificatrici della decisione  datoriale  (per  esempio  riorganizzazione,  ristrutturazione  aziendale  etc.)  e  dell’altro l’impossibilità  del  repêchage,  ovverosia  la  controprova  che  la  situazione  tecnico-produttiva dell’impresa non permetta al lavoratore di essere diversamente utilizzato.

Per  queste  ragioni,  il  licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo  è  considerando  come estrema ratio.

Sebbene vi sia la necessità (i.e. obbligo) di verificare la sussistenza di altre possibili mansioni cui adibire il lavoratore, l’obbligo di repêchage non è esente da limiti applicativi. Infatti, non può chiedersi  all’imprenditore  uno  sforzo  economico  irragionevole  né  che  lo  stesso  apporti  delle modifiche organizzative o innovazioni strutturali non volute (Cass n. 31521/2019; sul tema, si vedano  anche  le  pronunce  riferibili  al  licenziamento  del  lavoratore  divenuto  inabile  alla prestazione lavorativa Cass. n. 6497/2021).

E’ però richiesto che la verifica venga fatta anche in relazione a mansioni inferiori che “siano compatibili  con  il  bagaglio  professionale  del  prestatore  (cioè  che  non  siano  disomogenee  e incoerenti  con  la  sua  competenza)  ovvero  quelle  che  siano  state  effettivamente  già  svolte, contestualmente o in precedenza” (Cass. n. 31521/2019).

Strettamente collegato all’obbligo di repêchage è il divieto di procedere a nuove assunzioni per un “congruo periodo“.

L’assenza di nuove assunzioni nel periodo successivo al licenziamento comprova infatti, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, la mancanza di posizioni vacanti ove poter utilmente ricollocare il lavoratore.

Il concetto di “congruo periodo” è stato variamente inteso, come dimostrano le diverse pronunce sul punto. Nella specie, delle volte è stato ritenuto idoneo un arco temporale di tre mesi, altre volte quello di 6 mesi, fino anche ad arrivare a 8 mesi oppure un anno (Trib. Bari n. 11249/2013). Questo aspetto – ma anche ed in ogni caso sul concetto di “congruo periodo” richiamato dalla sentenza in commento – rappresenta il profilo di maggiore incertezza applicativa. Ciò poiché, come ricordato dalla dottrina, la sussistenza del giustificato motivo richiede la contemporanea presenza di tutti gli elementi della fattispecie.

Sulla distribuzione tra il datore di lavoro e il lavoratore degli oneri probatori, i doveri di allegazione e prova in merito al rispetto dell’obbligo di repêchage, la giurisprudenza ha fornito importanti indicazioni.

L’orientamento giurisprudenziale consolidatosi per primo riteneva che gravasse sul lavoratore che impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo l’onere di indicare le posizioni  alle  quali  lo  stesso  avrebbe  potuto  essere  utilmente  adibito  (tra  le  tante,  Cass.  n. 19923/2015; Cass. n. 3040/2011).

Solo successivamente, la Corte di Cassazione, mutando il proprio orientamento, ha affermato che  “spetta  al  datore  di  lavoro  l’allegazione  e  la  prova  dell’impossibilità  di  repêchage  del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di  un  onere  di  allegazione  al  riguardo  del  secondo,  essendo  contraria  agli  ordinari  principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente” (Cass. n. 5592/2016).

Il datore di lavoro, inoltre, deve fornire prova che per un “congruo periodo” non ha proceduto a nuove assunzioni (ex multis, Cass. n. 6/2013; Cass. n. 6559/2010).

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