La Corte di cassazione, con l’ordinanza 16382/2021, è tornata a pronunciarsi sulle criticità connesse al rapporto intercorrente tra il trattamento di integrazione salariale e l’indennità giornaliera di malattia. In ossequio a un consolidato orientamento giurisprudenziale, la Corte ha evidenziato che, ove l’intervento ordinario di cassa integrazione si riferisca a un’ipotesi di sospensione dell’attività produttiva e non già di mera riduzione dell’orario, il connesso trattamento di integrazione salariale sostituisce l’indennità giornaliera di malattia con riferimento ai lavoratori assenti perché affetti da stato morboso.

Il caso di specie trae origine dalla domanda giudiziale di una lavoratrice volta a ottenere una declaratoria di nullità della conciliazione intervenuta con l’azienda e, per quanto qui d’interesse, la condanna al pagamento delle differenze retributive per illegittima collocazione in Cig durante la sospensione del rapporto di lavoro per malattia.

Il Tribunale e la Corte d’appello avevano respinto le domande della ricorrente escludendo, in particolare, l’impugnabilità della conciliazione e la consequenziale sussistenza dei prospettati vizi di inesistenza delle reciproche concessioni – essendo intervenuta la conciliazione in sede protetta secondo l’articolo 2113 del codice civile -, nonché la fondatezza della domanda relativa al pagamento delle differenze retributive per illegittima collocazione in Cig a fronte dell’applicabilità, per identità di ratio, della previsione di cui all’articolo 3 della legge 464/1972.

I giudici di legittimità, confermando le pronunce di merito, hanno ripercorso alcuni precedenti giurisprudenziali espressi in materia di transazione affermando, nello specifico, che dalla stessa «debbano risultare gli elementi essenziali del negozio e quindi la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la res dubia, ossia la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi che, mediante le reciproche concessioni, sostituisca quello precedente foriero della lite o del pericolo di lite» (Cassazione 9114/1990, 8917/2016).

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 980 del 17 gennaio 2020, ha chiarito che, nell’ambito di un procedimento disciplinare, lo stato di malattia non può essere di per sé sufficiente a giustificare l’impossibilità a presenziare all’audizione richiesta per rendere oralmente le proprie controdeduzioni a fronte dei fatti contestati.

I fatti di causa

Il caso di specie trae origine da un licenziamento intimato per giusta causa ad un dipendente di Poste Italiane S.p.A. per abuso della propria posizione gerarchica, avendo indotto alcuni colleghi ad attivare carte prepagate Postpay in violazione di alcune procedure interne.

Il dipendente, nel corso del procedimento disciplinare culminato con il provvedimento espulsivo, aveva richiesto, nei termini previsti, di essere sentito oralmente in merito ai gravi fatti contestati. Lo stesso, tuttavia, una volta convocato a difesa, per ben due occasioni, aveva domandato il differimento dell’incontro sulla base di allegati certificati di malattia.

Nei giudizi di opposizione e di reclamo nel rito Fornero, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Bologna, confermavano la legittimità del licenziamento. Ciò in ragione del fatto che la società datrice di lavoro aveva fissato una data per l’audizione richiesta dal dipendente, rinnovandola per la sua mancata presentazione alla prima delle due a causa di malattia. La società aveva, altresì, preavvertito il dipendente della propria esigenza di esaurire con la seconda data il procedimento disciplinare rispetto alla previsione della contrattazione collettiva. Come se non bastasse il lavoratore veniva invitato a presentare ulteriori giustificazioni scritte che, tuttavia, ometteva.

Avverso la decisione di merito il dipendente proponeva ricorso in Cassazione censurando, fra le varie, la lesione del proprio diritto di difesa in fase disciplinare, poiché la società non aveva concesso il secondo dei due differimenti dell’audizione orale dallo stesso richiesti per malattia.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso del lavoratore, ha ritenuto l’operato della società datrice di lavoro corrispondente ai generali principi di correttezza e buona fede contrattuale. Infatti la stessa, dapprima, aveva concesso il differimento del primo incontro, e, successivamente, aveva preavvertito il lavoratore dell’indisponibilità a concedere una terza data. Ma non solo. La Società aveva invitato il lavoratore a rendere per iscritto le proprie controdeduzioni così da non incorrere in decadenza per tardività del provvedimento di recesso, sulla base della previsione della contrattazione collettiva di settore.

Secondo la Cassazione, pur essendo vero che il lavoratore, nell’ambito del procedimento disciplinare, ha il diritto di essere sentito oralmente dal datore di lavoro, non è altrettanto vero che lo stesso abbia il diritto al differimento dell’incontro sulla base dell’eventuale stato di malattia. La Cassazione, infatti, specifica che “la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l’impossibilità di presenziare all’audizione personale richiesta, occorrendo che egli ne deduca la natura ostativa all’allontanamento fisico da casa (o dal luogo di cura), così che il suo differimento a una nuova data di audizione personale costituisca effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile».

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24492 del 1° ottobre 2019, ha chiarito la corretta portata e applicazione dell’articolo 5, comma 14, della Legge n. 638 del 12 settembre 1983. In particolare, la stessa ha affermato che il giustificato motivo di esonero del dipendente in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza però potersi ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità.

I fatti di causa

Nel caso di specie un dipendente, senza aver dato alcuna preventiva comunicazione al datore di lavoro, era risultato assente alla visita medica di controllo domiciliare effettuata dall’Inps. Il dipendente, in sede disciplinare e processuale, si era giustificato affermando che, in occasione della visita, aveva accompagnato il figlio di sette anni in ospedale per un ricovero ordinario.

Nei giudizi di merito sia il Tribunale che la Corte di Appello territorialmente competenti avevano accertato la legittimità della sanzione disciplinare della multa irrogata al dipendente dalla società sua datrice di lavoro.

In particolare, la Corte distrettuale, nel confermare la decisione di primo grado, aveva evidenziato che solo un ricovero urgente in orario corrispondente alla visita fiscale avrebbe potuto giustificare l’assenza del dipendente dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità, mentre il ricovero ordinario (o visita di controllo) non aveva alcuna caratteristica dell’urgenza.

In ogni caso, ad avviso della Corte d’Appello, la situazione di specie non avrebbe precluso la possibilità di una previa comunicazione dell’assenza al datore di lavoro.

Avverso la decisione di merito ricorreva in cassazione il dipendente.

L’orientamento della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta l’applicazione fatta dalla Corte d’Appello dell’art. 5, comma 4, della Legge 638/1983, secondo cui il giustificato motivo di esonero del dipendente in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore. Detto motivo corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità. Il giustificato motivo di esonero deve, infatti, consistere in un’improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità.

Di conseguenza ai fini dell’accertamento della legittimità dell’assenza deve accertarsi la sussistenza del nesso di causalità tra il momento in cui si verifica la situazione d’urgenza e quello dell’allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità. Tale nesso, nel caso di specie, sarebbe sussistito al massimo durante l’orario notturno (quando il lavoratore aveva accompagnato il figlio al primo accesso al Pronto soccorso), ma non era ricorso al tempo della visita fiscale. Questa, infatti, era avvenuta in tarda mattinata, quando non era stata dimostrata dal lavoratore alcuna urgenza idonea a giustificare l’allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità nonché il mancato previo avviso al datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha così dichiarato inammissibile il ricorso del lavoratore, condannandolo alle spese di lite.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17514 del 4 luglio 2018, ha ritenuto giustificato il licenziamento disciplinare intimato all’autista di pullman di un’impresa di noleggio privato che, durante un lungo periodo di assenza dal lavoro per infortunio in itinere, era stato scoperto mentre lavorava presso un parcheggio di autovetture. In pari data, il 4 luglio 2018, la Corte di Cassazione ha emesso un’altra ordinanza, la n. 17424, in cui ha invece affermato che è illegittimo il licenziamento comminato ad un dipendente inabile al lavoro per una gastroenterite, il quale, nel periodo di assenza, aveva svolto in proprio un’attività di tinteggiatura di esterni. Le predette conclusioni, apparentemente opposte, trovano in realtà il loro punto di incontro nel principio in base al quale lo svolgimento di altra attività lavorativa durante l’assenza dal lavoro per malattia non è automaticamente riconducibile ad un illecito disciplinare. Ciò in quanto è necessario verificare se tale attività risulti incompatibile con la condizione di morbilità o sia idonea ad impedire o ritardare la guarigione. Proprio alla luce di quanto sopra, la Corte, nella sentenza n. 17514, ha ritenuto che le azioni compiute dal lavoratore “apparivano ictu oculi incompatibili con la denuncia di infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie”. Al contrario, con ordinanza n. 17424, la Corte ha accertato che “lo svolgimento dell’attività (extra) lavorativa durante la malattia non fosse incompatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, né determinasse un pregiudizio al normale recupero delle normali energie psico-fisiche”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017, ha affermato che lo svolgimento da parte del dipendente malato di una attività lavorativa durante la malattia non sempre giustifica un licenziamento in tronco. I giudici di legittimità nel decidere in tal senso hanno richiamato quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’espletamento di attività lavorativa in costanza di malattia costituisce illecito disciplinare allorquando (i) faccia presumere l’assenza della malattia stessa oppure (ii) pregiudichi o ritardi la guarigione ed il conseguente rientro in servizio. Con specifico riferimento al caso in esame la Cassazione ha chiarito che la condotta del dipendente malato – consistente nell’essersi recato con la propria autovettura presso l’esercizio commerciale del figlio per svolgervi attività operative, quali quelle relative allo spostamento di piccoli carichi nonché alla movimentazione di una saracinesca – non ha costituito di per sé violazione dei doveri di correttezza e buona fede cui lo stesso deve sottostare al fine di non ritardare la guarigione. Ciò in quanto l’attività extra lavorativa del dipendente malato era così modesta da poter essere posta in essere senza attentare alla integrità fisica e, dunque, senza poter procrastinare inutilmente i termini di guarigione, con conseguente illegittimità del recesso datoriale adottato nei suoi confronti.